Tutti noi, tutti, tutti
cerchiamo di salvare
le nostre anime immortali, certi modi
a quanto pare sono più
complicati e misteriosi
di altri. Ci stiamo
divertendo qui. Ma speriamo
che ci sarà rivelato tutto, presto
Raymond Carver
È stato detto che conservare una lettera è come cercare di preservare un bacio. Lo ha detto lo scrittore John Cheever, che in vita ha spedito molti baci via posta ad amici, colleghi e amanti, cercando poi di convincerli a distruggere le sue parole. Qualche anno dopo la sua morte, il figlio Benjamin ha tradito la volontà del padre di non pubblicarle mai e ne ha fatto una raccolta.
Le lettere di un artista pubblicate da chi gli sopravvive sono in genere il frutto di una carognata, ma al netto del chiacchiericcio che spesso fanno nascere, e considerato il fatto che spesso servono agli eredi per pagare mutui e debiti, possono essere lette come manuali di sopravvivenza alle giornate, ai mesi e agli anni storti che a volte capitano in malasorte a tutti noi.
Fin da ragazzo Cheever ha oscillato tra le varie storture della vita, alternando la decenza del buon borghese all’oscenità dell’uomo divorato dai suoi desideri. Chiunque sarebbe sceso da questa altalena con le vertigini, lui le volte che ha messo i piedi a terra ha scritto pagine incantevoli.
Stanno dentro romanzi realisti come Cronache della famiglia Wapshot; in opere sperimentali come Bullet park; in Una specie di solitudine, i diari che scrisse perché fossero letti; nei tanti racconti che gli hanno fatto vincere il premio Pulitzer e guadagnare la definizione frusta di “Čechov dei sobborghi americani” (conoscete uno scrittore di racconti che a un certo punto non sia stato paragonato all’autore russo?). Cheever è stato il cantore di storie minime di solitudini massime, consumate tra coppie innamorate o sfinite, tra amori sfasciati, felici e monotoni, ipocriti e veri. Interni borghesi, per lo più, o infernali come quelli del carcere di Falconer, in cui i conflitti del protagonista condannato per aver ucciso il fratello esplodono in tutta la loro drammaticità, per poi essere sanati dalla letteratura:
Farragut raggiunse la parte anteriore dell’autobus e scese alla fermata successiva. Mettendo piede in strada, vide che aveva perso la paura di cadere e tutte le altre paure dello stesso tipo. Teneva la testa alta e la schiena dritta e camminava benissimo. Rallegrati, pensò, rallegrati.
È così che la pensava Cheever:
I bambini annegano, donne bellissime vengono maciullate in incidenti stradali, le navi da crociera affondano e gli uomini muoiono di morte lenta nelle miniere o nei sottomarini, ma non troverete niente di tutto questo nei miei racconti. Nell’ultimo capitolo la nave rientra in porto, i bambini vengono salvati, i minatori vengono estratti da sottoterra.
I gioielli dei Cabot
L’arte ha questo, è consolatoria, mentre la realtà è fatta di un’altra grana. Cheever la svela nei diari e nelle lettere. Adelaide Cioni ha tradotto i primi e ha rinunciato alle seconde perché “vivere per mesi nell’intimità di un uomo come Cheever era stata un’esperienza troppo intensa”. Le ha poi tradotte lo scrittore Tommaso Pincio.
Cheever è stato un uomo con un rasoio in mano che ha usato la lama per confessarsi e conoscersi. Un provinciale nato nel 1912 a Quincy, in Massachusetts, un autore che non si è mai sentito all’altezza dei salotti borghesi di New York, un bisessuale che in pubblico disprezzava gli omosessuali, un marito che non ha mai messo in discussione il suo matrimonio ma neanche la sua fame di uomini e donne, un alcolizzato, un autore del New Yorker assalito dai dubbi di essere un artista mediocre.
Questo è il suono delle rasoiate:
Per cercare di ristorare una parvenza di scopo e di bellezza, finisci col bere troppi cocktail, col parlare troppo, col fare visita alla moglie di qualcuno, col fare qualcosa di stupido e osceno e il mattino dopo desideri essere morto. Diari
E questo quello delle confessioni:
Sembra proprio che, giunto a metà della mia vita, io non abbia fatto nessun progresso, a meno che non sia da considerarsi un progresso la rassegnazione. C’è il momento erotico del risveglio, che è come nascere. C’è la luce o la pioggia, un simbolo immediato grazie al quale si ritorna al mondo visibile, forse al mondo adulto. C’è l’euforia, la sensazione che la vita non sia niente di più di ciò che appare, luce e acqua e alberi e persone piacevoli che rischiano di andare in mille pezzi per colpa di un collo, di una mano, di un’oscenità scritta sulla porta del gabinetto. C’è sempre, da qualche parte, questo accenno di aberrante carnalità (…) Non riuscirei mai a lavarmi via di dosso l’oscenità.
