L’arte della critica e la strategia dell’attenzione
Il 21 ottobre – nell’anno del centenario della nascita di André Bazin e nel giorno del trentaquattresimo anniversario della morte di François Truffaut – alla Festa del cinema di Roma c’è stato un incontro sullo stato dell’arte della critica cinematografica, intitolato Condizioni critiche. L’ha coordinato Mario Sesti, e hanno partecipato i critici Alain Bergala e Serge Toubiana (ex direttore dei Cahiers du Cinéma e della Cinémathèque française), Anthony Oliver Scott (del New York Times) e Stefania Parigi (docente di movimenti e autori del cinema all’università Roma Tre).
È stato un incontro lungo, interessantissimo e strano. Bergala, Toubiana e Scott hanno raccontato la loro educazione sentimentale di scoperta del cinema: nei cineclub, nei cinema di provincia, nei cinema d’essai, con le collezioni di vhs e poi dvd; e hanno sottolineato il cambiamento radicale portato dal digitale. Dal momento che in un modo o nell’altro tutta la cinematografia esistente sembra essere disponibile in streaming, com’è cambiata l’educazione all’immagine e come è cambiata la critica?
Le due domande valgono anche in contesti con politiche culturali agli antipodi – il modello francese con il suo sostegno di stato, il modello privatista degli Stati Uniti – e di fatto si declinano con almeno un altro paio di questioni: perché i giovani vanno così poco al cinema? Perché la critica è diventata così marginale?
La gente guarda film ovunque, ma non ha uno sguardo critico; critica sembra una parola vecchia
La memoria prima delle videocassette
Bergala e Toubiana sono convinti che sia venuta meno la condivisione di due presupposti: il cinema è una forma d’arte – e non solo un prodotto industriale – e quando parliamo d’arte intendiamo qualcosa che sia trasformativa individualmente e collettivamente. Quanto valeva – al di là della nostalgia – “scoprire un film, andare a cercarselo in un piccolo cinema, poterlo vedere quella sola volta?”, ha chiesto Bergala. Adriano Aprà, dal pubblico, critico cinematografico italiano, inventore del festival di Pesaro, ha ricordato che chi faceva il critico doveva entrare in sala cercando di ricordare a memoria quello che vedeva. “Prima dell’homevideo avevi solo quella chance di incappare in quel film lì”.
Per questo, oggi la critica è resistenza o non è, ha insistito Bergala incassando i consensi di tutti in sala, tra relatori e pubblico. A.O. Scott – autore anche di un bellissimo vademecum, Elogio della critica, uscito per Il Saggiatore – ha fatto luce sul senso di una critica come resistenza: “Educarsi al cinema significava vedere film che non ci convincevano, che non capivamo”. Resistenza, quindi, è fare una scelta quando sembra di essere costretti a vedere ciò che già ci piace, ciò che ci somiglia, ciò che per noi è scontato.
Non come succede con Netflix o Amazon, che già alla fine della visione di un titolo ci suggeriscono “se ti è piaciuto x, puoi vedere y”: un algoritmo non è ovviamente programmato per essere sorprendente, o per indicarci dei film che non incontreremmo. “The importance of the unfamiliar”, ha ribadito Scott.
Al tempo del flusso continuo di immagini, la questione della critica è allora una questione profondamente pedagogica, come dice Toubiana: “Serve una politica culturale di strategia dell’attenzione. La gente guarda film ovunque, ma non ha uno sguardo critico; critica sembra una parola vecchia. Per me, il cinema è stata la cosa più bella che mi è capitata nella vita, mi ricordo tutte le giornate in cui mi ha reso felice. Sono stato fortunato. Ho avuto come maestro Godard, nei Cahiers du Cinéma ho imparato ad ammirare gli autori. Mentre oggi lo spazio collettivo è stato distrutto dal digitale, e i cinema sono pieni di vecchi”.
C’era una volta la storia dell’arte
Toubiana ha inanellato anche una serie di aneddoti su cosa ha voluto dire per una comunità di persone attraversare e insieme fare la storia del cinema. Uno su tutti riguardava lui stesso e Serge Daney, altro leggendario direttore dei Cahiers du Cinéma. La volta che andarono a trovare François Truffaut a casa, e il regista li rimproverò di aver trasformato i Cahiers in una rivista maoista: “In metropolitana, tornando a casa, ci siamo vergognati e ci giurammo: faremo una rivista che piaccia a Truffaut e al pubblico”.
Quale può essere, nel metodo, questa politica per una strategia dell’attenzione?
La seconda parte dell’incontro è stata dedicata proprio all’educazione visiva. Stefania Parigi ha ricordato che a scuola la storia dell’arte è sempre più bistrattata e manca una educazione all’immagine. Il cinema, poi, a scuola non è mai entrato realmente, il piano nazionale del cinema nella scuola è lungi dall’essere operativo.
Bergala ha invece parlato del suo metodo d’insegnamento: “Occorre raccontare e smontare i processi creativi, cercare di comprendere l’importanza del punto di vista. A ciascun gruppo di studenti mostro varie scene dello stesso tipo: per esempio una coppia alla stazione, uno parte uno resta. Gliele faccio vedere, loro trovano analogie, ci mettono le loro idee, e poi io do il mio contributo. Non basta amare le opere, bisogna capire le scelte di chi le ha girate. E non è vero che il cinema è ovunque. Sei in un paesino di campagna, e magari un giorno a scuola ti portano a vedere un film di Kiarostami, e tu dici: ecco, ho visto una cosa che non somiglia a niente di quello che ho già visto, voglio fare quello nella vita. La pedagogia è una cosa difficile, ma poi arriva uno dieci o trent’anni dopo e ti dice: sai, quella lezione mi ha cambiato”.
Anche Aprà ha voluto indicare gli strumenti più utili a insegnare cinema: quelli che ha definito critofilm, ossia i documentari che raccontano la storia del cinema con un profilo mirato a indagare il processo creativo; i megapowerpoint che riescono a smontare le immagini; l’analisi ipermediale dei film (un esempio che ha citato è il lavoro che lui stesso ha fatto con i suoi studenti su Mizoguchi).
È parso chiaro, alla fine, che tanto Toubiana quanto Bergala e Scott indicassero un’urgenza: quella di un passaggio di testimone nella critica cinematografica. L’eredità più che secolare della storia del cinema ha prodotto anche un patrimonio di studio e riflessione, che altrimenti rischia di essere disperso, nonostante la nostra civiltà abbia oggi la possibilità di archiviare tutto lo scibile e il vedibile.