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**Abdellatif Kechiche **, La vie d’Adèle

Concorso, Francia/Belgio/Spagna 179’

Immaginate una storia d’amore assieme pudica e impudica (nel senso che dipende dai momenti: i comportamenti contraddittori fanno parte dell’agire umano e questo film ne è pieno) tra due ragazze di oggi, una storia gay quindi, filmata nel modo più naturale possibile e senza manierismi di sorta che la edulcorerebbero (ammiccamenti allo spettatore, eccesso di situazioni umoristiche e “tenere” per tenere agganciato lo spettatore su un tema ritenuto destabilizzante per lo spettatore medio…insomma tutte le ruffianerie che sono un po’ tipiche del cinema italiano d’autore e non) come era in parte il caso del grazioso (ma nell’insieme tutt’altro che disprezzabile) Bellas mariposas di Salvatore Mereu che aveva un uguale punto di partenza (durante l’estate due ragazze ancora adolescenti s’innamorano) ma con sviluppi nell’insieme molto diversi.

Soprattutto, qui non è questione di fare un film grazioso che non disturbi troppo lo spettatore italiano, specie quello benpensante. No, qui siamo nella grazia. Quella vera, quella semi-miracolosa. Ma che vuole dare uno scossone violento. Si dà un simbolico colpo in testa allo spettatore, lo si “disturba”, per il tema, l’esibizione dei corpi e della passione – incredibilmente espliciti – avvolgendo però la “clava” nei panni della leggerezza, per la recitazione, la stessa scelta dei volti delle due giovani attrici, la fluidità dei movimenti di camera e del montaggio, che costituiscono una vera scrittura. Splendido paradosso. È la scuola Kechiche, da La schivata a Couscous. Frequentata occasionalmente, ma con notevole successo, anche da Laurent Cantet con La classe (palma d’oro a Cannes nel 2008).

Una delle cose più belle, forti e profonde del film è che Adèle ci viene mostrata da Kechiche in tutti i suoi stati: di volta in volta entusiasta, imbronciata, insicura, triste, allegra, disperata. Il film potrebbe essere sottotitolato: “Galleria degli straordinari stati d’animo di Adèle”. Ha una fisicità incredibile questa ragazza (Adéle Exarchoupolos, nella realtà). Alla fine per lo spettatore è difficile separarsi da lei. La quale è davvero vera, permettete il bisticcio di parole. Non sarebbe la stessa cosa se l’attrice fosse un’altra. La sua freschezza, il suo essere bella e sensuale ma non troppo, un po’ bambina, anche qui senza esagerazione, la rendono unica.

Vediamo una quindicenne vivere una storia d’amore con una giovane donna dai capelli blu. Vediamo quest’ultima, Emma (interpreta da Léa Seydoux, astro nascente del cinema francese), cambiare la vita di Adèle che è etero, o forse, più esattamente, bisessuale (sia prima che dopo la sua storia con Emma è questione di sue storie con ragazzi, esplicite o implicite). Vediamo il film lasciare la “piccola” grande Adèle in mezzo all’incertezza, all’indefinitezza (anche se, unico punto fermo, l’amicizia dai sentimenti profondi con Emma resta tutta). Non so se ci si rende conto di quanto il regista osi: rendere appassionante per tutti una storia d’amore gay che coinvolge una giovane donna con una quindicenne e poi lasciare la seconda nell’incertezza.

Ma “l’abbandono” operato dal regista alla sua protagonista sembra volto a dire che questa è la condizione della maturità, perché apre strade di vera consapevolezza.

Per chiudere le parole di Nicole Kidman, uno dei membri della giuria che hanno impalmato Adéle (riprese dal Corriere del 27 maggio): “Quando dimentichi di essere in un teatro, quando non ricordi che stai vedendo fotogrammi… ebbene vuol dire che hai davvero qualcosa in cui credere e che vuoi sostenere”. E come raggiungi questo? Con la massima grazia, con la massima naturalezza. Perché, come scriveva Pasolini, “il naturale è sempre senza errore”.

Post scriptum: il romanzo a fumetti da cui è tratto il film,

Le bleu est une couleur chaude di Julie Maroh, non ho ancora avuto modo di leggerlo. Ma da critico di fumetti, per Internazionale in particolare, sono davvero perplesso su quello che ho potuto visionare sul net. Anche l’idea di una ragazza dai capelli blu è ripresa da uno dei capolavori del fumetto francese, La femme piège di Enki Bilal (che poi lo stesso Bilal ha ripreso nel suo film Immortal ad Vitam prima che gli americani gli rubassero di nuovo l’idea, come fece Emmerich in Stargate con gli dei egizi-extraterrestri de La fiera degli immortali). Se la mia impressione è giusta, restano però un titolo molto bello, l’originalità dell’idea di base e il coraggio nell’affrontare questo tema in un fumetto che mi pare rivolto a tutti. Del resto, un ottimo critico e teorico del fumetto come Christian Rosset parlando del film di Kechiche ha rilevato che non è la prima volta che un regista di genio realizza grandi film da mediocri lavori preesistenti. E citava il caso di Shining di Kubrick.

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