Al festival di Locarno vince un film contro le schiavitù del presente
Le lacrime in piazza Grande di Yeo Siew Hua al momento della premiazione con il Pardo d’oro per il suo A land imagined, ambientato tra gli immigrati asiatici di Singapore, sembravano esprimere una commozione al tempo stesso profonda e adolescenziale, e resteranno nella memoria come uno di momenti più toccanti e veri di questo 71º festival di Locarno, forse il momento più autentico di tutti.
Arrivato quasi in chiusura del concorso internazionale, A land imagined ha sorpreso un po’ tutti, giuria compresa. Sicuramente il tema scelto, la profonda umanità e lo stile, onirico e concreto insieme, non devono aver lasciato insensibile Jia Zhangke, il presidente della giuria (giuria composta dall’attrice e autrice di teatro Isabella Ragonese, la regista italoaustriaca Tizza Covi, lo scrittore francese Emmanuel Carrère e Sean Baker, uno dei registi più interessanti del cinema indipendente statunitense, spesso selezionato a Locarno).
Il grande regista cinese, una persona molto semplice e umana, ha molti parenti operai e questa categoria o altre analoghe sono state spesso ritratte e raccontate nei suoi film, che rivelano una capacità come poche di fissare sullo schermo immagini e sequenze memorabili sulla loro profonda solitudine, il loro essere quasi degli schiavi e malgrado questo capaci di conservare una profonda umanità, come per esempio i personaggi di The world, presentato in concorso a Venezia nel 2004, uno dei più belli sotto questo aspetto e con al centro uno straordinario personaggio femminile.
Premi meritati
Ma prima di parlare di A land imagined, qualche parola sul resto del palmarès. Se ci dispiace che non sia stato premiato Yara, adolescente delicata raccontata dall’iracheno Abbas Fahdel, il nostro film preferito, siamo felici per i premi agli ottimi M dell’israeliana Yolande Zauberman (ne abbiamo parlato nella seconda cronaca da Locarno), premio speciale della giuria, e per Tarde para morir joven della cilena esordiente Dominga Sotomayor, Pardo per la miglior regia. Come anche meritati sono il Pardo per la miglior interpretazione maschile a Ki Joo-bong attore protagonista di Gangbyun hotel del maestro sudcoreano Hong Sang-soo e il Pardo per la miglior interpretazione femminile ad Andra Guţi, l’adolescente terribile di Alice T del romeno Radu Muntean. Infine, meritata la menzione speciale a Ray e Liz del britannico Richard Billingham, bel ritratto di famiglia povera e di alienazione, pervasa da uno humour sottile.
A land imagined è un film binario, fisico e metafisico, e non stupisce che il giovane autore sia laureato in filosofia
Come Yara resta fuori dal palmarès anche il film monstre del concorso, La Flor dell’argentino Mariano Llinás, circa quattordici ore di narrazione a più strati. Tre parti che racchiudono sei episodi indipendenti l’uno dall’altro ma con un unico punto di collegamento rappresentato dalla presenza in ciascuna delle storie delle stesse quattro attrici (Pilar Gamboa, Elisa Carricajo, Laura Paredes, Valeria Correa, tutte notevoli nell’interpretazione), a ulteriore conferma dall’importanza delle donne nei film selezionati in questo festival.
È un non film e insieme un grande film, ha l’ambizione cioè di fare del grande cinema d’autore e popolare, mentre in realtà è sperimentale. Ha però parti logorroiche e la genialità dell’idea teorica che lo supporta non sempre trova una forma concreta e ispirata.
Tuttavia, nel secondo episodio (quello che è capace di fare mischiando le sonorità di canzoni popolari, o parodie di esse, raggiungendo onirismo e vera magia è straordinario) e in particolare nella sua terza e ultima parte, sperimenta dappertutto e ammalia altrettanto.
Un film sottosopra come esplicita il finale con i titoli di coda che durano mezz’ora, quasi un microepisodio a sé stante, dove l’orizzonte della pampa argentina è a lungo capovolto, la terra sopra, il cielo sotto, salvo (ri)allinearsi all’ultimo. È un film utopia di un’altra epoca, un film come non se ne fanno quasi più e grande è il merito del direttore Carlo Chatrian di aver messo un’opera simile non ai margini, in sezioni speciali o nel fuori concorso come fanno ormai tanti festival, ma in prima posizione, quella del concorso principale.
Le metafore della vita dura
A land imagined è un film binario, fisico e metafisico, e non stupisce che il suo giovane autore, al suo secondo lungometraggio, sia laureato in filosofia all’università di Singapore. In appena un’ora e mezzo, oscilla tra narrazione concreta e cinema antinarrativo, tra genere narrativo (il poliziesco) e negazione del genere, tra realtà e sogno. Non solo tra il giorno e la notte, ma prima di tutto tra il biancore livido della realtà e i colori psichedelici e le luci al neon, che dominano nell’estetica kitsch del nuovo capitalismo asiatico (anche questo un tema centrale nel cinema di Jia Zhangke) e sembrano l’unico colore capace di trasfigurare un poco il grigiore opprimente della realtà quotidiana.
