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**[La jaula de oro][1]***, di Diego Quemada-Díez, Messico 110’*
“Qué viva México!”, diceva Pancho Villa. E noi lo ribadiamo alla visione di questo film – gioiello di Un certain regard e vincitore in quella sezione del premio Un certain talent – dalla strana nazionalità (ma è una stranezza nelle corde di Internazionale): girato tra Guatemala e Messico (più una piccola appendice negli Usa) e prodotto dal Messico, il suo regista, classe 1969, è però spagnolo, all’esordio nel lungometraggio e con appena tre cortometraggi al suo attivo.
È potente questo film, senza essere un capolavoro. Ma il regista nell’insieme sa tenersi come un equilibrista tra diversi registri. È dramma, viaggio, iniziazione alla vita, morte (fisica e interiore), disperazione, comprensione ed elevazione pagata a duro prezzo, fino allo svuotamento di ogni dimensione umana del sogno, dell’illusione. È micro-odissea, micro-epica, ma immersa nella prosaicità della vita del migrante. È fiction e documentario.
**Qué viva México!***, di Sergej M. Ėjzenštejn*
Tre adolescenti guatemaltechi, Juan, Sara e Manuel, decidono di fuggire dalla miseria e infantilmente intraprendono di dare concretezza al sogno, alla terra promessa, all’oro e alla felicità, raggiungendo la California. Il film è un susseguirsi, appassionante e denso, di spostamenti insieme ad una vasta moltitudine di migranti – vera folla di anonimi – sui tetti dei treni, per una traversata del Messico. La bellezza rigogliosa della natura, i suoi scenari e la sua maestosità da paradiso potenziale, fanno da contrappunto al progressivo penetrare negli inferi, al dissolvimento del sogno dell’infanzia e dell’adolescenza. Tappe nei centri abitati fanno da pausa a questo lungo viaggio on the trails, e lì ci sono i piccoli momenti di gioia, le feste popolari, la gente che li accoglie con semplicità e naturalezza così come i contadini gioiosamente tirano frutta in modo da nutrire i viaggiatori clandestini appollaiati sui tetti dei treni. Il popolo è umano. Piccole epifanie in un film visivamente lussureggiante come la natura filmata. Sono invece i poliziotti o le gang di narcotrafficanti a rovinare tutto, diavoli dell’inferno indistinguibili gli uni dagli altri, se non per le divise.
Sono i micro episodi, la bellezza di alcune scene (proprio come nella vita di tutti sono i piccoli momenti che, a distanza, si rivelano grandi momenti di vita), la qualità umana di cui trasudano i giovani attori e la loro perfetta interazione, a rendere indimenticabile il film. Uno dei suoi principali meriti è quello di aver indagato anche il potenziale razzismo tra classi povere, il razzismo dei marginali verso gli ultra-marginali. Il razzismo è un demone dell’uomo. C’è sempre bisogno di qualcuno da odiare, da marginalizzare. Il razzismo pare essere come le bambole matrioska: quasi infinito in un movimento verso il basso.
**Qué viva México!***, di Sergej M. Ėjzenštejn*
Sta qui il senso dell’introduzione del quarto personaggio, un ragazzo indio che non spiccia una sola parola di spagnolo, che si attacca ai tre senza più mollarli, con l’indifferenza di uno, l’estrema ostilità dell’altro (che si rivelerà poi il vero protagonista del film e il depositario dell’esperienza/violenza di vita), e la simpatia dolce espressagli invece dalla ragazza (che veste come un ragazzo e si appiattisce i seni fasciandoli). Sarà quindi anche un viaggio alla scoperta e alla conoscenza de “l’altro”. La guerra tra poveri è infatti una delle attuali strategie della globalizzazione. Anche per i più umili, insomma, c’è sempre un “altro” da sopportare e, conoscendolo poi realmente, magari da apprezzare.
È pure l’esperienza verso il quale è portato lo spettatore. L’indio non è mai tradotto, sottotitolato, come a rimarcarne la distanza, l’alterità. E lo spettatore si affezionerà gradualmente a quest’altro personaggio destinato a divenire essenziale per il ragazzo “ostile” (che metterà in gioco la sua vita per salvarlo dai narcotrafficanti), destinato a divenire uno dei tanti anonimi colpiti da un cecchino delle guardie di frontiera californiane, destinato, infine, ad essere abbandonato dal suo amico “ostile” perché impossibilitato a dargli una degna sepoltura per non soccombere anche lui alle pallottole vigliacche. Dov’è la civiltà?
