La settimana folle di Donald Trump contro i giornalisti
La settimana era cominciata con una vittoria per Donald Trump, la prima da tanto tempo, era proseguita con una sconfitta della sua maggioranza al senato e si era conclusa con una serie di importanti provvedimenti approvati dai repubblicani alla camera; ma poi tutto è stato oscurato dall’offensiva (l’ennesima) scatenata dal presidente e dai suoi collaboratori contro i mezzi d’informazione.
Andiamo per ordine. Lunedì 26 giugno la corte suprema degli Stati Uniti ha rimesso parzialmente in vigore l’ordine esecutivo approvato da Trump a marzo che vieta temporaneamente gli ingressi delle persone provenienti da sei paesi a maggioranza musulmana: Sudan, Siria, Iran, Libia, Somalia e Yemen. Il divieto (chiamato muslim ban) era stato molto contestato dall’opposizione e dagli attivisti per i diritti umani e poco dopo era stato bloccato da due tribunali federali. Subito dopo l’annuncio della decisione della corte suprema, Trump ha cantato vittoria su Twitter:
In realtà si tratta di una vittoria parziale e provvisoria per la sua amministrazione. Dal 29 giugno Washington potrà effettivamente vietare l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini che provengono da quei sei paesi, ma non a tutti: potranno continuare a entrare le persone che hanno un permesso di lavoro o di studio o un familiare che risiede legalmente in territorio statunitense.
La sentenza finale della corte suprema sul decreto di Trump dovrebbe arrivare a ottobre. Nel frattempo i giudici del massimo organo della giustizia statunitense ascolteranno le ragioni delle parti coinvolte – il governo, un’organizzazione per i diritti civili che ha contestato il provvedimento e i tribunali federali che lo hanno bloccato – e alla fine dovranno decidere se il decreto di Trump è anticostituzionale perché comporta una violazione della libertà religiosa.
La decisione della corte impedisce anche l’ingresso nel paese per 120 giorni ai rifugiati che non possono dimostrare di avere legami con persone o istituzioni statunitensi.
Trump ha sempre detto che il suo decreto sull’immigrazione renderà gli Stati Uniti più sicuri, ma chi contesta il provvedimento fa notare che nessuno degli attentatori che hanno realizzato attacchi negli Stati Uniti negli ultimi anni proviene dai paesi colpiti dal divieto.
Riforma sanitaria bloccata
Il giorno dopo la decisione della corte suprema è arrivata una brutta notizia per Trump: i leader repubblicani al senato sono stati costretti a posticipare il voto sull’American health care act, la legge che dovrebbe sostituire l’Obamacare, la riforma sanitaria voluta da Barack Obama. Questo perché al momento il provvedimento è contestato da alcuni senatori repubblicani consapevoli che nei loro stati la riforma è impopolare perché lascerebbe molte persone senza copertura sanitaria, e temono di essere sconfitti alle elezioni di metà mandato del 2018. Secondo le stime del Congressional budget office, un organo indipendente che svolge analisti economiche per il congresso, con la riforma di Trump altri 22 milioni di statunitensi resterebbero senza cure mediche nel giro di dieci anni (qui i dettagli della legge). Allo stesso tempo, la riforma non convince neanche alcuni dei repubblicani dell’ala più conservatrice, che vorrebbero ridurre al minimo l’intervento dello stato nella sanità.
Mitch McConnell, leader della maggioranza al senato, sarà costretto a fare complicati esercizi di equilibrismo politico per mettere insieme i voti necessari per far passare il provvedimento: dovrà concedere qualcosa ai senatori della fazione moderata – per esempio, stanziare più fondi per proteggere gli americani che hanno più difficoltà a comprare un’assicurazione sanitaria – e allo stesso tempo accontentare la fazione più conservatrice, che vuole la riduzione delle tasse per le fasce più ricche della popolazione.
La legge sulla sanità è il primo grande progetto che Trump ha portato al congresso dopo essersi insediato. La decisione di ritardare il voto al senato è una fastidiosa battuta d’arresto per il presidente perché vuol dire che il nuovo voto non avverrà prima di agosto, quando i parlamentari torneranno dalle vacanze, e perché dimostra una volta di più le difficoltà della Casa Bianca nell’attuare il suo programma politico nonostante la maggioranza in entrambi i rami del congresso.
Giro di vite sugli immigrati senza documenti
Nel frattempo la camera dei rappresentanti ha votato a favore di due proposte sostenute da Trump che colpiscono le persone che si trovano negli Stati Uniti ma non hanno i documenti in regola. La prima, chiamata Kate’s Law, inasprisce le pene per gli immigrati che hanno precedenti penali negli Stati Uniti che sono stati espulsi dal paese e cercano di rientrarci illegalmente; la seconda proposta taglia i fondi federali per le città che si rifiutano di collaborare con l’amministrazione nell’espulsione degli immigrati irregolari (le cosiddette città santuario). Qualche mese fa un giudice federale aveva bloccato un decreto di Trump che puniva le città santuario, ma è probabile che un provvedimento del congresso abbia più probabilità di resistere all’eventuale giudizio di un tribunale.
