Le aziende petrolifere hanno speso 251 milioni di euro in attività di lobbying a Bruxelles
Dal 2010 le cinque maggiori aziende petrolifere globali – Shell, ExxonMobil, Chevron, Total e Bp – hanno speso almeno 251 milioni di euro in attività di lobbying presso l’Unione europea. È la conclusione di un rapporto pubblicato da Corporate Europe Observatory, Food & Water Europe, Friends of the Earth Europe e Greenpeace. Un investimento enorme ma certamente alla portata di queste compagnie, che nel solo 2018 hanno realizzato circa 73 miliardi di euro di profitti.
I dati sono ricavati dal registro per la trasparenza della Commissione europea, e secondo gli autori del rapporto rappresentano solo la punta dell’iceberg: non includono infatti i soldi spesi dalle aziende più piccole e dalle organizzazioni che fanno lobbying per conto di vari gruppi d’interesse, tra cui anche il settore petrolifero.
Queste cifre danno un’idea del potere di persuasione su cui può contare l’industria dei combustibili fossili a Bruxelles. Un potere che viene impiegato soprattutto per un obiettivo: ostacolare le azioni politiche volte a limitare le emissioni di gas serra, responsabili del cambiamento climatico. Secondo gli autori del rapporto nel 2014 queste aziende, responsabili di più del 10 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica dal 1965 a oggi, hanno contribuito in modo decisivo ad annacquare gli obiettivi europei per la riduzione delle emissioni per il 2030, considerati gravemente insufficienti dalle organizzazioni ambientaliste.
Si stima che attualmente siano circa 25mila i lobbisti che lavorano a Bruxelles
Un altro potente gruppo d’interesse che ha svolto un ruolo chiave nel sabotare l’azione contro il cambiamento climatico è quello dell’industria automobilistica. Nel 2018 i costruttori tedeschi si sono schierati decisamente contro i nuovi limiti alle emissioni dei veicoli che entreranno in vigore dal 2021, costringendo la cancelliera Angela Merkel a negoziare un compromesso al ribasso rispetto alle richieste espresse da molti stati membri.
Il lobbying, cioè l’attività di pubbliche relazioni con cui i rappresentanti dei gruppi d’interesse cercano di influenzare la stesura delle leggi e delle norme che li riguardano, è un’attività perfettamente legale a livello nazionale ed europeo. Negli ultimi anni, però, l’espansione delle competenze dell’Unione europea ha portato a un’esplosione del fenomeno. Si stima che attualmente siano circa 25mila i lobbisti che lavorano a Bruxelles. Visto il deficit di democrazia e la mancanza di trasparenza che affliggono il processo decisionale europeo, questa attività è sempre più spesso oggetto di critiche e proposte di riforma.
Ad aumentare le preoccupazioni sono le cosiddette “porte girevoli”: al termine del loro mandato spesso i politici e i funzionari delle istituzioni europee vengono assunti dalle grandi aziende o dalle agenzie di lobbying per sfruttare i loro contatti personali e la loro conoscenza delle istituzioni. Il passaggio funziona anche nella direzione opposta: molti funzionari ed europarlamentari sono stati lobbisti e consulenti delle grandi aziende, con cui mantengono rapporti privilegiati.
Un aspetto paradossale inoltre è quello delle sponsorizzazioni: le aziende petrolifere sono tra i principali finanziatori delle conferenze sul clima e di altre iniziative sul cambiamento climatico. Questo non serve solo a migliorare l’immagine (il cosiddetto “greenwashing”), ma anche a fornire loro un’altra leva con cui condizionare gli eventi e i loro promotori.
Per impedire che l’industria petrolifera continui a ostacolare le misure contro il cambiamento climatico, le organizzazioni che hanno pubblicato il rapporto hanno lanciato la campagna Fossil free politics, che si basa su quattro richieste: bloccare l’accesso delle aziende petrolifere al processo decisionale, eliminare i conflitti d’interesse all’interno delle autorità politiche, mettere fine al trattamento preferenziale per l’industria petrolifera e rifiutare le partnership con queste aziende.