Sui problemi della scuola bisogna ascoltare le voci degli studenti
Si parla tanto di scuola, soprattutto in questi giorni a cavallo degli esami finali; ma è raro che a parlarne non siano gli insegnanti, i genitori, i presidi, i ministri, gli editorialisti, insomma gli adulti, e siano invece i ragazzi. Quando capita è un’occasione davvero preziosa. Gli incontri che si sono svolti in un piccolo festival letterario a Rimini, Mare di libri, sono proprio questo genere di occasioni, che nascono da una semplice mossa: a potere intervenire sono solo i minorenni.
In uno di questi incontri dedicato alla scuola, coordinato da Marco Magnone, ho avuto la fortuna di partecipare insieme alla scrittrice e insegnante Giusi Marchetta e a un centinaio di ragazzi. Si è partiti da una questione semplice: la scuola è o non è uno spazio di libertà, e dovrebbe esserlo? Anna, una ragazza al quarto anno del liceo, ha criticato subito una retorica molto in voga: “Dipende cosa intendiamo per libertà. Si dice che la scuola ci deve aiutare a trovare un lavoro, per me deve invece farci conoscere noi stessi e il mondo. ‘La scuola serve per il mondo del lavoro’ sembra la formula della disperazione di chi non ha niente da insegnare di bello”.
A scuola sono sempre più sporadici i luoghi dove si discute di politica dell’istruzione o di didattica coinvolgendo adulti e ragazzi
Che cosa impedisce che sia così? Dice Ginevra, al bienno delle superiori: “La mancanza di passione. Noi abbiamo molti insegnanti prossimi alla pensione, e forse sono stanchi. Questo noi ragazzi lo sentiamo, perché abbiamo bisogno di professori che ci facciano entusiasmare della materia”. “Non tutti possono fare gli insegnanti”, aggiunge Alessandra, 18 anni, “E io la passione me la aspetto, la pretendo”. “Non è tanto una questione di passione”, ha ribattuto Carla, che invece frequenta il trienno, “quanto del complesso di superiorità dei docenti: a me non piace la mentalità degli adulti, la puzza sotto il naso che traspare nei licei, soprattutto nei classici, che si traduce semplicemente in poca capacità di ascolto”. Jacopo, 18 anni, cerca di approfondire: “Non è giusto generalizzare, ma occorre pensare che la pedagogia, come tutte le discipline è in pieno sviluppo. E aggiornamento vuol dire questo: io ho una professoressa che insegna da ventisei anni e ogni anno diventa più brava”. Jacopo tocca un punto dolente: spesso gli insegnanti non si aggiornano perché non gli è richiesto, perché non ci sono fondi per farlo, e in generale guadagnano pochi soldi per investirli in formazione.
Da subito questo dibattito mi fa un effetto strano: a scuola sono sempre più sporadici i luoghi dove si discute di politica dell’istruzione, di pedagogia e persino di didattica coinvolgendo adulti e ragazzi. Gli organi collegiali (i consigli di classe, i collegi dei docenti) spesso sono ridotti a organismi che ratificano decisioni burocratiche, e lo spazio per la politica e soprattutto per il conflitto continua a essere ridotto: autogestioni che si trasformano in cogestioni o settimane dello studente, il voto in condotta usato per mettere a posto gli studenti che hanno un carattere più critico, le molte ore dedicate all’alternanza scuola-lavoro e giocoforza sottratte alle esperienze culturali, politiche, di volontariato.
“Questi confronti non esistono perché gli insegnanti sono abituati a fare solo le lezioni frontali e non ad ascoltare i ragazzi”, ribatte Emilia, 17 anni. Molti concordano che la relazione tra docente e studenti sia unidirezionale, anche se Francesco dice che bisognerebbe fare uno sforzo per capire anche il punto di vista di chi sta in cattedra, le sue difficoltà nel fare lezione a venticinque persone.
Giusi Marchetta fa un esempio perfetto: “Ragazzi, siete andati subito al cuore del problema. Avete presente quando in una bicicletta la catena si toglie? Sarebbe facile se i ragazzi fossero biciclette e noi potessimo semplicemente rimettere la catena a posto, ma non è così. La scuola è un incontro, e voi avete diritto a fare begli incontri a scuola, e spesso non vi capita. Ma non capita perché il confronto può fare paura: se io non sono mai messa in discussione come insegnante, quell’ora fila liscia. Ma se un ragazzo mi spiazza, fosse anche perché mi vuole picchiare con il casco, capite che quella è una sfida complessa, non è rimettere la catena a una bicicletta”.
Cambiare modello
Martina, in quinto liceo classico, non solo è d’accordo ma mette il dito nella piaga: “Io ho fatto un anno di scuola in Australia, in cui vige un modello in cui puoi essere sempre parte attiva in classe, e quando sono tornata in Italia la scuola italiana, con le sue lezioni frontali, i suoi zitti ragazzi ascoltate mi è sembrata penosa!”. Oriana ha appena finito la terza media ma è già molto consapevole: “Il problema non è che il professore non parla con i ragazzi, ma che i professori non si parlano tra loro, non si danno consigli, non si confrontano, alle volte sembra che devono fare a gara tra di loro”. Un altro ragazzino, Stefano, ancora più giovane (11 anni), interviene dopo che qualcuno ha citato un articolo di Ernesto Galli della Loggia, uscito sul Corriere della sera il 4 giugno, che si schierava per una scuola con più disciplina e meno chiacchiere: “Gli insegnanti devono fare domande che non ci aspettiamo e anche noi studenti dobbiamo fare domande agli insegnanti. Se no, cos’è la partecipazione?”.
È soltanto un’ora di discussione ma ha un esito sorprendente. Nel dibattito pubblico si parla di solito delle nuove generazioni come di una massa di inerti, alienati, se non bulli potenziali, disinteressati a tutto. “Per me nella scuola ideale”, prende la parola Paola, 16 anni, “ognuno è insegnante e studente allo stesso momento. Una scuola del rischio, del tempo aperto, come appunto nel greco skolè”. Perché queste voci non vengono ascoltate? “Io vengo da Roma”, interviene Roberta, 17 anni, “e vengo dal Visconti, il liceo che è stato al centro delle polemiche per il giudizio di autovalutazione per cui si invitava a iscriversi perché è una scuola senza disabili e stranieri. Noi studenti abbiamo scritto lettere ai giornali, abbiamo coinvolto gli adulti per cercare di mostrare come la stragrande maggioranza di noi la pensassimo diversamente dalla preside e da gran parte del corpo docente. Le nostre istanze sono state completamente ignorate”.
Arrabbiati, delusi, fiduciosi, ogni intervento di questi ragazzi è una dimostrazione incredibile di autonomia di pensiero, di capacità di riflessione e di argomentazione, ma soprattutto la riprova che quest’autonomia si genera se fa parte di un dibattito. È innegabile che ci vuole pochissimo a crearlo; allora la domanda è se noi adulti siamo pronti a accogliere questo dibattito, invece di immaginare (più comodamente) di avere a che fare con generazioni infantilizzate, da proteggere, punire, controllare. Se è così, è una sfida che abbiamo già perso.
I nomi dei ragazzi sono di fantasia.