C’è un libro del 2011, scritto dal giornalista Simon Reynolds, che ha fatto molto discutere. Si chiama [Retromania][1] ed è un brillante saggio sul rapporto tra cultura pop e nostalgia. Che ci ricorda una cosa: più la tecnologia avanza, più per noi è facile guardarsi indietro. E perfino ricordare con una punta di malinconia cose che non abbiamo mai vissuto.
Secondo Reynolds questo è un male per la musica: il peso del passato sta schiacciando il pop, che non sa più rinnovarsi. Ecco, Random access memories manda un po’ in crisi questa teoria. E non è un caso che lo stesso giornalista inglese sia rimasto talmente incuriosito dal disco da dedicargli questa riflessione [sul New York Times][2].
I Daft Punk hanno fatto un piccolo miracolo: un disco di musica elettronica che non ha età, né coordinate. Che mescola presente e passato come in una riproduzione casuale su iTunes o una playlist di video su YouTube.
Lo stupore all’inizio è forte, ascoltando le nuove canzoni del duo francese. Sembrano uscite da una compilation di disco anni settanta. Ma piano piano si capisce che non siamo poi così distanti dal viaggio spaziale di [Discovery][3]. Tutto, alla fine, suona come un disco dei Daft Punk.
Random access memories è un album pieno di ospiti prestigiosi. Talmente tanti che conviene dare un’occhiata [a questa lista][4]. È una raccolta di elettronica “suonata”, con parti di batteria vigorose e con chitarre funky in primo piano, spesso suonate da Nile Rodgers, fondatore dei [mitici Chic][5]. Non mancano parti orchestrali, che dimostrano come la colonna sonora di Tron non sia stata solo un incidente di percorso.
Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo hanno messo in piedi un progetto mastodontico, nato dopo otto anni di lavoro tra Parigi, Los Angeles, New York (dove il gruppo ha fatto tappa agli Electric Ladyland studios, quelli fondati da Jimi Hendrix).
L’enorme ambizione è già tutta nell’apertura di Give life back to music, dove le voci robotiche del duo francese si poggiano su un arrangiamento che ricorda gli Earth, Wind and Fire.
Dopo il brillante numero r&b di The game of love arriva il primo pezzo da da ricordare: Giorgio by moroder, una suite a metà strada tra disco e prog rock costruita su un monologo di Giorgio Moroder, compositore e produttore italiano considerato tra gli inventori della musica elettronica moderna.
Non mancano momenti di puro pop. Within e Instant crush, cantata da Julian Casablancas degli Strokes, si spostano verso territori anni ottanta.
Poi arriva il secondo brano memorabile: Lose yourself to dance. La chitarra di Nile Rodgers sembra uscita da un pezzo di Prince. E Pharrell Williams canta come Michael Jackson. A fargli il controcanto, c’è il solito robot dei Daft Punk. Stavolta sembra quasi disperato, mentre ripete “Come on”.
Touch è un altro brano di grande qualità. A proposito di retromania, è stata registrata con la collaborazione di Paul Williams, cantante e compositore, tra i protagonisti del cult movie Il fantasma del palcoscenico. Fantascienza, disco dance alla Gloria Gaynor e toni da musical. Touch raccoglie tutto in un unico brano.
Se proprio vogliamo trovare un difetto all’album, come già hanno scritto in tanti, è quello della lunghezza. La stessa Get lucky funzionava meglio nella più breve versione radiofonica.
Il finale del disco si sposta ancora di più verso lo spazio profondo, e ricorda da vicino brani del passato come Night vision e Veridis quo. Fa eccezione la sincopata Doin’ it right, arricchita dalla voce di Panda Bear, preso in prestito dai geniali Animal Collective. La conclusione è affidata alla strumentale Contact.
Non so se Random access memories diventerà “il disco dell’anno”. È presto per dirlo. Ma è sicuramente un album coinvolgente, un raffinato inno alla musica pop. Così nostalgico e retrò che, in fondo, è senza tempo.
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