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L’inchiesta su Mosca è arrivata fino a Donald Trump

Donald Trump assiste a una cerimonia alla Casa Bianca, Washington, il 12 giugno 2017. (Jabin Botsford, The Washington Post/Getty Images)

Questa settimana il cerchio delle indagini si è stretto ancora intorno al presidente Donald Trump. Come prevedibile, la testimonianza rilasciata dall’ex direttore dell’Fbi James Comey al congresso la settimana scorsa ha spostato l’attenzione dalle presunte interferenze russe nella campagna elettorale del 2016 al sospetto che Trump abbia cercato di ostacolare le indagini.

Il 14 giugno il Washington Post ha rivelato che Robert Mueller, il procuratore speciale che sta conducendo l’inchiesta federale sulle interferenze russe e su presunte collusioni tra Mosca e la Casa Bianca, indagherà anche sulla possibilità che il presidente abbia ostacolato la giustizia.

È una svolta importante perché è la prima volta che Trump viene coinvolto direttamente, e perché c’è in ballo un reato federale per cui un presidente può rischiare la messa in stato d’accusa. Mueller era stato nominato dal viceministro della giustizia a maggio, dopo che Trump aveva licenziato Comey dando la sensazione di voler mettere a tacere un’indagine scomoda.

Trump ha risposto con una serie di tweet in cui di fatto conferma di essere sotto inchiesta, dice di essere vittima di una caccia alle streghe e sembra attaccare Rod J. Rosenstein, il viceministro della giustizia. Rosenstein è il responsabile dell’inchiesta federale sulle interferenze russe da quando il ministro Jeff Sessions ne ha preso le distanze perché è a sua volta coinvolto. Nel tweet Trump sostiene che è stato proprio Rosenstein a dirgli di licenziare Comey.

Secondo il Washington Post, già nei prossimi giorni i collaboratori di Mueller interrogheranno alcuni funzionari del governo: Daniel Coats, direttore dell’intelligence interna, Mike Rogers, capo dell’agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa), e il suo ex collaboratore Richard Ledgett. Inoltre, sembra che gli investigatori stiano anche cercando di capire se i collaboratori di Trump hanno commesso reati finanziari, tra cui riciclaggio di denaro. Il sospetto è che se c’è stata un’eventuale collaborazione tra il governo russo e persone vicine al presidente, potrebbe esserci stato un passaggio di denaro e un tentativo di nasconderlo, eventualmente attraverso conti offshore.

Pochi giorni prima che venissero fuori queste rivelazioni, il New York Times aveva riportato le dichiarazioni di Christopher Rudd, un vecchio amico di Trump, secondo cui il presidente stava valutando la possibilità di licenziare Mueller. La Casa Bianca ha smentito, anche se alcune fonti interne all’amministrazione confermano che Trump è sempre più infastidito dall’inchiesta e dal fatto che sia stato lo stesso dipartimento di giustizia e nominare un procuratore speciale. Ma sembra che per ora i suoi collaboratori siano riusciti a convincerlo del fatto che licenziare Mueller potrebbe essere una pessima mossa.

Molti ricordano il caso di Richard Nixon, che nell’ottobre del 1973, quando era sotto pressione per via del caso Watergate, costrinse Archibald Cox, il procuratore speciale che conduceva l’indagine, a dimettersi. Quella decisione fece aumentare nell’opinione pubblica il sospetto che Nixon fosse colpevole o perlomeno avesse qualcosa da nascondere e portò molti parlamentari repubblicani a prendere le distanze da lui. Meno di un anno dopo Nixon si dimise prima ancora che il congresso aprisse una procedura di impeachment nei suoi confronti.

Nel frattempo, secondo un sondaggio Gallup sta aumentando il numero di elettori repubblicani insoddisfatti per la situazione nel paese. È un segnale preoccupante per Trump, perché la storia insegna che per i presidenti con un basso livello di popolarità è molto più difficile uscire indenni dalle inchieste e molto più facile perdere il sostegno politico del congresso.

Il genero in difficoltà
A peggiorare la situazione per l’amministrazione c’è il fatto che aumentano i sospetti su alcuni collaboratori di Trump. Secondo il Washington Post, Mueller sta indagando sugli affari di Jared Kushner, genero del presidente e figura di spicco nella Casa Bianca. È risaputo che nel 2016 Kushner ha incontrato Sergej Kislyak, l’ambasciatore russo a Washington, e Sergej Gorkov, capo di una banca d’investimenti russa. Durante l’incontro con Kislyak, Kushner avrebbe proposto di creare una linea di comunicazione segreta tra Casa Bianca e Cremlino usando le strutture diplomatiche dell’ambasciata russa.