Diari
Le lettere sono più immediate e impure, ma contengono comunque cinque pezzi che vale la pena tirare fuori. Cinque consigli che tornano utili per quando abbiamo il sangue nero e le ossa fragili, e tutto ciò che ci circonda ci sembra terribilmente insopportabile.
Come pattinare sul ghiaccio
Da quanto scritto finora può sembrare che l’unica luce che abbia illuminato la vita di Cheever sia stata quella della disperazione: e non è così. È stato detto da Francesco Longo, e a ragione, che un tono forte nella sua scrittura “è l’audacia nel raccontare la serenità, o addirittura la felicità, e di essere a volte sfacciatamente edificante”. Lo è anche nelle lettere, spensierato e sfacciato e naif. E persino quando ritorna al suo macigno morale, ha la forza e la leggerezza per non restarne del tutto schiacciato e tradurre in poche righe quello che Albert Camus scriveva del mito di Sisifo. Il più scaltro tra i mortali fu punito con una pena esemplare per avere sfidato gli dèi. Ade gli impose di trascinare un masso fino alla cima di un monte, Sisifo passò l’eternità a provarci e a vederlo rotolare sempre a valle.
Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.
Albert Camus, Il mito di Sisifo
Una lettera perfetta per immaginare Sisifo felice, e per immaginarci felici anche quando l’infelicità ci secca la gola, è quella che Cheever scrive a Bill Maxwell del New Yorker.
Caro Bill,
non posso scriverti un racconto. Non posso scrivere un racconto per nessuno (…) Comincio un racconto e mi rendo conto di averlo già scritto. Non lavorare è un tormento terribile e sto ancora combattendo col bere. Ho chiesto l’aiuto di un medico ma è una situazione incerta. Un giorno per me; un giorno per l’alcol. Una bellissima attrice cinematografica che adoro – bionda, intelligente e sensibile – ha annunciato al marito di avere passato tre ore da sola con me. Seppure imbronciato, il marito non ha trovato alcunché da obiettare. L’avevo portata a pattinare sul ghiaccio.
Un saluto, John Cheever
Come sopravvivere ai propri demoni
Il ghiaccio ritorna spesso nelle carte dell’autore definito l’Ovidio di Ossining, ma non sempre come immagine di quiete. Benjamin Cheever ha trovato un appunto in cui si legge: “’Hai paura di pattinare sul ghiaccio trasparente, vero?’, ha detto mia figlia. ‘Ho notato che tu e Ben avete paura di pattinare nei punti in cui si vede il fondo’. Che abbia paura è fuori discussione. Per anni e anni ho avuto paura dell’eventualità di essere omosessuale. Non mi riesce di immaginare una fonte di paura più fondata. Avevo istinti omosessuali e i soli omosessuali che conoscevo non corrispondevano in alcun modo a ciò che speravo di diventare”.
Il rosario di relazioni clandestine di Cheeever fu lungo, ogni grano un amante, ogni amante un’esperienza necessaria affinché i sensi di colpa e la felicità avessero la pienezza della vita. Scrive nel racconto Il nuotatore che “gli amanti, in particolare gli amanti clandestini, posseggono le cose dei loro spasimanti con un’autorità che è sconosciuta nel sacro vincolo del matrimonio”. Benjamin Cheever non ha censurato né la svenevolezza che tutto questo comporta (“Oh Dio, se ti amo, se ti voglio, se ho bisogno di te”, detto a uno dei tanti uomini con cui finì a letto), né lo scandalo.