La rivoluzione messicana di Pancho Villa ed Emiliano Zapata
Il ragazzo “ostile” dalla sempiterna maglietta arancione come gli agrumi californiani (i quali peraltro crescono in agrumeti dove sono ampiamente sfruttati i migranti), ha perso la sua ostilità, la sua protervia, la sua testardaggine, è svuotato. Pulisce i pavimenti dai resti, dai rimasugli di carne, dalle vestigia della vita, nella grande, asettica, macelleria dove ha trovato lavoro. Un film che si apre con una camminata tra gigantesche discariche di rifiuti, tra rimasugli e scarti di tutti i tipi, e si chiude con scarti di carne. La metafora degli esseri umani trattati come tali nella nostra indifferenza generale è fin troppo evidente. Come dice uno dei migranti sul tetto di un treno entrando nel nero di un tunnel: “Veniamo dal nulla e finiremo nel nulla” (cito a memoria). E fanno impressione i titoli di coda con la lunghissima sfilza di nomi di migranti che hanno partecipato al film, cinque colonne simultanee fitte di nomi che quasi richiamano le liste dei monumenti ai caduti.
Non resta allora che il bianco della neve, simbolo di purezza. Fa la sua apparizione “reale” alla fine, dopo aver puntellato in maniera surreale la narrazione, come a significare il desiderio di un magico “altrove” sconosciuto. Ma quando infine giunge, nulla è più come prima. Prima, quando ancora si sognava.
È duro il film. Anche se a tratti diverte, a tratti fa perfino un po’ sognare, più spesso atterrisce. Ma sempre avvince e affascina. È questa la forza dell’arte. Riesce a trasmettere il “bello” anche contando situazioni terribili al limite dell’umano. Sfida il nostro coraggio e la nostra etica interiore per spingerci a entrare dentro le cose, a cominciare dall’interiorità di chi soffre. Se il documentario o reportage giornalistico – schematizzando – resta insostituibile per denunciare un problema in maniera analitica, l’artista ha invece quest’altra possibilità principe. La miglior riprova sta nel fatto che, in genere, il pubblico ha meno difficoltà a vedere documentari o reportage più o meno giornalistici trattanti gravi questioni rispetto ad un film di fiction d’autore o un documentario d’autore, perché spesso gli suscitano un angoscia più grande. Ci si deve calare per intero.
Del resto il lettore d’Internazionale, spostandoci in ambito fotografico, è spesso confrontato ad ambedue i fronti attraverso i reportage da un lato e i portfolio d’autore del critico Christian Caujolle dall’altro, spesso incentrati su grandi fotografi e commentati dal critico in maniera molto sensibile, oltre che con pertinenza storico-critica.
**Passioni e desideri***, di Fernando Meirelles*
Ed è proprio questo suo saper essere in linea con la tendenza di tanto cinema d’autore contaminato dall’umiltà e dalla discrezione del documentario, oltre che dal suo verismo, unito ad una notevole capacità di cesellare nella naturalezza figure umane realmente vive, che consente a La jaula de oro di toccare grandemente il cuore.
Penetra la nostra interiorità e ci fa entrare con fisicità nel problema, ma senza alcuna magniloquenza, senza sostanziali ridondanze, stile Fernando Meirelles. Citiamo lui, regista messicano “maestro” di fiction dimostrative, ridondanti – in questo momento nella sale con Passioni e desideri (un film che risale in realtà al 2011) di cui salviamo solo la scena dove l’atto di violenza sessuale è rovesciato in un piccolo grande gesto di delicatezza –, anche perché Meirelles figura nei ringraziamenti finali insieme ad altri registi messicani noti, e di tutt’altro genere, come Carlos Reygadas. Quemada-Díez, invece, gioca qua e là con alcune (micro)situazioni di maniera che potrebbero forse figurare in un film alla Fernando Meirelles ma l’approccio neo-documentaristico scelto, come detto, permette al regista di mantenersi in equilibrio.
Al crocevia tra uno sguardo/telecamera che si mette allo stesso livello terreno degli esseri umani filmati coniugato a personaggi e situazioni che hanno qualcosa del romanzo, anche picaresque (a tratti di maniera). Del Meirelles alla rovescia.
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