Ci sono tre bellissimi libri che sono usciti negli ultimi mesi e che, se vogliamo essere novecenteschi, chiameremmo autobiografie, mentre se proviamo a essere al passo con la nuova merceologia editoriale, potremmo definire memoir o addirittura autofiction: insomma sono tre libri che parlano di quello strano e comune oggetto narrativo che è il sé – o se vogliamo ancora dirla meglio, sono tre testi che scrivendo di sé, ragionano su cosa questa scrittura autobiografica comporti.
Il primo s’intitola Nel mondo a venire, l’ha scritto lo statunitense Ben Lerner e l’ha pubblicato Sellerio nella traduzione di Martina Testa; il secondo s’intitola Gli anni, l’ha scritto Annie Ernaux e l’ha pubblicato L’Orma nella traduzione di Lorenzo Flabbi; il terzo L’arte di collezionare mosche, l’ha scritto lo svedese Fredrik Sjöberg, e l’ha pubblicato Iperborea nella traduzione di Fulvio Ferrari (le tre traduzioni sono magistrali).
Partiamo da Lerner. Anzi partiamo dal capire perché Lerner sembra valere come campione di un nuovo paradigma per la letteratura contemporanea. Il suo libro è un testo densissimo e anomalo: essenzialmente, la storia di uno scrittore che racconta cosa gli accade mentre sta cercando di scrivere il suo secondo libro per cui ha avuto un anticipo dopo il discreto successo del primo. Così Nel mondo a venire si legge come una sorta di diario (sincero? inaffidabile?), dove vengono innestati racconti classici, riflessioni di estetica, poesie, dichiarazioni di poetica, progetti di scrittura, brevi personal essay, foto, parti in stile reportage, divagazioni urbane… I confini tra fiction e non-fiction sembrano effettivamente pretestuosi, così come quelli tra giornalismo, critica culturale e prosa poetica.
L’intuizione che la strada percorsa da Lerner sia una delle più interessanti per chi scrive oggi l’ha espressa in un paio di bei pezzi Cristiano de Majo, recensendo due anni fa il suo primo libro, Un uomo di passaggio, e tornando su Mondo a venire. De Majo citava nel 2013 un articolo di Michael H. Miller uscito sul New York Observer in cui si coniava la categoria assai inclusiva di “post-fiction” (“un chiasmo tra il reale e l’artificiale, che sfuma i due elementi fino a renderli irriconoscibili”) per tenere insieme autori molto diversi come Sheila Heti, Tao Lin, Chris Kraus, e il nostro Ben Lerner – “autori che hanno più in comune con un romanzo epistolare dell’ottocento che con Don DeLillo”.
Due anni e varie traduzioni italiane dopo (il cui merito va soprattutto riconosciuto a Mattia Carratello, editor prima di Neri Pozza e ora di Sellerio) – per quest’aria di famiglia viene brevettata un’altra formula: un mesetto fa esce su New Republic un articolo di Shaj Mathew che battezza la nuova ondata “generazione Fame di realtà”, sostenendo che si sia avverrata la recente profezia di David Shields (autore nel 2008 del saggio-manifesto di Fame di realtà) secondo cui il pianeta futuro della letteratura sarà popolato più da opere di arte concettuale che da romanzi con una storia.
Nel gruppo dei prossimi coloni Mathew include i libri dei promettenti quarantenni Ben Lerner, Teju Cole, Tom McCarthy, Alejandro Zambra, Sheila Heti ma anche quelli scrittori che sono classici contemporanei e molto europei come Michel Houellebecq, W.G. Sebald, Orhan Pamuk e Enrique Vila-Matas, riconoscendo di fatto una filiazione, una tradizione metaletteraria che forse deve più al nouveau roman o alla saggistica continentale che al postmodernismo americano.
Sempre nel 2008 Zadie Smith interpretava le impasse dei suoi colleghi romanzieri come se ci si trovasse di fronte a un bivio: in un fortunato saggio su The New York Review of Books indicava “due sentieri per il romanzo”: uno era segnato da Netherland di Joseph O’Neill (una specie di opera-mondo iperrealistica), l’altro da Remainder di Tom McCarthy (una sorta di romanzo distopico sulla perdita e la ricostruzione dell’identità). Pur essendo due sentieri divergenti, sia per O’Neill sia per McCarthy era molto chiaro che fiction e non-fiction erano due etichette senza più significato distintivo.
Ma perché tutti questi scrittori cercano una terza via, spesso impervia? E perché si rivolgono a una tradizione del personal essay che da Tom Wolfe a Truman Capote rimanda fino a Montaigne o a Rousseau?