Quando si dissolve questa colorazione artificiale, in realtà altrettanto alienante di quella naturale, la vita dura e senza diritti degli immigrati asiatici a Singapore appare con chiarezza. Sono immigrati cinesi in particolare e parlano dei loro diritti, della loro dignità, dei pidocchi e dell’assenza di semplice igiene negli squallidi dormitori, della mancanza di assicurazione per gli incidenti del lavoro, del loro desiderio di organizzare uno sciopero serio, quest’ultimo aspetto rivendicato soprattutto da un immigrato del Bangladesh.
Ma chiunque esprima un qualsiasi desiderio di sovvertire qualcosa in quell’ambiente, scompare misteriosamente. Svanisce, si dissolve. Alla ricerca di questi fantasmi, un ispettore di polizia e il suo vice scoprono una realtà tetra.
Se la dialettica tra estetica diurna delle immense distese di sabbia e luci al neon è metafora del desiderio, dell’anelito a un “altrove” (la terra, land, immaginaria del titolo ma che al tempo stesso è anche la città-stato di Singapore) da parte dei lavoratori schiavizzati, il film racchiude al suo interno, come in una serie di scatole cinesi, altre micrometafore di questo tipo. In particolare la saletta da giochi virtuali dove era solito andare l’operaio cinese scomparso, le tapparelle che coprono le finestre e i cui eleganti disegni rappresentano luoghi esotici oppure giardini ordinati, o ancora la sequenza notturna nell’abitazione dell’ispettore, il quale come deambulando alla ricerca dei pezzi di questo puzzle, passa in rassegna molte e splendide stampe orientali raffiguranti animali e scenari naturali fino ad arrestarsi su un grande quadro occidentale, raffigurante un immenso e bellissimo prato ondulato, dal verde intenso.
Ma basta spostare le tapparelle e nella sala giochi entra la luce diurna del mondo reale. Dal quale, come uniche note positive, emergono piccoli atti di intensa umanità tra gli immigrati stessi, come l’immigrato del Bangladesh, che prima di scomparire, massaggia dolcemente la nuca del collega cinese. Un contatto tattile, concretamente umano sul quale il regista insiste in termini di inquadrature. Il regista, anche qui, sembra condividere con Jia Zhangke la capacità di costruire piccoli gesti o sequenze apparentemente anodine ma dal significato profondo.
Andando a indagare nella sala giochi l’ispettore scopre tra le altre cose dei “fantasmi”, questa volta elettronici e imprigionati nel mondo virtuale, i giocatori con cui dialogava l’operaio cinese scomparso. Per l’ispettore, si apre una verità meno drammatica ma altrettanto terribile in termini di inumanità, con un conseguente sentimento d’impotenza. La macchina lavorativa dello sfruttamento, oltre a trattenere i passaporti dei lavoratori, trattiene anche in altri (non) luoghi gli agitatori o chi è troppo curioso, in un miscuglio inestricabile di promesse e minacce, paura e (false) speranze.
Quella sabbia continua che arriva dalla Malesia e altri posti deforma i luoghi conosciuti di Singapore, la priva d’identità come ne sono privati i lavoratori-schiavi e tutto questo il regista lo rende in maniera piuttosto potente, con sequenze oniriche – a cominciare da quella straordinaria iniziale – e un racconto simbolico che pure documenta con precisione. Può far pensare al primo Wong Kar-wai degli adolescenti sperduti, ma prima di tutto rimanda a Michelangelo Antonioni, la matrice alla base di tutto questo cinema asiatico, il regista che ha indagato per primo l’alienazione moderna e la frammentazione dell’individuo dalla sua unitarietà umana.
La costanza del presente e del ricordo
Per finire, una veloce panoramica non solo legata al concorso, sulla centralità femminile data in questa 71ª edizione, ma già riscontrabile nell’edizione passata, con uno sguardo veloce anche su qualche altro titolo meritevole non riconducibile a questa caratteristica.
Due adolescenti dalla forte e complessa personalità sono al centro del riuscitissimo Sibel (concorso internazionale) di Çagla Zencirci e Guillaume Giovanetti, coppia franco-turca nella vita come nella professione, e di Alice T. del romeno Radu Muntean (concorso), già autore di diversi lungometraggi di qualità presentati a Locarno o Cannes.
Il primo, Sibel, ambientato in un villaggio sperduto tra le montagne della Turchia lungo la costa del mar Nero, riesce a realizzare un’opera non banale sull’oppressione della donna nelle società rurali dove sopravvivono ancora molti arcaismi, grazie anche al volto e agli occhi della giovane attrice protagonista che interpreta una ragazza muta, quasi una ragazza-lupo che sovverte tutto. Metafora più in generale sui pregiudizi che colpiscono chi è diverso, racchiude un’ulteriore metafora sulla situazione attuale della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, chiusa su se stessa fino quasi all’asfissia.
Il secondo, fotografa benissimo un’adolescente di oggi che diventa anche una fotografia della società romena. Soprattutto, il regista riesce inaspettatamente a creare un legame da parte dello spettatore con una ragazza adolescente, fisicamente appariscente quanto ispida, ruvida, nel carattere.
