La Mostra di Venezia ha bisogno di un forte ripensamento
Un film fatto con una regia da grande cinema che non andrà al cinema. Un paradosso per una pellicola vincitrice del Leone d’oro in una manifestazione chiamata Mostra internazionale d’arte cinematografica. Siamo all’ultimo ruggito del Leone? Presentare in concorso e poi premiare opere che in sala non si vedranno o quasi, è una scelta che se dovesse diventare definitiva potrebbe avere conseguenze gravi sul lungo termine, forse anche sul medio, che forse non sono state valutate bene. Conseguenze gravi ci sarebbero anche per la stessa Mostra. Perché spostarsi fino a Venezia e spendere soldi per assistere a delle anteprime televisive? In realtà, quella che qui si apre è una questione culturale di fondo, molto più importante di quanto non si creda.
È vero che Roma, il film di Alfonso Cuarón che ha vinto il premio più importante, andrà su Netflix il 14 dicembre e poi in sale (non meglio precisate) scelte dalla multinazionale statunitense, ma è difficile credere che si tratterà di qualcosa di più di proiezioni di prestigio e soprattutto d’immagine, dalla vita breve.
Prima di addentrarci sullo scellerato palmarès veneziano, al di là della qualità di alcuni singoli titoli, vogliamo dire che questo è soltanto il riflesso di varie scelte scellerate. A cominciare dalla scelta di inserire tre titoli prodotti o distribuiti da Netflix – oltretutto, salvo Roma, tutt’altro che eccezionali – in un concorso che dovrebbe essere il propulsore per una carriera, quella dello schermo cinematografico, che offre tutt’altro tipo di visioni e sensazioni.
Un sistema in difficoltà
Una scelta, quella della Mostra, che colpisce ulteriormente un sistema delle sale già molto in difficoltà come quello italiano, mentre in Francia la scelta restrittiva del festival di Cannes su Netflix è stata fatta per proteggerle, anche se si tratta di un sistema più forte grazie alle politiche finora attuate.
È forte il sospetto che Netflix voglia usare i grandi nomi per poi sabotare il cinema, mezzo d’espressione che ha prodotto nella sua storia opere visivamente forti e profonde poiché fondate sulla regia, invece di produzioni seriali fondate sulla sceneggiatura. Mentre un rafforzamento del cinema e delle sale – dove il cinema esprime la sua grandezza – può invece spingere le serie tv a osare di più. La concorrenza con il fratello maggiore gli ha già fatto bene e può fargliene ancora di più.
Il Leone d’oro del presidente della giuria Guillermo Del Toro al grande amico Alfonso Cuarón è un ulteriore scandalo che la questione Netflix consente di evidenziare meglio. Si tratta di una cattiva abitudine già praticata in passato da altre giurie del festival veneziano. Sarebbe ora di dargli un taglio netto, se c’è ancora senso della decenza. Non può esistere il sospetto di favoritismi, soprattutto così plateali.
Premi immeritati
Il resto del palmarés è quindi una conseguenza di questa deriva. Ne sono riprova i due premi a La favorita di Yorgos Lanthimos, anche se è meritata la coppa Volpi alla straordinaria Olivia Colman nella parte della regina Anna. I premi vanno a un regista che ha ripiegato su un film in costume, dopo il vicolo cieco del vuoto estetismo in cui si era cacciato. Il film è molto bello, esprime un vero lavoro di regia, anche se è l’adattamento di una pièce radiofonica. Ma pare comunque un film (molto) ben confezionato, pensato dal regista per rinascere piacendo al grande pubblico.
Il western alla rovescia di Jacques Audiard, Sisters brothers, merita per la sceneggiatura – tratta dall’omonimo romanzo di Patrick deWitt ed eccellente in gran parte grazie a Thomas Bidegain, collaboratore abituale del cineasta – e non tanto per la regia (e la fotografia) per il quale è stato premiato, visto che è in gran parte fredda e accademica.
Assurdo poi il premio alla sceneggiatura per il film dei Coen The ballad of Buster Scruggs, non solo perché non è il loro film migliore o perché la sceneggiatura non sempre è al suo meglio, ma soprattutto perché i Coen hanno già vinto tutto.
Siamo felici solo per il premio a un grande attore, una grande personalità anticonformista del cinema statunitense come Willem Dafoe, che ha vinto la coppa Volpi per la sua interpretazione di Van Gogh in At eternity’s gate, film altrimenti poco intenso di Julian Schnabel.
Un premio invece a Peterloo di Mike Leigh – prodotto da Amazon ma che uscirà davvero nelle sale – sarebbe stato appropriato perché è un film accessibile a tutti, ma intelligente e non ruffiano, come sono un po’ Roma e La favorita.
Stendiamo infine un velo pietoso sui premi all’australiano The nightingale, girato dall’unica donna in concorso, Jennifer Kent. Il film è imbarazzante quasi sotto ogni aspetto, al di là delle polemiche di sessismo di cui la Mostra è stata accusata.
In questo concorso c’erano moltissime produzioni dove gli uomini raccontano magnificamente le donne – tra cui proprio Roma e La favorita – così come al festival di Locarno c’erano molte donne che raccontavano altrettanto magnificamente gli uomini.
Ma tornando alla questione di fondo, auspichiamo un forte ripensamento su alcuni temi: da Netflix alla durata eccessiva dei film, dall’imperversare delle grandi produzioni alla follia di affidare sistematicamente la presidenza della giuria agli americani, o ad attori, ad attrici, ad amici delle grandi produzioni, come il messicano Del Toro. Ma bisogna sapere che non tutto è colpa di Alberto Barbera, direttore della Mostra, o di Paolo Baratta, presidente della biennale. Anche il pubblico ha le sue responsabilità.
Quello italiano, i lettori non se la prendano, è forse il più pigro d’Europa. Una verità che tutti sanno, ma nessuno vuole scrivere. Il pubblico italiano, però, forse ha semplicemente bisogno di essere incuriosito, stimolato maggiormente, anche dai mezzi d’informazione. Cannes riesce a fare il pienone, a restare il più importante e potente festival di cinema al mondo, anche rifiutando tutti i film americani delle grandi produzioni, non solo quelli targati Netflix.
A Venezia questo non è possibile perché significherebbe un crollo delle presenze di pubblico. Ecco spiegata la necessità di inserire nel calendario della Mostra le grandi produzioni, spesso statunitensi. È comprensibile, ma è auspicabile che lo si faccia con maggiore equilibrio, come l’anno scorso.
Vanno bene le produzioni di Universal pictures e Twentieth century fox, perché il festival così incoraggia le grandi compagnie americane a produrre film di qualità, che vanno realmente in sala e non solo blockbuster per adolescenti. E si lasci perdere, almeno nel concorso, Netflix, multinazionale fagocitante e omologante. Perché se è vero che in termini di contenuti Roma riesce a far diventare epopea la povera gente, l’autobiografia e la dimensione intima, è altrettanto vero che la logica di queste produzioni nel suo insieme veicola soprattutto l’ovvietà. Venezia deve invece dare reali possibilità a chi è (apparentemente) debole e non a chi è (già) forte. Altrimenti anche lei diverrà debole e fagocitata dai forti.
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