È la domanda che non si può evitare di porsi leggendo Gli anni di Annie Ernaux. Gli anni è una cronaca a frammenti fotografici della vita di Ernaux, invischiata irremediabilmente con la storia collettiva. Quale forma inseguire è una questione che l’autrice stessa si pone nel libro:
Al contrario, ciò che conta per lei è afferrare la durata che costituisce il suo passaggio sulla terra in una determinata epoca, il tempo che l’ha attraversata, il mondo che ha registrato in sé semplicemente vivendo. Ed è in un’altra sensazione che ha potuto intuire la forma che avrà il suo libro, quella che la invade quando, a partire da un’immagine fissa del ricordo – su un letto di ospedale con altri bambini operati alle tonsille dopo la guerra o su un autobus che attraversa Parigi nel luglio ’68 –, le sembra di fondersi in una totalità indistinta di cui arriva a isolare, con uno sforzo della coscienza critica, i singoli elementi che la compongono, gli abiti, i gesti, le parole eccetera.
Che rapporto c’è tra quello che possiamo trattenere attraverso la memoria e ciò che invece ci sfugge? Quali elementi compongono la nostra storia e quali no? Come facciamo a distinguerli e come li possiamo collegare?
La risposta poetica che Ernaux allestisce è una reazione convincente al cul-de-sac percepito da chiunque si metta a scrivere oggi: l’avere a disposizione troppo, poter attingere a un materiale empirico immenso e astorico da una parte e già profondamente narrativizzato dall’altra. Non viviamo tutti in una società atemporalizzata e iperappresentata?
All’inizio del più significativo saggio contemporaneo sulla narrazione, Tempo e racconto (1983) Paul Ricoeur scriveva:
La mia ipotesi di base è che il tempo diventa umano nella misura in cui viene espresso secondo un modulo narrativo, il racconto raggiunge la sua piena significazione quando diventa una condizione dell’esistenza temporale.
Ma se la nostra esperienza non si muove secondo un tempo che sia, come diceva Agostino, distensio animi, ma secondo un presente continuo – per usare l’efficace formula di Douglas Rushkoff – quale sarà il giro di vite capace di trasformare il tempo in racconto, trasfigurare la nostra vita in opera?
E allora, quando ci rivolgiamo verso noi stessi – pensando che un’autobiografia è in sé giocoforza un romanzo di formazione –, quando insomma ci mettiamo in testa di raccontare la nostra storia, lo scoglio più duro non sarà quello di scovare cosa e come scrivere, ma di provare a capire se esiste uno sguardo che sia davvero personale.
Paradossalmente dobbiamo più distruggere, eliminare, obliare, che creare. Trovare un sistema per poter naufragare, anche se tutte le rotte sono segnate.
Per questo Ernaux, come Lerner, va in cerca di una percezione deformata del tempo. Dal momento che il sogno modernista di catturare il tempo attraverso la scrittura sembra essere realizzato ogni giorno dai nuovi media e dai social network, soltanto un’alterazione dei sensi può restituirci un elemento di verità.
Come riusciamo a fare letteratura? Attraverso qualche forma di ossessione, di control-freakness, di visione maniacale. Oppure – ma è una falsa alternativa – abbandonandoci, mettendo a punto un sé che sia il rispecchiamento delle vite altrui, uno specchio deformante di quella “biografia diffusa” che sembra il mondo come ci viene raccontato ogni momento.
Per Ernaux queste vite sono la famiglia, e poi i compagni delle lotte politiche, e delle disillusioni successive: la nostra identità è liquida, e davvero sfumano le scelte personali in quelle della storia, le emozioni in quelle di chi ci è stato accanto.
Per Lerner sono le vicinanze spesso casuali che fanno parte della nostra anonima vita. C’è un episodio che vale il libro (spoiler alert): il protagonista sta facendo volontariato con una sua amica, Noor, di origine araba, e militante filopalestinese.
Lei in un momento di profonda confidenza gli racconta un fatto che le è accaduto recentemente. Suo padre è morto, e sua madre ha cominciato a uscire con un altro uomo. Dopo qualche mese, la madre le ha confessato che questo nuovo uomo in realtà è il suo vero padre; il suo presunto padre libanese – colui che l’ha cresciuta, colmandola d’amore – non ha mai voluto rivelarglielo. E ora, cosa farà Noor? Può ancora permettersi, non avendo origine arabe, di abbracciare la causa palestinese? È ancora legittimata a sposare battaglie politiche in cui crede per studio, cultura, ma non per tradizione famigliare? La sua pelle scura, cosa indica ora? Nulla?
