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La settimana più difficile di Trump

Il presidente Donald Trump a New London, Connecticut, il 17 maggio 2017. (Doug Mills, The New York Times/Contrasto)

L’ultima settimana per Donald Trump è stata la più difficile da quando si è insediato alla Casa Bianca, quattro mesi fa. I guai per il presidente sono cominciati il 15 maggio, quando il Washington Post, citando fonti anonime vicine alla Casa Bianca, ha rivelato che Trump ha passato informazioni d’intelligence altamente riservate sulle attività del gruppo Stato islamico (Is) a Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, e a Sergej Kisljak, l’ambasciatore di Mosca negli Stati Uniti. Poche ore dopo la pubblicazione dell’articolo è stato lo stesso Trump a confermare la notizia in un tweet in cui ha ammesso di aver condiviso informazioni con i russi – senza smentire che fossero riservate – e ha aggiunto che aveva il diritto di farlo.

Le informazioni rivelate da Trump sarebbero da “parola in codice”, un’etichetta che indica uno dei più alti livelli di classificazione usati dai servizi segreti statunitensi. Gli Stati Uniti le avrebbero ottenute da un alleato (in seguito si è scoperto che si tratta di Israele) in base a un accordo così delicato che era stato tenuto nascosto ai governi alleati di Washington e perfino alla maggior parte dei funzionari del governo americano.

Nell’incontro con Lavrov, Trump si sarebbe vantato di aver ricevuto dettagli su una minaccia imminente: “Ho informazioni riservatissime. Ogni giorno ci sono persone che mi rivelano informazioni fantastiche”. Trump avrebbe rivelato a Lavrov che l’Is sta preparando un piano per colpire gli alleati degli Stati Uniti.

Secondo i funzionari contattati dal Washington Post, il fatto più inquietante è che Trump avrebbe detto a Lavrov il nome della città controllata dallo Stato islamico dove gli israeliani avrebbero individuato la minaccia. Un fatto particolarmente allarmante perché Mosca e Washington hanno strategie molto diverse in Siria: il Cremlino, insieme all’Iran, sostiene il regime del presidente Bashar al Assad, osteggiato invece dagli Stati Uniti e da Israele. La Russia potrebbe quindi usare le informazioni avute da Trump per identificare e neutralizzare la fonte e la struttura che ha fornito le informazioni.

La questione è aggravata dal fatto che gli Stati Uniti non avevano l’autorizzazione a diffondere queste informazioni. In base alle regole dello spionaggio i governi (e le singole agenzie) mantengono un ampio controllo sulla diffusione delle informazioni che ricevono. Violando questa regola si compromette la fiducia reciproca, fondamentale nei rapporti tra le agenzie d’intelligence. Per questo potrebbero esserci ricadute negative nei rapporti tra Washington e i governi alleati. Il 17 maggio un funzionario d’intelligence europeo ha detto all’agenzia Associated Press che il suo paese potrebbe smettere di scambiare informazioni con Washington.

Questa vicenda conferma una delle critiche più ricorrenti rivolte a Trump negli ultimi mesi, cioè il fatto che il presidente non si prepara adeguatamente per affrontare gli incontri con leader e funzionari stranieri e che durante i vertici improvvisa e si allontana spesso dai temi e dalle posizioni concordate con i suoi collaboratori. I funzionari sentiti dal Washington Post hanno riferito che l’Nsa prepara documenti informativi di diverse pagine per aiutare Trump durante i vertici con i leader stranieri, ma il presidente insiste sul fatto che le istruzioni siano condensate in una sola pagina e strutturate in elenchi puntati. E sembra che spesso Trump ignori del tutto le istruzioni.

Giustizia ostacolata?
Mentre Trump e i suoi collaboratori cercavano di gestire (maldestramente) questa vicenda, il presidente è stato colpito da un nuovo scandalo, potenzialmente ancora più grave e pericoloso del precedente. Il 16 maggio il New York Times ha rivelato che a febbraio Trump aveva chiesto a James Comey, direttore dell’Fbi, di chiudere l’indagine sui rapporti tra Michael Flynn, all’epoca consigliere per la sicurezza nazionale, e i funzionari russi durante la campagna elettorale (Flynn si è dimesso poco dopo, quando si è scoperto che aveva mentito sui suoi contatti con Sergej Kisljak, l’ambasciatore russo negli Stati Uniti).

Secondo molti commentatori e parlamentari dell’opposizione, la vicenda è particolarmente grave perché facendo pressioni su Comey per scagionare Flynn il presidente avrebbe cercato di ostacolare la giustizia. Senza dimenticare che all’inizio di maggio Trump ha licenziato Comey, ammettendo di averlo fatto a causa della “faccenda della Russia”.

E il 19 maggio il New York Times ha rivelato, citando fonti interne alla Casa Bianca, che durante l’incontro nello studio ovale di inizio maggio Trump avrebbe detto ai funzionari russi di essere sotto “grande pressione” per via dell’inchiesta sull’interferenza russa e che il licenziamento di Comey gli ha permesso di “togliersela di dosso”. La conversazione confermerebbe la tesi di chi sostiene che Trump ha licenziato il direttore dell’Fbi per fermare l’indagine. Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca, ha cercato di gettare acqua sul fuoco sostenendo che Trump si riferiva al fatto che Comey aveva creato una pressione eccessiva “politicizzando” l’inchiesta, e che questo aveva complicato la politica estera statunitense e i rapporti diplomatici con la Russia.

