Bruxelles, 20 novembre 2013 ([Alberto Campi][1] © 2013)
Da quasi tre mesi, accompagno il Collettivo dei rifugiati afgani nella sua lotta per la dignità. Insieme, siamo stati confrontati a diverse forme di violenza. Una violenza istituzionale, attraverso il rifiuto di concedere un titolo di soggiorno a civili in fuga da un paese dove è presente l’esercito belga […]. Una violenza politica, attraverso il tentativo, a volte riuscito, di rimpatriare questi civili senza l’autorizzazione del governo afgano […]. Una [violenza della polizia][2], che usa cani, cariche, lacrimogeni e manganelli contro uomini, donne e bambini.
Si apre così il comunicato in cui venerdì un giovane belga, Grégory Meurant, ha annunciato di essersi unito allo sciopero della fame cominciato una settimana prima da Anissa e Clément, altri due ragazzi che fanno parte del Comitato di sostegno dei rifugiati* afgani. Ieri li ha seguiti Loïc Decamp, mentre Anissa ha pubblicato un nuovo [comunicato][3] in cui tornava sulle ragioni della sua scelta. Titolo: “Mi vergogno di essere belga”.
**Da metà novembre, ** dopo una serie di sgomberi e arresti, i rifugiati sono accampati nella chiesa del Béguinage, nel centro di Bruxelles. Le loro rivendicazioni: una moratoria sulle [espulsioni][4] verso l’Afghanistan, la liberazione degli afgani detenuti nei centres fermés (i CIE belgi), un titolo di soggiorno per gli afgani la cui richiesta d’asilo non è stata accolta, una seria valutazione della situazione in Afghanistan e un’altrettanto seria riflessione sulla politica migratoria belga. Chiedono anche l’apertura di un’inchiesta parlamentare sulla morte di Aref, un giovane afgano che, dopo essersi visto rifiutare l’asilo per la quarta volta, ha accettato, all’inizio del 2013, un cosiddetto retour volontaire, un rimpatrio volontario. Poco dopo è stato ucciso in circostanze ancora da chiarire, ma in ogni caso, per il Collettivo degli afgani, “con la complicità del Belgio”.
Intorno a queste decine di uomini, donne e bambini sta crescendo un forte movimento di solidarietà. I mezzi d’informazione seguono la mobilitazione, a volte spingendosi oltre la semplice cronaca. La [Libre Belgique][5], per esempio, ha cercato di scoprire se le espulsioni verso l’Afghanistan avvengono davvero senza l’autorizzazione delle autorità afgane. Il consolato afgano ha confermato. Il Belgio usa un documento molto comodo, il [lasciapassare europeo][6], creato nel 1994 proprio per aggirare questo ostacolo.
Le autorità belghe intanto sono tornate alla buona vecchia tattica: fingersi sorde. Il 22 novembre il direttore dell’Office des étrangers (l’ente responsabile dell’identificazione e dell’espulsione delle persone senza documenti), Freddy Roosemont, è andato al Béguinage per promuovere i rimpatri volontari. Ecco come è stato accolto:
Il Belgio non è l’unico paese europeo dove la politica di asilo verso gli afgani è contestata. Non è nemmeno quello che esegue più espulsioni: il primato va a Gran Bretagna, Norvegia, Svezia e Danimarca. Proprio in Svezia è prevista, il 6 dicembre, una giornata di mobilitazione nazionale. La contestazione ormai è arrivata fino a Kabul, dove a novembre si è svolta la prima manifestazione contro i rimpatri di afgani.
In altre parti dell’Unione europea, altri rifugiati hanno cominciato ad autorganizzarsi, per esempio a Vienna, dove il Refugee protest camp ha da poco compiuto un anno. “Siamo noi, i rifugiati, a fare questa manifestazione, e siamo noi che la vogliamo. È la nostra lotta. Ringraziamo tutti per il loro aiuto, ma non permetteremo a nessuno di usarci”, spiegava nel febbraio del 2013 uno di loro, Salaheddine Najah, esprimendo quella stessa volontà di condurre la lotta per i propri diritti senza affidarsi a intermediari, per quanto solidali.
Le sue parole sono citate in un recente articolo della filosofa Marina Gržinić sui “Processi di razzializzazione, isolamento e discriminazione nell’Unione europea”, articolo che prende spunto proprio dal Refugee protest camp. Finora lo sciopero della fame è stato l’atto estremo scelto da alcuni rifugiati, spesso nell’indifferenza generale, mentre i loro portavoce - ong, avvocati, attivisti - tentavano il dialogo con le autorità. Oggi le dinamiche di lotta stanno cambiando. I rifugiati rompono gli schemi occupando gli spazi pubblici, rifiutando la compassione ed esigendo un dialogo tra pari con tutti. E sfidano così, osserva Gržinić, quella bonne conscience européenne (la coscienza a posto degli europei) che lo studioso del postcolonialsimo Achille Mbembe ha definito “un intreccio di laissez-faire, indifferenza, volontà di non sapere e prontezza nello scaricare le proprie responsabilità”.
*Per “rifugiato” si può intendere chi ottiene l’omonimo status o chi si definisce tale: una persona che è fuggita dal proprio paese, ne ha raggiunto un altro in cerca di protezione, ha chiesto l’asilo e non l’ha ottenuto, e ora vive nella clandestinità o magari si trova in un CIE in attesa di essere espulsa. Qui uso la seconda accezione.
Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin
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