Teatro Argentina, nove di mattina. Due serpentoni di persone si accalcano alle entrate. Bambini da una parte, adulti dall’altra. Ragazze in maglietta blu con stampato sopra La traviata, insieme alle maschere in divisa e i pompieri con la fascia gialla a tracolla, faticano a tenere separate le schiere, controllare i biglietti (il pubblico è pagante) e far accomodare tutti ai loro posti tra saluti baci foto guizzi e calci, eccitazioni varie e ultimi aggiustamenti ai costumi di zingarelle, dame, gentiluomini e mattadori.
I guanti bianchi le dame, i cappelli neri: i mattadori, mi spiega una bambina con un vezzoso ricciolo ottocentesco calato sul viso, così sono suddivisi e abbigliati, lei e i suoi compagni della seconda elementare mescolati agli scolari di altre classi del medesimo istituto e di altre scuole della città, della regione e perfino provenienti dalle limitrofe Campania, Abruzzo e Molise; upper and lower class, Chateaubriand e Borgata Fidene. Scuole elementari e qualche classe di media.
Sta per aprirsi il sipario su una delle quarantaquattro repliche della Traviata organizzate dall’Associazione Europa inCanto, conclusione e culmine non solo emotivo di un percorso cominciato all’inizio della stagione scolastica, almeno per quelle classi dove gli insegnanti hanno scelto di aderire. Ci sono stati tre incontri di formazione, la lettura del libro con gli allievi, il racconto degli innamoramenti di Dumas figlio per “una cortigiana”, gli ascolti dal cd, il ritmo, il canto…
Già, gli insegnanti, finisco per nominarli solo adesso. Eppure davanti ai sorrisi che dispensano agli organizzatori dell’Associazione, mentre con una delle loro molteplici bocche compongono il contrappunto di “buoni, non stiamo allo stadio, questo teatro ha centinaia d’anni!” e poi ridono ancora e gorgheggiano anche loro spensierati con Violetta e Alfredo, viene alla mente la falcata di Alberto Sordi e la considerazione dolceamara “i maestri sono come i bambini, basta un nulla per farli felici” con cui presenta il suo personaggio nel Maestro di Vigevano di Petri (1963, il romanzo di Mastronardi è dell’anno precedente).
Ma la felicità dei maestri, come quella dei genitori e degli organizzatori, e delle maschere e dei pompieri deve passare in secondo piano davanti a quella dei bambini, se non altro perché questa Traviata è, prima di tutto, per loro, ed è buona regola in questi casi mettersi in disparte e osservare. Poi un giorno ci preoccuperemo di quanta crudeltà occorrerà a questi bambini, cresciuti in questo spicchio di occidente che dedica isole di attenzione e cura al loro operato mai sperimentati prima dal genere umano, per liberarsi dei loro padri e delle loro madri, ma questo è un problema successivo.
Sono venuto per provare a valutare la capacità di penetrazione della cultura umanista di matrice europea nelle nuove generazioni attraverso un progetto di “buona scuola” nato e condotto dal basso, cioè per la passione di un gruppo di persone che hanno anche il gusto, ormai di sapore evangelico, di non sbandierare i numeri crescenti e imponenti delle scuole e dei bambini che riescono a coinvolgere.
Ma io qualche calcolo me lo sono fatto e gli studenti iscritti dovrebbero sfiorare i 15mila, le scuole del Lazio sono circa 400; tra l’altro il progetto ha ramificazioni anche a Treviso (otto istituti) e prevede slanci ed espansioni ulteriori viste le richieste in aumento. Sono al quarto anno d’attività. Il flauto magico, Rigoletto, Il barbiere di Siviglia e ora La traviata, l’anno prossimo la Cenerentola di Rossini. Genitori, bambini e insegnanti nelle precedenti edizioni hanno potuto calcare le tavole del teatro dell’Opera e del teatro Valle. Questo è il turno dell’Argentina. Insomma puri, fragili, vibranti teatri all’italiana.
E nel buio mattutino del teatro Argentina – ormai certo che nessuno strumento di misurazione mi soccorrerà nel valutare quello che stava succedendo e che era già successo – mentre annotavo confusamente i nomi dei bravissimi cantanti e degli allievi del conservatorio che compongono l’orchestra, e della narratrice che esortava gli studenti a farsi “custodi del silenzio”, chiedevo notizia delle scene, dei costumi e osservavo strabiliato la circolazione di damine e cantanti, i continui movimenti di piccole masse e saliscendi, uscite ed entrate laboriose, in un sapiente e felicemente a tratti sgangherato teatro totale di corpi a ogni stadio di maturazione e voci leggere e voci potenti esposte insieme nello stesso spazio, e tutto quel cattivo gusto del melodramma che sublima in faccenda popolare – non potevo non ammirare ancora una volta la bontà della struttura di questi teatri all’italiana.
Teatri che permettono di riservare la platea ai bambini e agli insegnanti, mentre i palchetti sono gremiti di genitori e strumenti di registrazione così che la separazione base per altezza, pavimento parete scena offra un’ulteriore quinta a quel fremito d’allegria comunitaria, dove semplicemente la cittadinanza ripete “che emozione!”, mentre apprezza la sua stessa incerta opportunità di condividere un luogo dalle caratteristiche misteriose simile alla caverna, ma quasi trasparente.
Perché in alto, tra le tavole del soffitto trapelano lamelle di sole, a indicare che dietro la pesantezza del lampadario non c’è nulla, e le corse delle zingarelle, nel tintinnare dei sonagli e nel loro ripetere “venute da lontano, noi siam le zingarelle” è pur sempre un “noi”, e il raptus di gioia irrefrenabile nell’inseguire Violetta “sempre libera e felice” contagia tutti come lo smarrito rammarico che cala su quel suo saluto finale: fantasma tra mille manine.
Resta l’emozione, che non so certo dire quanto sia sopravvalutata come strumento di valutazione o quanto invece sia davvero l’unico di cui disponiamo, ma può registrarsi come autentica. Resta soprattutto la qualità delle parole messe in circolazione. Ecco questo mi sembra un criterio indiscutibile. Ascoltare al mattino in giro sui marciapiedi i bambini andare a scuola, o confabulare in un parco, saltare alla corda e spalare la sabbia dicendo: libiam, lieti calici, ridesta in ciel, amor è palpito, di Madridde noi siam mattadori, Parigi o cara… e non avvertire la stranezza di quelle parole sulle loro labbra perché capiscono quel che dicono.
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