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Il mediocre Happy end di Michael Haneke

Il cast di Happy end a Cannes, il 22 maggio 2017. (Stephane Cardinale, Corbis/Getty Images)

Incredibile. Il film di Michael Haneke non regge. Chi l’avrebbe mai detto? Nel suo Happy end (presentato in concorso) ritroviamo la coppia di Amour – capolavoro giustamente premiato con la Palma d’oro – cioè Jean-Louis Trintignant e Isabelle Huppert, ma la pellicola replica in maniera stanca temi e sottotemi tipici della filmografia del regsta, e si risolve in buona parte in una serie di scenette che si vogliono rappresentazione di una famiglia della borghesia francese sempre sull’orlo del suicidio.

Ma essendo ormai un’istituzione vetusta, grottesco simulacro di se stessa, immancabilmente, in ogni sua espressione, non riesce a ritrovare la grandezza, la gravità delle cose, nemmeno in quella che potrebbe essere un’uscita di scena grandiosa.


L’happy end s’impone quindi, ma è un happy end della mediocrità: l’apocalisse, se mai ci sarà, sarà mediocre. Incapace di gestire crisi complesse e di dargli prima di tutto uno sguardo semplicemente umano, come sulla questione dei profughi e degli immigrati, annegherà, ma a metà. Forse c’è anche da parte del cineasta una perfida critica alla Francia nel suo complesso.

Comunque sia, invece che rilettura, o riflesso (quando lo spettatore vedrà, capirà), di Amour e nuovo capitolo del gioco raffinato sulla perversione o sull’assenza di umanità per mettere in evidenza la sua importanza fondamentale (nulla meglio dell’assenza, ci riesce, la morte in primis), le scenette citate mancando di reale profondità e intensità sia al loro interno sia nella loro concatenazione, salvo che per brevi tratti. Il film finisce così per essere speculare a quanto vuole criticare.

Nei film selezionati per il festival torna molto spesso il tema del terzo mondo che ci sta accerchiando nei modi più svariati. E questo è un merito anche se nella maggior parte dei casi ci sembra che il tema venga trattato in maniera maldestra. Dal film d’apertura Les fantômes d’Ismaël di Arnaud Desplechin di cui abbiamo già parlato, a Jupiter’s moon di Kornél Mundruczó, passando per The square dello svedese Ruben Östlund, fino ad Haneke.

Proprio il film di Östlund finisce per essere, come Happy end, lo specchio di quanto vuole criticare, ovvero certe posture dell’arte contemporanea, la sua tendenza all’estetizzazione, spesso anche algida, con il fine di far meglio sentire lo stridore sull’assenza di umanità e di semplicità nel guardare all’umano, nella fattispecie ai rifugiati. Il film non prende distanza rispetto all’oggetto della critica e sembra eccessivamente didascalico nel voler esprimere la sua tesi. Compresa la violenta sequenza della cena-ricevimento con il mimo dello scimpanzé che destabilizzando la borghesia destabilizza anche il senso dell’arte e la sua verità. Forse l’unica scena davvero interessante, sciupata però da un’eccessiva pesantezza didascalica nella rappresentazione.

Eroi per tutti
Didattico nella prima parte, anche se pieno d’informazioni poco note, ma poi umano e sensibile nella seconda, è invece il film del francese Robin Campillo, 120 battements par minute (120 battiti al minuto, in concorso) sugli attivisti di Act-Up-Paris che sul modello dell’equivalente organizzazione statunitense fecero un enorme lavoro di sensibilizzazione e di prevenzione reale sull’aids tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta contro il misto di ottusità e di servilismo verso le multinazionali farmaceutiche del governo socialista di Mitterrand.

Come detto, nella parte finale iniziale il film soffre di una dimensione illustrativa e didattica sul funzionamento dell’organizzazione, in gran parte composta da persone colpite dalla malattia. Ma il regista raggiunge l’umano nella seconda parte, e, questo il vero exploit, ci riesce filmando il bisogno di amore di due ragazzi, la coppia che fa da perno al film, che si desiderano e si amano malgrado la malattia.

Il tutto in un equilibrio quasi impossibile di delicatezza, pudore e sfrontatezza. Invece l’equilibrismo a Campillo riesce, con semplicità e finezza. Del resto aveva già avuto successo in un’impresa analoga nel suo precedente film Eastern boys, presentato e premiato a Venezia nel 2013. Crea degli eroi per tutti, gente normale che incredibilmente è riuscita a fare quanto ha fatto. Per tutti noi e malgrado la loro condizione.

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