A rendere ancora più preoccupante la situazione per la Casa Bianca c’è il fatto che Jason Chaffetz, deputato repubblicano e capo della commissione di vigilanza della camera, ha chiesto all’Fbi di consegnare tutti i documenti sulle comunicazioni tra Trump e Comey, e la sua richiesta è stata sostenuta da altri repubblicani. Inoltre nelle prossime settimane Comey dovrebbe testimoniare di fronte al congresso sui suoi rapporti con il presidente.

Infine, il 18 maggio il dipartimento di giustizia ha nominato un procuratore speciale per indagare sui rapporti tra il comitato elettorale di Trump e i funzionari russi. La scelta è ricaduta su Robert Mueller, ex direttore dell’Fbi, considerato una figura indipendente e stimato sia dai democratici sia dai repubblicani. Nominando Mueller il dipartimento della giustizia ha ceduto alle richieste dell’opposizione, che dopo il licenziamento di Comey aveva chiesto di trasferire l’indagine nelle mani di un organo che non fosse condizionato dalla Casa Bianca. Mueller avrà un ampio margine di manovra nelle indagini, per esempio potrà decidere autonomamente quali accuse perseguire, ma non sarà del tutto indipendente: essendo stato nominato dall’amministrazione, sarà il viceministro della giustizia ad avere “la responsabilità ultima” sulla gestione dell’indagine.

Poco dopo la nomina di Mueller, Trump ha scritto un tweet in cui sostiene di essere vittima della più grande caccia alle streghe della storia politica statunitense, di fatto mostrando di essere in conflitto con la sua stessa amministrazione.

Tutti questi sviluppi aprono la strada a una serie di rivelazioni che potrebbero rafforzare l’idea che Trump abbia cercato di ostacolare l’inchiesta sulla Russia, commettendo una violazione per cui si rischia la messa in stato d’accusa. E intanto l’indagine federale si avvicina sempre di più al presidente: il 19 maggio il Washington Post ha rivelato che nell’inchiesta federale sarebbe coinvolto anche un alto esponente dell’amministrazione.

Ma la prospettiva dell’impeachment per ora sembra ancora lontana. Come ha spiegato David Remnick sul New Yorker, la sopravvivenza di Trump dipende da cosa deciderà di fare il Partito repubblicano. Alcuni parlamentari hanno preso le distanze dal presidente dopo le ultime rivelazioni, ma i dirigenti del partito non sembrano disposti ad abbandonarlo. Questo perché Trump è ancora abbastanza popolare tra gli elettori che hanno votato per lui a novembre e perché sta portando avanti il programma ultraconservatore voluto dai leader repubblicani (in particolare sulla riforma sanitaria e sulla riforma fiscale).

Il primo viaggio
Gli scandali interni coincidono con l’inizio del primo importante viaggio di Trump all’estero. In nove giorni visiterà l’Arabia Saudita, Israele, il Belgio, il Vaticano e l’Italia, dove parteciperà al G7 di Taormina.

In Arabia Saudita Trump terrà un discorso molto atteso dal governo locale e dagli altri paesi della regione, che vogliono capire quale sarà l’approccio della nuova amministrazione in Medio Oriente e quale posizione prenderà all’interno dello scontro in corso nel mondo musulmano. I sauditi sperano di recuperare un rapporto privilegiato con Washington dopo anni di frizioni con Barack Obama, che aveva spesso criticato il governo di Riyad per il sostegno all’estremismo sunnita e aveva riallacciato i rapporti con l’Iran, il grande nemico dell’Arabia Saudita nella regione.

Accordi con la Cina
L’11 maggio il governo statunitense ha stretto una serie di accordi commerciali con Pechino. Le intese riguardano settori come i servizi di pagamento elettronici e il mercato della carne di manzo e di pollo. Secondo alcuni commentatori non risolvono i principali contrasti nelle relazioni commerciali tra i due paesi, ma sono un segnale che Trump sta cercando di ridurre le tensioni, dopo che nella campagna elettorale per le presidenziali aveva usato toni molto duri nei confronti del paese asiatico, accusandolo di attuare politiche monetarie scorrette e di incentivare le esportazioni a basso costo verso gli Stati Uniti.

Più duri sulle droghe leggere
Il ministro della giustizia Jeff Sessions ha annunciato un approccio particolarmente duro sui reati legati al possesso di droghe leggere. Secondo le nuove linee guida di Sessions, i pubblici ministeri dovranno perseguire in modo più sistematico questo tipo di reati. L’amministrazione Obama aveva invece chiesto ai pubblici ministeri di evitare accuse che potrebbero portare a lunghi periodi di carcere per persone che non sono violente e non fanno parte di una gang. Sessions si è sempre dichiarato contrario alla legalizzazione della marijuana, il cui possesso e consumo è ormai consentito in molti stati.

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