Questa mattina Melchior Wathelet, segretario di stato responsabile del bilancio, delle politiche dell’immigrazione e dell’asilo, delle politiche per la famiglia e delle istituzioni culturali federali (del partito belga Cdh - Centro Democratico Umanista) era l’ospite del programma d’informazione radiofonico Matin Première.

Date le sue numerose competenze, non era facile indovinare il motivo di quell’invito. Ingenuamente ho pensato che avrebbe parlato dei rifugiati pachistani che, in pieno centro di Bruxelles, portano avanti uno sciopero della fame da due settimane. Secondo i medici che li seguono, due di loro potrebbero morire da un momento all’altro. Ma poiché non sono ancora morti, il tema del giorno, a Matin Première, era un altro (le minacce che pesano sull’economia belga).

Ieri Aamir e i suoi 23 compagni hanno organizzato una conferenza stampa a rue Dansaert, nello stabile che occupano dal 19 giugno. Aamir ha raccontato che sono fuggiti dal nord del Pakistan, al confine con l’Afghanistan, e che vivono qui da anni. Vorrebbero farlo legalmente, ma le loro richieste di asilo sono state respinte perché non hanno presentato sufficienti prove dei rischi che corrono in patria (il cadavere di un parente? una lettera minatoria firmata da un taliban?).

Pochi giorni fa, sempre a Bruxelles, le autorità hanno concesso a un gruppo di 85 rifugiati afgani un permesso di soggiorno di sei mesi “in via del tutto eccezionale”. Alcuni di loro hanno rifiutato l’offerta, giudicata insufficiente. I sans-papiers chiedono criteri di regolarizzazione permanenti, non “eccezioni” (vedi i nostri decreti flussi). Spesso, però, sono così disperati da accettare anche un permesso di soggiorno temporaneo. O da lasciarsi morire.

Aggiornamento: ieri sera, il 19 giugno, Aamir e i suoi compagni sono stati costretti a lasciare l’edificio che occupavano. Quattro di loro sono stati ricoverati, gli altri lasciati in strada. Come spiegano in questo servizio, mandato in onda poco prima dell’intervento della polizia a rue Dansaert, il palazzo è di un Cpas (Centre public d’action sociale). E i Cpas sono strutture pubbliche che assicurano “il benessere di ogni cittadino”. “Mi sono sempre dedicato alla difesa della dignità umana, dell’uguaglianza per tutti, della giustizia sociale e della solidarietà, indipendentemente dallo status o dalla nazionalità delle persone”, scrive il presidente del Cpas di Bruxelles, Yvan Mayeur, sul suo sito. Poteva risparmiarsi l’ultima parte.

Intanto gli afgani che avevano rifiutato il permesso di soggiorno di sei mesi ne hanno ottenuto uno di un anno. Secondo quale logica? Mistero.

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