Per quanto riguarda l’incontro con Gorkov, gli inquirenti cercheranno di capire se Kushner stesse cercando un aiuto finanziario per un suo progetto immobiliare a Manhattan. Una possibilità che farebbe emergere il sospetto di un conflitto tra gli interessi finanziari del genero di Trump e il suo ruolo nel governo.

Presidenza immobile
Al di là delle questioni giudiziarie, il problema più immediato per Trump sembra essere politico. Le continue rivelazioni, le fughe di notizie e lo scontro con altri poteri dello stato assorbono la maggior parte delle energie della Casa Bianca, che da settimane sembra incapace di portare avanti il suo programma politico. La cosa ormai è chiara anche tra i repubblicani, che mostrano un certo malumore e temono di pagare questo stallo nelle elezioni di metà mandato che si terranno a novembre del 2018.

Cinque mesi dopo essere entrato in carica, Trump ha ottenuto una sola vittoria chiara: è riuscito a nominare il nono giudice della corte suprema, rimasto vacante nel 2016 dopo la morte di Antonin Scalia. È anche riuscito a far approvare dalla camera la sua proposta per cancellare e sostituire la riforma sanitaria voluta da Barack Obama; ma per entrare in vigore dovrà essere approvata dal senato, dove i repubblicani potrebbero non avere i voti necessari e potrebbero essere costretti ad approvare delle modifiche.

Decidendo di portare gli Stati Uniti fuori dall’accordo sul clima, ha ottenuto solo di isolare Washington

Le sconfitte, invece, sono state tante: alcuni dei suoi ordini esecutivi sono stati bocciati dai tribunali (in particolare quelli pensati per vietare l’ingresso nel paese ai cittadini provenienti da alcuni paesi a maggioranza musulmana) e altri avevano effetti molto meno rilevanti di quelli annunciati. La riforma del fisco e la legge per rinnovare le infrastrutture sono bloccate, e Trump pare aver messo da parte – anche per l’opposizione del Partito repubblicano – la proposta di costruire un altro muro al confine con il Messico.

A questo si aggiunge una politica estera poco chiara e spesso contraddittoria, come dimostra l’atteggiamento verso la Corea del Nord e in Siria. Decidendo di portare gli Stati Uniti fuori dall’accordo sul clima di Parigi, Trump ha mantenuto una sua promessa elettorale, ma per ora la scelta ha avuto come unica conseguenza quella di isolare Washington in politica estera. Neanche sul commercio internazionale Trump sembra aver fatto passi avanti: ha accusato la Germania di adottare politiche scorrette contro gli Stati Uniti, ma quando Berlino ha fatto capire di non essere disposta a portare avanti trattative bilaterali sul commercio, la Casa Bianca ha riaperto la porta al trattato di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, un accordo che Trump aveva duramente contestato in campagna elettorale.

Conflitto non risolto
Intanto due procuratori del Maryland e di Washington hanno fatto causa a Trump per il suo presunto conflitto d’interessi: rifiutandosi di cedere le sue aziende, sostengono i procuratori, il presidente starebbe violando l’articolo della costituzione che vieta ai funzionari del governo di ricevere regali e finanziamenti da entità straniere.

Retromarcia su Cuba
In politica estera Trump sembra intenzionato a fermare il riavvicinamento con Cuba avviato da Barack Obama. In un discorso a Miami ha detto che la politica del suo predecessore ha fallito e che nelle prossime settimane Washington ridurrà i rapporti con l’Avana sul commercio e sui permessi di viaggio. “Non resteremo più in silenzio di fronte all’oppressione comunista”, ha detto Trump, per poi sostenere di voler cancellare con effetto immediato le politiche di apertura di Obama. In realtà la direttiva firmata dal presidente, pur riducendo gli scambi commerciali e la possibilità di viaggiare da un paese all’altro, lascia in vigore alcune delle misure adottate da Obama per allentare le sanzioni contro Cuba.

Il provvedimento di Trump è una via di mezzo tra le posizioni di buona parte del Partito repubblicano – che vorrebbe tornare a una politica di chiusura verso l’isola – e quelle degli imprenditori e di molti attivisti per i diritti umani che spingono per la normalizzazione dei rapporti diplomatici. Per questo l’annuncio di Trump è stato criticato da più parti, dai politici dell’opposizione agli imprenditori che sostengono il Partito repubblicano.

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