È grazie a Margaret Thatcher, nemico giurato di tanta controcultura britannica degli anni ottanta, che andare in treno a vedere Dismaland, il finto parco dei divertimenti progettato da Banksy, richiede un certo impegno: se la privatizzazione delle ferrovie fosse stata condotta in maniera meno selvaggia, raggiungere Weston-super-Mare da Londra su rotaia sarebbe un’idea sensata. Ma visto che costa circa 80 sterline, non c’è un treno diretto e siamo in quattro, optiamo per un’auto a noleggio. Dopo due ore e mezzo di strada nell’Inghilterra del sud ci lasciamo sfilare accanto Bristol, la città del trip hop, puntiamo verso il mare, passiamo vicino a Portishead e arriviamo in questa località dove i villeggianti britannici venivano in massa prima dell’epoca di Ibiza e Ryanair. Ora un po’ meno.
Le leggende con cui Banksy protegge la propria identità dicono che ha studiato arte nel Gloucestershire (pr: glòstescier), la regione a nord del Somerset, in questa tenaglia della malinconia tra Cornovaglia e Galles: forse a un certo punto questo è stato il suo mare. Se anche così non fosse, è difficile pensare a un luogo più adatto per quel che Banksy ha realizzato. Weston-super-Mare dà l’impressione di essere il set di Everyday is like sunday di Morrissey, inno immortale allo spleen dei pomeriggi senza scopo: una città sulla costa che si sono dimenticati di chiudere, di bombardare.
Il grand pier, il molo lungo 400 metri costruito nel 1904, capace di proiettarsi nel canale di Bristol quel tanto che basta per vedere l’acqua anche con la bassa marea, non è più una grande attrazione da molto tempo. Sul lungomare ci sono anche una ruota panoramica e delle brutte giostre con velleità hollywoodiane e insegne in stile Indiana Jones. E poi c’è il Tropicana: un vecchio stabilimento chiuso dal 2000, dove un tempo c’erano piscina all’aperto, cabine, sdraio, bar e bambini con la pelle azzurrognola sguazzanti.
Dopo 15 anni di salsedine e degrado, il Tropicana è diventato Dismaland, il parco degli abbrutimenti. Ci entriamo nel primo pomeriggio, dopo avere prenotato i biglietti qualche giorno prima dal sito (quasi sempre inaccessibile per i troppi accessi). Si può anche presentarsi senza biglietto, ma la coda dura alcune ore. Dismaland ha aperto il 21 agosto e chiuderà il 27 settembre prossimo.
All’ingresso una finta poliziotta mi chiede se ho bombe, esplosivi di qualsiasi tipo, granate, pistole o mitragliatrici. Rispondo di no. “Get in, then!”, mi dice sgarbata, invitandomi a passare sotto un metal detector di cartone. Il personale all’interno è triste e infastidito, indossa orecchie nere da Topolino e una pettorina fucsia con la scritta DISMAL (deprimente) sulla schiena. Nel laghetto che un tempo era la piscina del Tropicana ci sono un blindato della polizia trasformato in uno scivolo per bambini, il castello di Cenerentola in versione fatiscente e una Sirenetta Disney affetta da un disturbo digitale (il cervello ci mette un po’ a capire che non si sta vedendo un film scaricato male).
I lavori sono ovunque, fuori e dentro le tende, o nello spazio più tradizionale della galleria alla sinistra dell’ingresso. Gli artisti coinvolti sono 58, di nazionalità diverse. Non ci sono cartigli tranne che nella galleria, dove sotto ogni opera c’è scritto su una mascherina, come fosse una cassa da spedizioni via mare, il nome di ciascun artista. Big rig jig di Mike Ross, un amplesso di motrici di camion alto diversi metri, è l’elemento più vistoso e impressionante del parco, oltre alla ruota panoramica che va un po’ troppo veloce e alle guglie sbeccate del castello.
Ci sono ovunque manifesti e murali che hanno lo stile paradossale dell’arte di strada di cui Banksy è l’esponente più famoso. Le attrazioni classiche da parco di divertimenti ci sono, ma come ogni altra cosa sono leggermente sbagliate. Sembra di essere in un sogno inquietante ambientato in un parco di divertimenti: la realtà c’è, ma è sempre un po’ storta e inquietante. C’è una roulotte che ruota su sé stessa mentre tu seduto all’interno sei fermo, e dà una vertigine efficace ed elementare. Tra i tiri a segno classici da luna park, uno è stato devastato da un mitragliatore e l’altro si chiama Topple the anvil (ribalta l’incudine): per due sterline si hanno tre palline da ping pong per provarci. Il luogo è zeppo di particolari interessanti, e sulle prime si è abbastanza scossi dalla natura insieme accogliente e spigolosa dell’ambiente. Bisogna ridere dei paradossi? Riflettere? Divertirsi? Non è chiaro. In fondo è un “bemusement park”, e si è effettivamente confusi.
Il teatro delle marionette di Punch e Judy mette in scena uno spettacolino scritto da Julie Burchill sul tema della violenza: vedere il pupazzetto che mena e violenta la compagna e sentire le cose che le dice non è proprio una passeggiata. La giostra classica con i cavalli e i pali sembra normale, ma uno dei cavalli è appeso e davanti a lui c’è il macellaio seduto su delle scatole con sopra scritto LASAGNE, a ricordare lo scandalo della carne equina nei piatti pronti dei supermercati britannici di qualche tempo fa. In un angolo c’è la piscinetta dei profughi: inserendo una sterlina si possono pilotare i barconi zeppi di migranti. I bambini presenti, che sono molti perché gli inglesi portano i bambini ovunque, ci giocano un po’ inconsapevoli.
