I fantasmi di Joker siamo noi
“La lotta di classe esiste da vent’anni e la mia classe l’ha vinta”. La frase ormai celebre del ricchissimo banchiere statunitense Warren Buffett, una frase in realtà inserita in un contesto critico verso i privilegi della classe di appartenenza, suona oggi più che mai rivelatrice di questa vittoria, o presunta tale, e quindi incendiaria.
Perché in tutti questi anni nulla è successo per invertire la rotta sulla povertà crescente, anzi la situazione peggiora. E i risultati di questo immobilismo cominciano a sentirsi con le rivolte che si stanno verificando nei luoghi più disparati del pianeta, tra l’altro a ridosso dell’uscita del Leone d’oro veneziano, Joker, il film di Todd Phillips che a sua volta sta facendo scorrere fiumi d’inchiostro. E la dichiarazione di Buffett torna in mente, come rovesciata, di fronte alle parole dal sapore reaganiano di Thomas Wayne, padre miliardario di Bruce Wayne, il futuro Batman: “Chi non ha mai prodotto nulla nella vita, chi è invidioso, sarà sempre visto come un clown”.
Abbiamo scritto di luoghi e immobilismo non a caso. Perché in fondo il luogo d’ambientazione del film è proprio questo immobilismo. Un luogo, o meglio un non luogo, per riprendere la formulazione un po’ abusata della saggistica di Marc Augé e poi estesa nel suo senso in vario modo.
Pura apparenza
Sotto le mentite spoglie di Gotham City, la città di Batman, si nasconde una New York che a sua volta è pura apparenza. Una New York atemporale, o meglio sospesa in una curva temporale che potrebbe essere situata tra la metà degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, pur essendo il film ambientato nel 1981. Una sospensione che somiglia a una palude putrefatta, a un limbo allucinato e squallido.
Lo spettatore oscilla spesso tra un forte disagio e una fascinazione altrettanto forte alla visione di Joker. È raro, soprattutto in questo genere di film. Perché è un ritorno sui luoghi dal sapore triste, quasi come fosse quello di fantasmi, ma dove i fantasmi in fondo siamo noi.
Luoghi disadorni, avvolti in una forma-film che oscilla tra l’estetica dello squallore e l’incanto dell’estetica rétro, sorta di dolce e ipnotico cavallo di Troia che nasconde una realtà cruda, eternamente sia vecchia sia nuova. Un mondo rinchiuso nel riciclaggio del rétro e del vintage, evidente fin dall’inizio, fin dalla musica e i caratteri dei titoli, fin dalla scritta Warner Bros, particolarmente appariscente. È come un vecchio teatro quello che si cela dietro l’apparente rivisitazione delle atmosfere di cui erano intrisi i luoghi di Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese. Con quella straordinaria forma onirica, quasi una bolla-sogno inarrivabile che conteneva l’alienazione sociale post-Vietnam, il regista non prova a competere, e non avrebbe senso.
Specchio rovesciato
Nondimeno il film impressiona per la forza visiva di tante inquadrature, alcune davvero maestose, come per esempio quando Joker (Joaquin Phoenix), deambula di notte sotto le arcate di un tunnel cittadino. Rivelando nel regista un vero senso dello spazio in un film che ci parla di uno spazio finito quanto la temporalità. Perché sono anche onnipresenti, quasi ossessive (inevitabili in un film psicotico), inquadrature oblique dall’ufficio dell’assistente sociale, o dal finestrino di un bus che attraversa la città rivelando il volto di un Joker dallo sguardo ossessivo. E ricorrono cunicoli, corridoi, tunnel o vicoli filmati lateralmente, in sezione, oppure frontalmente. Tutti procedimenti di regia che sono altrettante proiezioni di un film-cervello, come tale labirintico ma (ri)stretto dall’ossessione.
Ma il mondo eternamente rétro in realtà è un mondo consunto, logoro. Come subito detto fin dalle prime battute dalla tv che parla di diecimila tonnellate di rifiuti che si accumulano nella città, dello stato d’emergenza dichiarato dalle autorità, del rischio di tifo. Una calamità che colpisce tutti indistintamente. Ma alcune classi di questo Titanic metropolitano, immobilizzato (temporaneamente) nel suo affondamento, lo sono molto di più. Se un’ascensore cade a pezzi e le sue lucette al neon lampeggiano facendo uno strano crepitio è perché tendono a saltare nel treno della metropolitana e in tutti i luoghi di servizio pubblico o nelle abitazioni private di chi è ai margini. Siamo in un mondo che sta per perdere le sue ultime batterie, le sue ultime energie. O forse le ha già terminate e non se n’è ancora reso conto. E torniamo al limbo, al non-luogo.
Le inquadrature casalinghe dell’inizio richiamano la stanza di un ospedale psichiatrico, e già anticipano la sua (pre)destinazione
In questa New York della perenne decadenza si è avvolti nel passato, come nel vecchio show, anzi nello spettacolo di gran classe: vecchi musical in bianco e nero su una piccola tv preparano il terreno alla scena chiave nel lussuoso teatro dove si proietta Tempi moderni, uno dei capolavori di Charlie Chaplin. Un luogo dorato, congelato nel tempo, che a tratti pare quasi il bar dell’hotel di Shining di Stanley Kubrick, in grande. Un luogo di fantasmi della comicità del passato e di ricchi che sembrano i fantasmi di un futuro che hanno annullato, cancellato. I signori sono in smoking e ridono, si estraniano, mentre fuori del teatro infuria la protesta sociale. Estraniazione tanto più significativa quando si conosce storia e significato del film di Chaplin e che anche una rapida occhiata alla sua scheda su Wikipedia farà capire che Joker, il film, ne è una sorta di specchio rovesciato.
