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La crisi dei rifiuti a Roma è ciclica e ha bisogno di interventi strutturali

Nel quartiere di Cinecittà a Roma, il 7 maggio 2017. (Stefano Montesi, Corbis/Getty Images)

Cumuli di immondizia accanto ai cassonetti, le emergenze cicliche, l’inadeguatezza di un’assessora iperattiva e inquisita come Paola Muraro: nell’ultimo anno si è parlato molto di rifiuti a Roma, tanto che sono diventati familiari alcuni personaggi come le assessore all’ambiente – prima Muraro, adesso, da quattro mesi, Pinuccia Montanari – e anche più chiare alcune questioni tecniche, a partire da una certa terminologia.

Per esempio si è imparato a sapere cosa sono gli impianti di trattamento meccanico e biologico (tmb) che selezionano e lavorano i rifiuti indifferenziati; si è capito che a Roma questi tmb sono quattro, due pubblici (dell’Ama, l’azienda partecipata al 100 per cento dal comune, la quale gestisce i rifiuti della città attraverso un contratto di servizio) e due privati (della Colari di Manlio Cerroni); si è capito che nel territorio di Roma finisce solo una piccola parte dei rifiuti prodotti in città, mentre il grosso va in discariche, inceneritori, altri impianti nelle regioni centrosettentrionali, oltre che in Austria e in Germania, dove può essere riciclato o trattato in modo tale da diventare una risorsa anche economica.

Ciononostante, non si è riusciti a comprendere perché questo tema sia così urgente. Una delle ragioni sta nel fatto che l’impatto visivo dei rifiuti – perfino le immagini apocalittiche di montagne di 20mila tonnellate ammassate nei tmb – non riesce a trasmettere il senso di disagio dato dalla puzza e dalle esalazioni probabilmente tossiche che investono gli abitanti delle zone più vicine agli impianti – per esempio quelli di Rocca Cencia, di Maccarese, di Malagrotta, ma soprattutto quelli di Villa Spada, Fidene, Serpentara e Nuovo Salario.

I colli di bottiglia
Ogni volta che ho passato con loro qualche ora, a fare interviste, o a visitare gli impianti, sono tornato a casa con tosse, senso di nausea, mal di testa, un malessere fisico così acuto da farmi restare incredulo rispetto alla possibilità di poter vivere in quelle condizioni – tappati in casa, a respirare senza pace un’aria acre – e mi provocava un senso di rabbia tale da farmi perdere la lucidità.

Serve un monitoraggio quotidiano e non sporadico da parte dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale, l’Arpa.

Il fatto che non sembrino prospettarsi soluzioni reali a breve termine non è solo avvilente, ma vergognoso.

Vediamo almeno di capire perché, facendo il punto su quello che sappiamo.

Il comune da anni ha adottato una politica che potremmo definire di contenimento o di “riduzione” del danno

Le emergenze a Roma sono cicliche per diversi motivi. Gli impianti, soprattutto i centri di smistamento e lavorazione dell’indifferenziato, sono appena sufficienti al fabbisogno della città. Appena si verifica un rallentamento della macchina o un intoppo negli impianti, si crea un collo di bottiglia e i rifiuti restano in strada.

Questo può succedere, per esempio, in prossimità di un periodo di feste anche breve – vedi l’ultima emergenza tra la fine di aprile e l’inizio di maggio – quando in servizio ci sono meno operatori a occuparsi della raccolta o a lavorare nei tmb.

Oppure può accadere perché gli impianti destinati all’indifferenziato, sia quelli a monte (i tmb) sia quelli a valle (inceneritori, impianti di riciclaggio, che sono fuori dal Lazio) hanno bisogno di una manutenzione continua, o subiscono dei piccoli guasti, o lavorano a mezzo servizio (come per esempio può fare e fa Manlio Cerroni con i suoi due tmb di Rocca Cencia), per cui il flusso normale di smaltimento rallenta.

Siccome le emergenze sono cicliche e in parte prevedibili, il comune da anni ha adottato una politica che potremmo definire di contenimento o di “riduzione” del danno: per evitare che alcuni impianti vadano in sovraccarico, per esempio si è soliti accumulare i rifiuti in uno dei due tmb di proprietà del comune – Rocca Cencia o Salario – in modo da lasciare l’altro più vuoto nel caso si renda necessario uno stoccaggio maggiore o si presenti qualche altro problema. Sembra un ridicolo gioco delle tre carte, ma questo è.