Dentro al castello, copia marcita di quello di Disneyland che campeggia nel logo Disney, c’è l’incontro tra Cenerentola e l’iconografia di lady Diana: paparazzi scesi dai motorini scattano foto alla zucca incidentata, il cavallo morto, la principessa mezza sbalzata fuori dallo sportello. “Move, people, she’s not gonna wake up anyway!” (forza gente, tanto non si sveglia!), ripetono gli inservienti per far scorrere la fila. Una serie di corti viene proiettata a ciclo continuo su uno schermo alle spalle del castello, accanto al murale di un ragazzo che accartoccia la politica inglese e sta per schiacciare anche David Cameron. La morte, su una pista dentro alla galleria, arriva a bordo di un’autoscontro e gira su sé stessa felice appena parte Stayin’ alive dei Bee Gees.
In un angolo del parco ci sono alcuni capannoni più seri e informativi dove l’appartenenza culturale di Banksy è chiara: controcultura, centri sociali, squatter, egualitarismo britannico, cultura anarchica e libertaria, lotte operaie, di genere e contro il sistema. Il rapporto tra questi aspetti del panorama culturale anglosassone e il pop sono molto più fluidi di ciò cui siamo abituati noi mediterranei, basti pensare a 1984 o a V for Vendetta.
Una certa ossessione nei confronti della polizia e del controllo operato dalle telecamere risulta a tratti datata: siamo nell’epoca di Edward Snowden e gli anni novanta sono passati da un pezzo. Ma c’è sempre, pur nella critica aspra e martellante, un senso di creatività plastica nei confronti della società, un’idea di mondo ingiusto da ritoccare per farlo collassare su sé stesso, invece di abbatterlo a cannonate. L’esercito costruisce un muro a Gaza? Un trompe-l’oeil dipinto sui blocchi di cemento mostra la strada ormai inaccessibile. La polizia è violenta? È in vendita un kit per aprire le vetrine vicino alle fermate dei mezzi pubblici, dove spesso ci sono le campagne di sensibilizzazione civile, e metterci dei contromanifesti sul numero di persone ferite o uccise in operazioni di polizia. C’è poi, sempre su questo tema, il plastico veramente ipnotico di Jimmy Cauty, che riproduce un pezzo di campagna inglese (paesini, condomìni, stazioni di servizio, tutto perfettamente in scala) dove è successo qualcosa, non si sa bene cosa, e ci sono in giro solo poliziotti: piccoli, perfetti, tanti. Nessun altro. Quella rappresentata qui è una forma di militanza infinitamente meno petulante di molte altre. Tant’è che alcuni stereotipi sono stati ribaltati dai fatti. Quando qualche settimana fa l’artista palestinese Shadi Al Zaqzouq ha protestato per la presenza di tre artisti israeliani, Banksy l’ha espulso dal parco. La sua opera rimane, ma lui resta fuori.
Dopo qualche ora decidiamo che ne abbiamo avuto abbastanza, abbiamo visto tutto e bevuto una birra con vista sul canale di Bristol. Fa freddo, c’è vento, ha vinto Banksy: una forma di malinconia lieve si è impadronita di tutti. Usciamo sul lungomare per mangiare qualcosa. Troviamo un posto dove servono porzioni colossali di fish & chips untissimo. Incontriamo però sulla strada un anziano signore che gira con un carrettino con dei cartelli che testimoniano la sua riconoscenza nei confronti di Dismaland. Uno di questi dice: “Grazie a Banksy, Weston-super-Mare è di nuovo sulle cartine!”. Prima della chiusura, Dismaland porterà in questa cittadina, che si finge allegra ma riuscirebbe a immalinconire il carnevale di Rio, anche un concerto dei Massive Attack.
Se non esistessero luoghi ufficiali deputati all’arte non ci si stupirebbe nel vedere opere per strada o sui muri; senza la retorica dei parchi di divertimento non si sentirebbe il contrasto di questa loro strana rappresentazione obliqua; senza le città di villeggiatura non avremmo modo di pensare in anticipo che il divertimento e la vacanza sono assicurati anche se non è vero, il tempo è tremendo e prima del mare ci sono centinaia di metri di sabbia bagnata e fredda da attraversare. Banksy si occupa di quello che ci aspettiamo dai posti e delle persone, dai governi, dalle divise e dai contesti. Il suo parco toglie a chi lo visita la serenità delle convenzioni artistiche e sociali, e l’esperienza è talmente inebriante che anche chi è abituato al sarcasmo di tanta arte contemporanea ne esce mogio. Poche opere di quelle esposte sono all’altezza di Dismaland in sé, va detto, ma sarebbe strano il contrario. L’operazione è impeccabile per quello che è, com’è, dov’è.
Si torna a Londra un po’ infreddoliti e molto soddisfatti, con un sacco di cose cui pensare, un po’ di spleen da scrollare via e del fish & chips di piombo che non vuole saperne di andare giù.
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