La meccanicità in cui è imprigionato Joker è la stessa di Charlot, dove la prigione mentale e quella sociale si confondono in un tutt’uno. La differenza, non piccola, con Tempi moderni sta nell’esistenza di una prospettiva di futuro, di speranza. Per Arthur Fleck/Joker è vero l’opposto. Le inquadrature casalinghe dell’inizio, mentre lui scrive, che richiamano la stanza di un ospedale psichiatrico, già anticipano la sua (pre)destinazione causata da un ambiente socioeconomico deterministico. Ogni azione ha qui un rapporto di causa-effetto, come in un laboratorio per cavie, che viene sovvertito.
Joker, nei fumetti di Batman, è un’icona che ha, come fissata, immobilizzata e congelata per sempre, la risata. Una maschera che sembra una condanna agli inferi. Al pari della risata forzata e incontenibile di Fleck. Quella fissità qui è colta mentre si trova ancora nel movimento, nel divenire. Joaquin Phoenix è perfetto, è dentro al film e dentro al personaggio – le due cose si equivalgono –, ne è l’incarnazione. Grazie a quel suo corpo che appare rotto, storto come la sua psiche e la forma visiva del film.
La sua vita in realtà è una tragedia risibile perché è una commedia stanca
Un corpo che, denudato, si rivela un po’ informe e scheletrico, come un clown o un personaggio circense privato di magia, disadorno. Disadorno e solo. È nella solitudine quando balla davanti alla tv, è solitario in mezzo alla folla quando la sua risata nervosa e incontrollata balena in un locale notturno all’ascolto del monologo di un comico piuttosto dozzinale e monocorde. Balla e mima sempre in solitario così come ride sempre quando non deve e non ride quando invece gli altri si divertono. “Tutti da piccolo dicevano che avrei dovuto fare il comico, ma oggi nessuno ride”, dice a un dato momento. “Ho sempre creduto che la mia vita fosse una tragedia e invece ora mi rendo conto che è una cazzo di commedia”, dirà in un altro momento.
Commedia consunta per giunta, e che non fa ridere nessuno, anzi che nessuno vede. Sbatte la faccia contro la vetrata di un’uscita che scambia per un’entrata, gag tipica da cinema comico del muto. Dovrebbe far ridere ma nessuno ride, gira a vuoto, perché rimanda al tragico, allo squallore e alla realtà. La sua vita in realtà è una tragedia risibile perché è una commedia stanca.
Lo show è consunto, lo show è (un) falso (divertimento), lo show è finito. Il clown fallito lo invitano al talk show: ma è lo show che entra nella sua vita oppure è lui che fa entrare la sua (non) vita nello show? Non è un caso se non riesce a provare le battute per lo spettacolo. Siamo lontani dal Joker di Jack Nicholson, nel primo Batman di Tim Burton, che gioca o si prende gioco della pop art mutandosi egli stesso in un artista della pop art.
Arthur Fleck gioca per la prima volta, brevemente, in ghingheri o abiti di scena, raggiante, mimando in solitario su una scalinata – stretta, lunga e ripida, metafora della scalata sociale, dove lo vediamo innumerevoli volte, mai però in cima –, quello che avrebbe potuto e voluto essere: un artista di successo acclamato dal pubblico. Mentre intanto il virus sociale si diffonde. Come si era propagato irreversibilmente il virus delle maschere anonime dell’anarchia in V for Vendetta – il film un po’ giocattolo ma intelligente tratto dal capolavoro a fumetti, raffinato ed espressionista, dell’anarcosocialista Alan Moore –, ora si propagano quelle altrettanto anonime del clown psicotico specchio della società che lo ha prodotto, anzi creato.
Riso congelato
Uno specchio della sua volgarità egoistica, del suo cinismo, che se è logora, consunta, spiega perché Joker dica “ho ucciso perché siete orrendi”. Siamo orrendi perché svuotati di ogni autenticità. Gli uomini come gli show. “Se morivo io mi camminavate sopra sul marciapiede, vi passo accanto tutti i giorni e nemmeno mi vedete” dice Fleck, la macchietta. “Tu sei orrendo volevi solo prenderti gioco di me”, dice ancora prima di sparare al presentatore dello show tv interpretato non a caso da Robert De Niro che, in questo film costruito su specchi e rovesciamenti, interpreta la sponda opposta del disadattato ossessivo di Taxi driver. Non ha quindi senso la critica rivolta al film di essere figlio del trumpismo, così come il De Niro del film di Scorsese non incensava i psicopatici, e chi lo fa confonde la realtà con la rappresentazione poiché anche questa, per quanto disadorna e spogliata degli orpelli, è una rappresentazione, una messa in scena.
Gran guignol dal riso congelato, ma grezzo, disgustato, il Joker di Phillips è l’esatto opposto dello smile asettico, del suo finto ottimismo onnipresente sui social, sui nostri cellulari.
Al momento della sua liberazione da parte della folla, per l’unica volta in pubblico esibisce il suo sorriso forzato e il suo stesso sangue diviene l’ultimo trucco, il suo ultimo (auto)sberleffo. E il suo momento magico, di apoteosi illusoria. Perché è inutile raccontare ancora la barzelletta, dirà poi nel reparto psichiatrico. Anche la barzelletta è stanca, perché non ha più senso. Balla sulle proprie orme di sangue un’ultima volta in solitario. Ultima rappresentazione spuria, disadorna del (cinema) già visto. Tuttavia in quella sequenza c’è solennità. Lo spettacolo ora è davvero finito. Se la sua psicopatologia solitaria si dissolve nella moltitudine della rivolta forse è quella di noi tutti. La psicopatologia come la rivolta.