Nel mondo a venire mette in scena lo svelamento di quella che possiamo chiamare “l’illusione identitaria”, la fantasia che esista qualcosa di permanente e solido a cui rivolgerci nel momento in cui sentiamo che la nostra esperienza è atomizzata, scissa, gassosa. Eppure, paradossalmente, è proprio questo disincanto a lasciarci incantati.
Se tale scelta poetica è cristallina per Lerner o per Ernaux – ed è un approdo artistico e poi addirittura politico (se le identità personali sono così prismatiche, come immaginiamo di definire in maniera strutturata quelle collettive?) – la stessa cosa accade anche nel terzo libro sopra citato_, L’arte di collezionare mosche._
Fredrik Sjöberg è un entomologo che studia mosche, anzi un particolare tipo di mosche: i sirfidi. La sua passione è quella di un collezionista: metodico, tassonomico, morboso.
Raccontare la storia dei sirfidi serve a Sjöberg a rintracciare una possibile autobiografia che è un flaneurismo da fermo: Sjöberg si è scelto un’isola, Runmarö, di quaranta chilometri quadrati, dove vivere ed esercitare la sua professione. Ma questo micromondo in realtà è un ecosistema infinito per chi passa la vita in cerca di insetti.
E soprattutto, indagare la sua ossessione a partire dalla propria deliberata solitudine porta – nel nostro mondo iperconnesso – a rintracciare invece un possibile sguardo personale in una strampalatissima storia fatta di scoperte botaniche bizzarre, vite di esploratori di altri secoli, ed epifanie della natura.
Piccolissime immagini apparentemente insulse ci rivelano un mistero che pur essendo così vicino non eravamo riusciti a cogliere.
Leggete le prime dieci pagine di Gli anni: puro elenco di questo genere di immagini. Oppure il brano in cui Lerner associa i suoi frammentati ricordi ai luoghi non della città ma della sua mappatura.
Leggendo provai quella che stava diventando una sensazione familiare: il mondo si ricombinava intorno a me mentre io metabolizzavo le parole comparse su un display a cristalli liquidi. Fra le notizie personali più importanti che avevo ricevuto negli ultimi anni, erano così tante quelle che mi erano arrivate via smartphone mentre ero in giro per la città che avrei potuto segnare su una mappa, rappresentare geograficamente, gli eventi principali, di fatto, dei miei primi anni dopo i trenta.
Oppure leggete le pagine in cui nell’Arte di collezionare mosche Sjöberg racconta cosa ha significato per lui l’improvvisa comparsa di un rarissimo esemplare di sirfide in mezzo a una cena di gala.
Sì, c’è un dono che Lerner, Ernaux, Sjöberg sanno darci. Poter accedere attraverso i loro libri a una dimensione di intimità e meraviglia.
Quando è stata l’ultima volta che ci siamo meravigliati? Quando è stata l’ultima volta che, esplorando la nostra storia, ci siamo meravigliati? Quando è successo che abbiamo capito che non solo non siamo davvero trasparenti a noi stessi, ma che c’è qualcosa di sorprendente, spaventoso, strabiliante, in quella storia intima, familiare, quella storia nostra che pensavamo di conoscere così bene?
Nel 1993 David Foster Wallace scriveva in un saggio intitolato “E unibus pluram”:
Il mondo postmoderno, in quanto mondo postindustriale e governato dai media, ha invertito una delle grandi funzioni storiche della letteratura, quella di fornire dati su culture e persone lontane. Per il lettore di oggi questa funzione di ‘presentazione’ della letteratura si è rovesciata, dato che l’intero villaggio globale oggi viene presentato come familiare, e immediatamente accessibile per via elettronica: satelliti, microonde, gli intrepidi antropologi dei documentari della PBS, i coristi zulù di Paul Simon. È quasi come se avessimo bisogno degli scrittori per ripristinare l’ineluttabile.
Per la nostra generazione, il mondo intero sembra presentarsi come “familiare”, ma dato che questa è ovviamente un’illusione per quel che riguarda tutti gli aspetti più importanti degli individui, forse il compito di ogni forma di letteratura “realistica” è l’opposto di quello che era un tempo: non più rendere familiare ciò che è strano ma rendere di nuovo strano ciò che è familiare.
Ripristinare il senso di meraviglia: Wallace non conosceva ancora i social network e gli smartphone ma auspicava che ci fosse una generazione di scrittori nel nuovo millennio capace di esaudire comunque questo compito ambizioso.
Ecco, quella generazione è arrivata.
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