Tutto questo è stato però sovrastato da alcuni tweet di Trump che hanno innescato una nuova guerra contro i mezzi d’informazione. In un post il presidente ha insultato la giornalista Mika Brzezinski, una delle conduttrici del programma tv Morning Joe, attaccando il suo aspetto fisico e mettendo in discussione la sua intelligenza.
Il tweet è stato criticato anche dai repubblicani e ha fatto tornare al centro del dibattito politico le accuse di misoginia contro il presidente, che nel 2016 hanno rischiato di compromettere la sua candidatura. Molti alleati di Trump sono preoccupati perché le ultime uscite potrebbero infastidire le elettrici repubblicane e indipendenti, così come le donne elette in parlamento con il Partito repubblicano, di cui la maggioranza ha bisogno per far passare la riforma sanitaria.
Qualche giorno prima Sarah Sanders, vice portavoce della Casa Bianca, si era presentata alla conferenza stampa rituale e aveva accusato i mezzi d’informazione di essere “vergognosi”. Sanders si riferiva al fatto che qualche giorno prima tre giornalisti della Cnn si erano dimessi perché avevano pubblicato online, e poco dopo ritirato, un articolo sui legami tra Anthony Scaramucci, un consulente di Trump, e un fondo d’investimento russo. Ma è probabile che l’indignazione della Casa Bianca fosse rivolta soprattutto al Washington Post, che da quando Trump è alla Casa Bianca ha pubblicato la maggior parte delle rivelazioni sull’inchiesta tra il governo russo e alcuni collaboratori di Trump (in particolare su Jared Kushner, il genero del presidente). Sembra che Trump sia rimasto particolarmente infastidito quando David Fahrenthold, giornalista del Post, ha rivelato che in alcuni dei suoi resort è esposta una finta copertina di Time.
E il 28 giugno Trump ha scritto un tweet in cui attacca scompostamente il Washington Post e il suo proprietario Jeff Bezos.
Una nuova rivelazione sulla Russia
Il 29 giugno il Wall Street Journal ha pubblicato un’inchiesta in cui sostiene che Peter Smith, un funzionario del Partito repubblicano e sostenitore di Trump, si sarebbe messo in contatto durante la campagna elettorale del 2016 con alcuni hacker russi per ottenere i messaggi di posta elettronica rubati dall’account di Hillary Clinton. Secondo il Wall Street Journal, Smith sosteneva di operare per conto di Michael Flynn, che in quel periodo era uno dei principali collaboratori di Trump ed è stato il suo primo consigliere per la sicurezza nazionale, e si è dimesso quando si è scoperto che aveva mentito al vicepresidente Mike Pence su alcuni suoi incontri con i funzionari russi.
La rivelazione è potenzialmente molto grave perché fornirebbe la prima prova del fatto che c’è stata collusione tra presunti hacker russi e qualcuno nella squadra di Donald Trump per danneggiare Clinton. Nell’articolo del Wall Street Journal un collaboratore del presidente respinge le accuse sostenendo che Smith non lavorava per la campagna elettorale di Trump, e che se Flynn ha avuto contatti con Smith l’ha fatto a titolo personale.
Attualmente Flynn non è l’unico ex collaboratore di Trump indagato per i presunti rapporti con il governo russo: ci sarebbero anche Paul Manafort, direttore della campagna elettorale di Trump fino all’agosto del 2016, che in passato ha avuto rapporti molto stretti con Viktor Janukovyč, ex presidente ucraino sostenuto da Mosca; e Carter Page, consigliere di Trump per la politica estera fino al settembre del 2016, quando si è dimesso per i sospetti sui suoi contatti con Mosca.
Ma il nome più importante è quello di Jared Kushner, genero di Trump e alto funzionario dell’amministrazione. A dicembre del 2016, un mese prima che Trump entrasse alla Casa Bianca, Kushner avrebbe incontrato Sergej Kisljak, l’ambasciatore di Mosca negli Stati Uniti, e il banchiere russo Sergej Gorkov. Secondo il Washington Post, Kushner avrebbe chiesto a Kisljak di “creare un canale di comunicazione segreto e sicuro tra il comitato elettorale di Trump e il Cremlino, anche usando le strutture diplomatiche russe negli Stati Uniti, per evitare che le comunicazioni fossero sorvegliate e intercettate”.
Attualmente su questa vicenda indagano quattro commissioni del congresso e un procuratore speciale, Robert Mueller, nominato dal dipartimento di giustizia dopo che Trump ha licenziato Comey, dando la sensazione di voler interferire sulle indagini.