Un intellettuale che sapeva raccontare il mondo
Chiunque l’ha conosciuto personalmente o chi ha soltanto letto i suoi articoli o i suoi libri, sa che Alessandro Leogrande era una persona generosa. Il che lo faceva essere un giornalista infaticabile e rigoroso, un redattore scrupoloso e intelligente, un intellettuale curioso che con i suoi articoli riusciva a contrastare le narrazioni superficiali del mondo.
Ci ha lasciato un’enorme quantità di articoli, inchieste, analisi, commenti e interventi. Tra gli ultimi, l’appello alle ong perché non partecipino alla spartizione dei fondi per i campi profughi in Libia; l’editoriale sul ritorno di Berlusconi scritto per la rivista Gli asini; il suo ultimo reportage per Internazionale. Ma la sua energia era tale che soltanto una parte della sua fame di realtà si può trovare nella sua scrittura.
Negli ultimi vent’anni ha partecipato a centinaia di incontri pubblici: presentazioni, seminari, incontri, ma anche riunioni di redazione, assemblee, e anche chiacchierate nei corridoi di un piccolo giornale di provincia, lunghissime telefonate e email in cui non si risparmiava di essere maieutico e dialettico, di cercare sempre un livello di indagine in più, una torsione del pensiero, qualunque fosse il tema proposto, o di consigliare libri, di citare autori non scontati. Non c’era occasione per cui non utilizzasse il suo tempo per farsi un’idea, per cambiarla, per farla cambiare agli altri. Luca Mastrantonio sul Corriere della Sera l’ha definito una mente alveare: “Davvero era una delle migliori menti della nostra generazione di trenta-quarantenni, perché era una mente alveare, incline alla collaborazione, fiducioso nello scambio di idee”.
Si era scelto come maestri Gaetano Salvemini e Antonio Gramsci, Giuseppe Di Vittorio e Carlo Levi
Alessandro Leogrande ha interpretato l’essere di sinistra come un esercizio continuo di militanza dalla parte degli ultimi e di studio alla ricerca della verità meno facile. Per farlo, si era scelto come maestri Gaetano Salvemini e Antonio Gramsci, Giuseppe Di Vittorio e Carlo Levi, Danilo Dolci e Luca Rastello. I suoi riferimenti, a cominciare dal meridionalismo migliore – usato per decostruire il reflusso neoborbonico – sono diventati nel corso della sua vita i suoi fratelli maggiori.
Era un garantista radicale nell’epoca del risentimento forcaiolo, sapeva leggere il mondo contemporaneo con la lente dei lunghi processi storici, ricordava sempre il potere della letteratura di cogliere lo spirito del tempo, ma anche di saper soffiare in direzioni inaspettate.
Politica, impegno, lavoro
Sui siti del Corriere della Sera, di Nuovi Argomenti, del Riformista, di Pagina 99 (per cui ha curato la sezione di reportage chiamata Fuoribordo), negli archivi di Internazionale, dello Straniero, di Radio3 e di minima&moralia (dove ripubblicava spesso gli articoli usciti altrove) è possibile trovare una traccia delle tante cose preziose che ha scritto e detto.
Era stato uno dei primi a rintracciare nel Movimento 5 stelle il rischio di un ripiegamento populista ed eversivo, a ragionare sulla crisi della democrazia rappresentativa in Italia a partire dalle debolezze strutturali del Partito democratico. Non si risparmiava nello stigmatizzare gli abusi della polizia italiana (i casi Cucchi e Aldrovandi) e nel seguirne i processi, a denunciare lo sfruttamento del lavoro dei migranti ma anche a raccontarne le forme di protesta e di sindacalizzazione, a emendare la retorica nazionalista del risorgimento italiano e a ripensare la questione meridionale in modo da non lasciarla a i professionisti del meridionalismo.
Era in grado di riconoscere la matrice sempre viva del fascismo e ne ha aggiornato le interpretazioni. Ha seguito l’evoluzione del leghismo e delle sue grottesche varianti meridionali (il suo saggio-memoir su Giancarlo Cito resta un modello di narrativa non-fiction). Ha raccontato chi in Campania, in Sicilia, in Puglia, continua a opporsi alle mafie vecchie e nuove. Nel calcio giocato e tifato ha individuato i sentimenti di massa di un paese e le sue tensioni sociali più carsiche. E ha analizzato l’arrembante retorica dei Marchionne o dei Riva, difendendo i diritti della nuova classe operaia, che fosse alla Fiat di Melfi o all’Ilva di Taranto.