Un problema strutturale
La gestione dei rifiuti a Roma dipende in larga parte dai privati. Si è visto nell’ultima emergenza, che è stata determinata dal fatto che la società Colari – quella di Manlio Cerroni, che gestisce i due tmb di Malagrotta – ha ridotto ad aprile la quantità di rifiuti da trattare, vista l’impossibilità del comune di pagare il servizio poiché il consorzio è stato colpito da una interdittiva prefettizia antimafia.

Senza quegli impianti a pieno regime, Roma viene sommersa dai rifiuti. Di fatto decine di migliaia di tonnellate si sono accumulate nelle fosse di stoccaggio degli altri due tmb dell’Ama che si sono saturati – peggiorando ulteriormente la vita di chi abita nei dintorni. Con il commissariamento deciso dal prefetto, i due impianti di Colari hanno ripreso a funzionare a regime, e la situazione – di normale anormalità – è tornata a com’era prima. Il problema però resta chiaramente strutturale.

Il piano del comune di Roma lanciato dall’assessora Montanari è ottimistico e si basa soprattutto sull’educazione ambientale: si vuole incrementare il riuso (dai pannolini lavabili alle bottiglie per l’acqua), ridurre lo spreco alimentare, promuovere il compostaggio domestico, creare una “green card” (ossia una raccolta punti per ottenere sconti sulla tassa dei rifiuti e ingressi ai musei), e tanto altro. Tutto questo dovrebbe generare, secondo Montanari, un incremento della differenziata al 68,5 per cento entro il 2021. È una visione realistica? Chi dice di no non pare un disfattista. Le idee di Montanari sembrano non considerare l’emergenza sociale rappresentata dalla gestione dei rifiuti.

Il piano triennale dell’Ama, che in genere è più operativo di quello comunale, sembra ugualmente pieno di ottime intenzioni ma di poche soluzioni per l’immediato.

Ipotizza una riduzione del 16,5 per cento del volume generale della spazzatura: le misure che dovrebbero portare a questo calo sono una fidelizzazione dell’utenza (1 per cento), campagna contro lo spreco alimentare (1 per cento), promozione del compostaggio domestico e di comunità (2,5 per cento), promozione dell’uso dell’acqua pubblica invece che di quella imbottigliata nella plastica (1 per cento), promozione dell’uso di tessili sanitari riutilizzabili (1 per cento), promozione dei centri di riparazione e riuso (1 per cento), programma di “acquisti verdi” (1 per cento), promozione dell’uso di prodotti alla spina (0,5 per cento), un regolamento per le feste all’aperto (1 per cento), una tariffazione puntuale della produzione del rifiuto indifferenziato (6 per cento), un progetto di valorizzazione degli scarti verdi (1 per cento), un protocollo per la gestione dei rifiuti dell’edilizia (1 per cento).

È chiaro che questa teoria di ottimi propositi ha una probabilità di concretizzarsi e di essere determinante – soprattutto per le percentuali indicate – tutta da dimostrare.

Inoltre, una delle questioni che Montanari continua a sottovalutare è che non si può pensare di accrescere la differenziata senza un incremento consistente del personale di Ama dedicato alla raccolta, e in questo momento un aumento sostanziale non è previsto.

Buoni propositi elettorali
La giunta comunale è insediata da circa un anno. Oltre agli avvicendamenti nell’assessorato all’ambiente, in otto mesi al vertice di Ama ci sono stati tre amministratori unici: Alessandro Solidoro, Antonella Giglio e Lorenzo Bagnacani – nominato alla metà di maggio dopo la defenestrazione di Giglio. Questo non ha giovato. Fare una buona politica sui rifiuti vuol dire accompagnare le decisioni. È ovvio che tutti vogliono incrementare la differenziata, ma è anche ovvio che affidarsi a una mutazione rapida dei comportamenti è ingenuo.

Tutti vogliono nuovi impianti (serve una discarica di servizio, ma servono anche altri impianti per la differenziata), ma nessuno li vuole nel proprio territorio. A nessuno piacciono i rifiuti in strada, ma non si possono sovraccaricare i tmb a danno della gente che ci vive accanto, non riuscendo a coordinarsi in modo più efficiente con la regione Lazio.

Il caso più emblematico di questo fallimento politico è quello del tmb di Salario: l’ex assessora Estella Marino (giunta Marino) aveva promesso la chiusura entro il dicembre 2015, l’ex assessora Paola Muraro si era impegnata per trasformarlo in un centro di raccolta dei rifiuti ingombranti, ora l’assessora Montanari dichiara che chiuderà entro il 2019, quando la raccolta differenziata sarà incrementata del doppio. Certo è veramente difficile continuare a credere a quelli che nel migliore dei casi sono buoni propositi, e nel peggiore ridicoli proclami elettorali.

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