L’insulto che tocca i nervi scoperti del Libano
A volte la sequenza o la parte iniziale di un film ne enunciano il contenuto, nella forma o nelle tematiche trattate, o entrambe le cose. In questo caso è soprattutto vero per tematiche o leitmotiv che costellano il film sottotraccia, ma con significati importanti se non fondamentali.
L’insulto, del regista libanese Ziad Doueiri, presentato in concorso all’ultimo festival di Venezia dove ha ottenuto il premio per la miglior interpretazione maschile, comincia con un raduno di propaganda ossessivamente patriottica e cristiana a Beirut organizzato dal partito di Bashir Gemayel, il leader politico assassinato nel 1982, esponente di una dinastia politica ancora attiva e divisa in correnti e fazioni al suo interno. Bashir Gemayel, figlio di Pierre Gemayel, fondatore delle Falangi libanesi, era particolarmente rigido, fanaticamente nazionalista.
Il comizio del prologo manda con chiarezza questo messaggio. Quanto urlato e detto dal politico sul palco rimarca il nazionalismo abbinato alla religione: “Il partito cristiano è come la Bibbia. Nella Bibbia, sapete, c’è l’Antico testamento e il Nuovo testamento. In passato cosa si diceva? Solo il Partito cristiano protegge Beirut. Oggi, cosa si dice? Il Partito cristiano sostiene lo stato!”.
Soprattutto è evidente che idealmente il presidente è ancora Bashir Gemayel del quale è ben visibile una gigantografia alle spalle dell’oratore. Nel filmare il raduno la regia mette in evidenza uno dei due protagonisti maschili di questo film in realtà corale, il quale, tornato a casa allegro sull’onda briosa della marcetta del comizio, tesse ancora le lodi del politico in questione immortalato in una grande fotografia incorniciata nel salotto.
Il regista, che aveva esordito nel 1998 a Cannes con West Beyrouth e che qui è al quarto lungometraggio, tornato da Venezia con il premio è stato arrestato, processato e prosciolto da un tribunale militare, accusato di collaborazionismo con il nemico israeliano. Un chiaro segno che L’insulto tocca un nervo scoperto, anche se il film non è manicheo e non traccia della politica un ritratto totalmente negativo. Uno dei messaggi è anzi quello dei cambiamenti che devono partire dal basso, da una volontà comune della popolazione di venirsi incontro, anche nel rapportarsi nel quotidiano, nelle cose più banali, e che non tutto dipende dalla sola politica.
La reazione appare quindi sproporzionata, forse dovuta anche al forte nervosismo della politica, dato che il primo ministro libanese Saad Hariri ha annunciato le sue dimissioni lo scorso 4 novembre per poi tornare in patria annunciando al presidente Michel Aoun di averle ritirate dopo un incontro con il presidente francese Macron.
Gigantografia dell’ego
È proprio da un atto del quotidiano dei più banali che parte una faida che coinvolge i mezzi d’informazione, scatena le passioni nel paese e preoccupa la politica. Un anziano capocantiere palestinese fa riparare la grondaia irregolare del terrazzino di un’altra abitazione da dove poco prima era colata l’acqua dell’innaffiatura.
Il proprietario esce come un fulmine sul terrazzo e con un martello distrugge la riparazione. Al capocantiere, indignato e sconvolto, sfugge un epiteto. L’insulto del titolo. La pallina di neve diventa valanga e il cristiano manda sotto processo il palestinese malgrado i tentativi di mediazione del volenteroso direttore dell’impresa.
Le donne sono nettamente più equilibrate e ragionevoli in questo mondo dominato da una sorta di gigantografia dell’ego e soprattutto dell’orgoglio maschile, di cui il Dio monoteista, assoluto, sembra il paradigma, la metafora, la proiezione. Non manicheo, nel film non manca qualche personaggio secondario, magari anziano, dissonante rispetto a questo orgoglio ossessivo e perentorio, dove l’insulto all’autorità patriarcale pare un insulto a Dio stesso, forse addirittura a quello dell’Antico testamento.
Questo film parla anche di noi, di quanto sia inutile fare i superbi, gli orgogliosi, i superiori
L’insulto gioca infatti con finezza sul rovesciamento del manicheismo e più in generale degli schemi, della rigidità. Non è facile, perché il fantasma elettronico di Gemayel – i filmati di repertorio infestano il film come la vita dei personaggi – continua a sputare veleno sulla minoranza palestinese. E va detto che il tono delle sue dichiarazioni ricorda certi personaggi che appestano la politica europea di oggi, a cominciare dall’Italia, il paese che ha dato il via al fascismo in Europa.
Questo film parla anche a noi, anche di noi, inutile fare a nostra volta i superbi, gli orgogliosi, i superiori. Parla della rigidità dei meccanismi mentali umani in generale e di quelli maschili in particolare, e di come questi si riflettano nella meccanica sociale.
Scontro che poi diviene incontro, prima intergenerazionale e infine interetnico, se non interreligioso, tra le fazioni durante il dibattimento processuale. L’anziano avvocato Wajdi difende il cristiano, sua figlia, intrisa di modernità, il palestinese.
Lungo il dibattito affiora il passato del palestinese, non sempre trasparente. Ma quello che pare asserito per chiudere il processo, viene rovesciato in favore del capocantiere. E così sarà pure per il cristiano. È una lezione di memoria e di storia che si profila gradualmente, sugli eccidi noti e quelli dimenticati, che lasciamo scoprire allo spettatore, poiché questi sono il momentum del film.
Il quale esce qui dallo psicodramma cinematografico per assurgere con potenza e semplicità al dramma umano della storia. Non ci può essere perdono e quindi riconciliazione senza assunzione di responsabilità reciproca – perché tutti hanno colpe e giustificazioni – e senza conoscenza storica e comprensione piena del dolore immenso che fa covare questa rabbia insensata e perenne dell’orgoglio, della frustrazione.
Alla fine della guerra, l’amnistia diventò amnesia, dice il regista, e qui sta il nodo da affrontare e sciogliere per uscire dall’eterna e perenne grande faida, dal grande campo di prigionia interiore del passato, per una nuova alba dei rapporti interrazziali, religiosi, politici e più semplicemente umani. Non un insulto ma un messaggio di pace.