Sull’Ilva di Taranto poi ha scritto una tale quantità di articoli che ricomposti potrebbero formare quasi un suo Moby Dick, dove la fabbrica è la Balena bianca, l’ossessione di un mostro forse necessario per lo sviluppo della città e al tempo stesso la causa della sua devastazione. Va dato merito a Mario Desiati e a Fandango di aver cucito insieme i saggi più lunghi su questo tema e averne fatto un libro, Fumo sulla città, che è esemplare per il metodo di lavoro e per lo spirito di denuncia. Ma anche qui, quello che ha scritto Leogrande era solo una parte della sua ricerca; ed era un singolare piacere per l’intelligenza starlo a sentire quando, magari per due o tre ore, in occasioni pubbliche, provava a sciogliere l’intrico di questioni legate all’Ilva, scardinando magistralmente ogni tipo di semplificazione o di strumentalizzazione politica.
Una trilogia
C’è da imparare – e molto – dai suoi testi giovanili, e incredibilmente maturi per il rigore della ricerca, editi dall’Ancora del Mediterraneo (Un mare nascosto, Nel paese dei viceré e Le malevite). E anche in quelli degli ultimi dieci anni, Uomini e caporali del 2008, Il naufragio del 2010 e La frontiera del 2015, che compongono una specie di trilogia sull’Italia al tempo della grande immigrazione: Leogrande aveva imparato che per raccontare i processi globali bisognava partire dal lavoro d’inchiesta sulle storie delle persone.
In Uomini e caporali si era concentrato sulle morti dimenticate di un gruppo di lavoratori di origine polacca ridotti in schiavitù nelle campagne pugliesi tra il 2004 e il 2007, e da lì era partito per smascherare il caporalato in Italia, il suo essere funzionale non a un’economia arcaica, ma a quella di un capitalismo che si fingeva moderno.
Le illusioni della modernità, eccole: non ha mai creduto a nessuna di queste. E non perché fosse attratto da qualche tentazione nostalgica, fosse pure sublimata da una fascinazione pasoliniana, ma perché sapeva che per essere seriamente progressisti non si potevano fare sconti agli spacciatori della falsa valuta del nuovismo. Amava la pedagogia, riconosceva il “principio speranza” nella storia, e al tempo stesso non ha mai manifestato nessun incanto per le anime belle.
Maestri
Nel suo metodo di lavoro c’è da riconoscere anche la gratitudine che aveva nei confronti dei suoi maestri: primo fra tutti sicuramente Goffredo Fofi, con cui ha lavorato fianco a fianco per vent’anni nella redazione dello Straniero come vicedirettore, e in centinaia di altre imprese. E poi i nomi che abbiamo ogni volta reimparato a conoscere, a rileggere e ad amare attraverso Leogrande, in modo mai fanatico, ma sempre laico. Riattualizzare la loro eredità per lui voleva dire contestualizzarli, servirsi dei loro strumenti e farli dialogare con i nostri tempi.
Ha letto e amato Albert Camus e George Orwell, Isaiah Berlin e Walter Benjamin, intellettuali che potremmo definire mediterranei come Franco Cassano, Predrag Matijevic o Fernand Braudel. E nella sua biblioteca ideale aveva messo insieme una specie di controcanone italiano, che comprendeva Alexander Langer, Ermanno Rea, Rocco Scotellaro, Marco Pannella, Fabrizia Ramondino, fino a nomi meno noti come Tommaso Besozzi, Vittorio Bodini o Rina Durante. Il nostro paese visto dai suoi occhi sembrava meno arido, meno irredimibile, sempre un po’ meno una terra guasta.
L’ambizione di ritrovare la dignità degli uomini di fronte alle devastazioni del potere era quella che l’aveva animato negli ultimi anni, nell’andare a raccontare l’Albania sopravvissuta al regime di Enver Hoxha o l’Argentina che faceva i conti con le torture del Plan Condor.
Era implacabile nella ricerca della verità, era amabile per come riusciva a mettersi in contatto con le persone. Non era solo una mente alveare, era un compagno. Per questo sarà un casino ricordarlo: ogni volta non basterà ripensare a tutta la sua rara capacità di raccontare il mondo, ma ci verrà in mente il modo in cui questo mondo lo abitava, e quello ci mancherà ancora di più.