Caro ____,
questa mattina mi sono svegliato con un uccello duro e bagnato ed è bagnato anche adesso, dopo avere parlato con te, ma non solo per questo (…) è il ridere e lanciare palle di neve, è sentire te che ti lamenti della mia tosse da fumatore e delle dimensioni del mio uccello, è il tornare a ___ con te al volante e io nascosto nel sedile posteriore tra i panni da mandare in lavanderia. Ho pensato per un anno che un simile amore debba essere perverso, crudele e invertito ma non riesco a trovare alcuna traccia di ciò nel mio amore per te. Mi sembra naturale e semplice come passare un pallone da football in una bella giornata di ottobre (…)
Con amore, John
Scrive Tommaso Pincio che “John Cheever non sarebbe John Cheever se non fosse stato uno strenuo difensore della monogamia e un ancor più fiero oppositore dell’omosessualità”. Si può aggiungere che non avrebbe mai lambito la grazia nelle cose che scriveva senza le sue contraddizioni, se non avesse camminato a lungo con i suoi demoni e non avesse trovato il modo per risollevarsi dopo ogni caduta. Questo modo somiglia al rendersi conto che nel sentimento popolare che chiamiamo amore convivono fantasmi e indecenze, favole abissi e gioie, notti piene e notti bianche, che non è bello, sempre, l’amore, ma può essere semplice.
Questa consapevolezza Cheever l’ha raggiunta solo stando nel cuore della nevrosi, e cioè non lasciando mai la donna che sposò nel 1941 e con cui rimase fino alla fine dei suoi giorni. La incontrò nel 1939 a New York, mentre andava dal suo agente, dove lei aveva cominciato a lavorare. Come spesso succede nelle coppie, i due nel tempo avevano costruito versioni diverse su quel giorno. Lui diceva “sempre di essere rimasto colpito e di aver voluto sposarla all’istante”. Lei ricordava un dettaglio: le maniche troppo lunghe del cappotto di lui. “Non l’ho mai dimenticato. Lo usavamo come coperta nelle notti fredde”. Una volta Benjamin le fece qualche domanda a proposito dell’aspetto del padre in quel periodo. E lei: “Non faceva chissà quale impressione”. Mentre lui di quei primi giorni diceva: “Tutto quel che ricordo di quel periodo è il sapore dello scotch and soda”. Benjamin gli chiese com’era. Una parola: “Buono”.
Molti anni più tardi lei avrebbe pubblicato The need for chocolate & other pomes e subito dopo avrebbe attraversato un periodo difficile. Lui le regalò un portagioelli d’oro con dentro una poesia. Era il 1980, due anni dopo sarebbe morto per un cancro alle ossa. I versi fanno così:
Il bisogno di cioccolato è molto più bello
del bisogno d’oro,
e io ho sperato di procurarti
un po’ di entrambi,
mentre assieme cercavamo il fantasma dell’amore
e trovavamo qualcosa di meglio,
qualcosa di più durevole
tanto dell’oro che del cioccolato.
Come pagare le bollette
John Cheever impara il significato della parola fallimento dal padre, venditore di scarpe con problemi di alcolismo. “Quando venne al mondo la famiglia era ricca, ma col passare degli anni incappò in difficoltà finanziarie. Frederick Lincoln Cheever smise di occuparsi di scarpe negli anni venti e acquistò azioni che si tramutarono in carta straccia dopo il Crollo”, scrive Benjamin Cheever nella prefazione. I genitori si separano e lui deve rinunciare all’università. Si trasferisce a Boston, arrangia lavori e cene, prova a diventare uno scrittore: significa che dorme spesso in macchina. A ventitré anni scrive a Elizabeth Ames.
Gentile signora Ames,
mi ha allietato ascoltare il suo consiglio di investire del tempo in qualche altra occupazione che non sia la scrittura. (…) Ho fatto ogni genere di lavori, ho guidato un camion, ho lavorato in un piccolo giornale eccetera. (…) Nell’inverno del ‘33 ho avuto un impiego part-time. Nell’inverno del ‘34 ho fatto un lavoro politico. Mi sono guadagnato da vivere scrivendo sinossi per la MGM, non perché mi piaccia ma perché non posso trovare lavoro in uno stabilimento tessile o altro. (…) Giungere a un assestamento è un faccenda individuale, ci vogliono talento e coraggio. Ci sono persone che malgrado la gran quantità di amanti e gli aerei e i treni che prendono per spostarsi da uno stato all’altro, da una nazione all’altra, restano codarde e infantili. Altri invece non si muovono dalla loro città, rimangono fedeli alla moglie, eppure diventano uomini maturi e credibili. C’è poi un piccolo numero di studiosi e artisti che, mossi dall’illusione della ricerca e dalla loro opera, non vanno oltre un assestamento iniziale e li ritrovi a trent’anni o a quaranta, seduti nelle stesse stanze, a ponderare scelte irrilevanti, sempre le stesse, mentre la corrispondenza resta imbucata e la polvere si deposita sulla loro giovinezza. L’indipendenza finanziaria ed emotiva rende tuttavia impossibile una simile condizione.