E ancora l’esordiente argentina María Alché che con il bel Familia sumergida (cineasti del presente) ci presenta un ritratto famigliare, delle relazioni, e che condivide con Tarde para morir joven della cilena Dominga Sotemayor la scelta stilistica di filmare il passato come fosse un presente ma che al tempo stesso ha già il sapore della passato, l’opacità onirica del ricordo.
Il ricordo sembra una costante di questo festival, forse soprattutto tra le opere sudamericane, come per il già citato La Flor dell’argentino Mariano Llinás (concorso) e per Fausto (cineasti del presente) film d’esordio nella fiction della canadese Andrea Bussmann che firma oltre alla regia anche la fotografia, la sceneggiatura, il suono e il montaggio. Con un film di grande sensibilità poetica e originalità visiva, Bussmann, laureata in antropologia sociale, realizza un racconto tra mito locale e realtà concreta tra gente umile lungo la costa di Oaxaca, in Messico, rielaborati con riferimenti al ben più celebre mito del Faust, il tutto con uno stile prossimo al documentario di poesia.
La questione che pongono queste autrici è sempre quella di una riappropriazione della memoria, identitaria, che ci si senta sperduti in famiglia come nelle opere di Aiché e Sotomayor o in una società rurale o di pescatori come nel lungometraggio di Bussmann. Oppure ancora sono donne alle prese con il dramma della propria dignità, donne che subiscono molestie da chi detiene potere.
È questo il caso del tedesco Alles ist gut (cineasti del presente) di Eva Trobisch, ancora un’esordiente, o di donne di nuovo alla prese con la memoria, con il dolore più atroce come in Chaos (Pardo d’oro della sezione cineasti del presente), dell’esordiente siriana Sara Fattahi, dove si incrociano le storie di tre donne che cercano di sopravvivere al dramma della guerra e dei suoi orrori, al ricordo dei torturatori dei loro bambini.
Ossessioni e nuovi successi
Sono giovani donne, anzi tre adolescenti molto vive, quelle raccontate in Likemeback (cineasti del presente) dell’italiano Leonardo Guerra Seràgnoli, dove il confine della manipolazione via social e dell’automanipolazione si confondono, ed è questo anche il caso della sedicenne Lena in Glaubenberg (concorso) dello svizzero Thomas Imbach, dove l’ossessione amorosa ai limiti della follia verso Noah, il fratello maggiore, è direttamente proporzionale alla continua fuga di quest’ultimo, e diventa difficile distinguere dove stia realmente la manipolazione e soprattutto chi sia realmente Lena, se davvero esista o si tratti addirittura di un caso di transfert di Noah.
Sono adolescenti brutalizzate da adolescenti vuoti, ma crudeli con i ragazzi sensibili quelle di Genese (concorso) del canadese Philippe Lesage; è una giovane donna manipolatrice (ma anche i maschi si automanipolano perché la dimensione sociologica del film è sadomasochistica) quella di Wintermärchen (concorso) del tedesco Jan Bonny su una cellula di estrema destra, e poi ancora, se le donne sono apparentemente un problema, in compenso si rivelano forse una metafora, provocatoria, degli angeli nello straordinario Gangbyun hotel di Hong Sang-soo.
Le donne sono importanti anche quando sono assenti perché determinano la narrazione in due film diretti da uomini, Sophia Antipolis (cineasti del presente) di Virgil Vernier, e Tegnap (cineasti del presente) dell’ungherese esordiente Bálint Kenyeres. Sophia Antipolis è l’indagine sull’assassino di una giovane donna trovata carbonizzata, e offre un ritratto inedito di certi ambienti maschili nel contesto apparentemente sereno della Costa Azzurra, e Tegnap, ambientato in Marocco, è il ricordo di una donna e del suo amore, che sollecitano un’inedita ricerca fisica e interiore di un imprenditore che lo porterà a scontrarsi con la corruzione del suo paese.
Infine, una citazione per il bel Temporada dell’esordiente brasiliano André Novais Oliveira. Oltre a confermare la freschezza e l’originalità della cinematografia brasiliana offre un ritratto inedito dei quartieri popolari, ma dignitosi, di impiegati della sanità pubblica (dove centrale è il personaggio femminile).
Per concludere, questa 71ª edizione del festival di Locarno si è rivelata un nuovo successo per il direttore artistico Carlo Chatrian (e la sua équipe) che dopo sei anni lascia per andare a dirige uno dei tre festival di cinema più importanti, quello di Berlino, mentre dall’anno prossimo la Quinzaine des réalisateurs, prestigiosa sezione del festival di Cannes, sarà diretta da un altro italiano, Paolo Moretti, ex assistente di Marco Muller, che per otto anni fu un indimenticabile direttore del festival di Venezia.
Il fatto che dei giovani critici ed esperti di cinema debbano andare all’estero per dirigere importanti manifestazioni cinematografiche (Svizzera, Germania, Francia), mentre il festival di Venezia resta imbalsamato nella sua direzione (come anche la Biennale), ci pare uno specchio ulteriore della palude italica.