E spero di sentirla presto.
Come sempre John Cheever
Come sfogare l’invidia
Capita che a uno scrittore finito sulla copertina di Time vengano chiesti pareri su altri autori. Cheever aveva una risposta abbastanza collaudata: “La scrittura non è un gioco basato sulla competizione”. Stile e cortesia. Poi la vita ha il sopravvento, e quando la vita ha il sopravvento anche i malanimi e le menzogne dell’invidia fanno capolino, dimostrando che questo sentimento è tanto miserabile quanto umano. Cheever per esempio invidiò molto John Updike, amico e autore di romanzi di successo come Corri, Coniglio. Ma le parole che scriveva alle sue spalle non gli impedirono di volergli anche molto bene e riconoscerne il valore. Due lettere lo dimostrano. Questa l’ha ricevuta la sua traduttrice russa, Tanya Litvinov:
Il mondo letterario non è pacifico come lo si vorrebbe. Con frivolezza, rivendico di essere un ingenuo, preoccupato soltanto dal Benessere Generale, e la mia ammirazione per l’opera di Saul è davvero sincera; ma Updike, che pure conosco come uomo geniale, ha viaggiato con me in Russia lo scorso autunno e sono disposto a sacrifici e disagi anche considerevoli pur di evitare la sua compagnia. Trovo che la sua magnanimità abbia un che di specioso e la sua opera sembra motivata da cupidigia, esibizionismo e un cuore di pietra.
Le auguro ogni bene, John Cheever
E questa lo stesso Updike:
Caro John,
pare che ci incontreremo a Seoul e sarà un vero piacere. Ho pensato alla possibilità di portare Mary e il mio figlio tredicenne e andare poi da Tokyo a Leningrado. A Seoul saremo ubriachi fradici, a Tokyo ci rapineranno e a Leningrado ci sbatteranno in galera. Credo che non ci incontriamo dalla volta di Cape, vale a dire da un anno, e sono impaziente di vederti di nuovo.
Il mio affetto a Mary.
Come fare i conti con tuo padre
“Mio padre morì intorno alle quattro del pomeriggio nella camera matrimoniale della sua casa di Ossining, nello stato di New York. Era il 18 giugno 1982. Da allora ho scoperto svariati modi più o meno efficaci di riportarlo indietro, di renderlo vicino e reale. Ho messo al polso il suo orologio, ho riletto i suoi libri, ho parlato coi suoi amici. Ho letto le sue lettere”. Bisognerebbe aggiungere: ho provato a farci i conti. Molti di noi provano a farli, a volte sopravvivendo e a volte no. La maggior parte delle note che Benjamin Cheever ha scritto in margine alle lettere possono essere viste come tentativi del genere, e insegnano che guardare negli occhi un padre o una madre può essere come guardare negli occhi un demone, e in quegli occhi vedere cose che non avremmo voluto vedere mai, traumi e nevrosi e destini, uno sguardo a volte insostenibile, ma peggio c’è solo evitarlo. Questo è il modo in cui un figlio fa sua la brutalità di una confessione da parte di chi l’ha messo al mondo e prova a non farsene soffocare:
Era il 6 giugno quando mi telefonò al lavoro, dodici giorni prima della sua morte e all’incirca una settimana prima che perdesse l’uso della voce. Fu una breve conversazione. Si stancava con facilità in quel periodo. (…) “Ciò di cui volevo parlarti”, disse, “è che tuo padre si è fatto succhiare l’uccello da un discreto numero di individui di dubbia reputazione. Ho pensato dovessi dirtelo, perché presto o tardi te l’avrebbe detto qualcun altro e ho preferito che venissi a saperlo prima da me”. “Lo sospettavo,” dissi. Ho passato un mucchio di tempo a rievocare questo scambio di parole. Tengo anch’io un diario, dove di tanto in tanto scrivo le cose importanti, sebbene sia difficile. Annotai comunque questa ultima conversazione e, negli ultimi sei anni, ho riletto il mio diario più volte. Ma pur rileggendolo, ho finito per distorcere ciò che intesi. Ricordavo infatti di avere detto: “Papà, per me non è affatto un problema, purché non lo sia per te”. Ho però dato una nuova occhiata al diario poco fa e non fui così duro né così saldo. Volevo perdonarlo, ma più di tutto ero confuso e ricordo adesso che la mia risposta fu pressoché un sussurro: “Non fa niente, papà, se non fa niente per te”.
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