Questo articolo è uscito il 19 marzo 2022 a pagina 14 del numero 19 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.

La convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ribadisce all’articolo 6 la necessità, per gli stati che l’hanno ratificata, di adottare misure “per garantire il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle donne e delle minori con disabilità”.

Eppure le donne con disabilità sono vittime di una discriminazione doppia: rispetto alla loro condizione, che le sfavorisce nei confronti delle donne “abili”; e relativamente al genere, che le penalizza in misura maggiore degli uomini con disabilità.

Uno svantaggio, quest’ultimo, che in Italia non è possibile quantificare in modo organico perché i dati disaggregati in base al genere sono rari . “La mancanza di dati che fanno capire meglio il fenomeno produce la povertà delle politiche”, spiega Giampiero Griffo, coordinatore del comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sulla condizione delle persone con disabilità.

Lo studio è l’unica eccezione. Gli ultimi dati disponibili dell’Istat rilevano che il 6,7 per cento degli uomini disabili non ha un titolo di studio, contro il 5,5 per cento delle donne. Inoltre, nella fascia fra i 35 e i 54 anni, le donne in possesso almeno del diploma sono il 46,3 per cento contro il 44,5 per cento degli uomini.

Marta Sodano, 28 anni, è una donna con sindrome di Down. Vive in provincia di Bergamo, ha frequentato l’istituto professionale di studi sociali Marisa Bellisario di Inzago e l’Istituto statale di istruzione superiore Einaudi a Dalmine. Al termine degli studi ha svolto un tirocinio formativo di due anni nell’azienda Comac di Bonate e nel 2019 è stata assunta a tempo indeterminato come addetta al controllo e all’archiviazione dei certificati e dei documenti di trasporto merci per la logistica.

Lo squilibrio di potere tra uomo e donna è presente anche nelle associazioni di persone con disabilità e quindi si creano gli stessi divari

“Il lavoro mi ha permesso di acquisire competenze, di fare conoscenze e anche qualche amicizia, e di sentirmi realizzata”, racconta. “Guadagno uno stipendio che mi fa sentire libera e autonoma. Con il responsabile e i colleghi la relazione è buona, non mi sono mai sentita discriminata”.

Ma studiare di più non sempre equivale a entrare più facilmente nel mercato del lavoro. Le lavoratrici con disabilità sono una minoranza rispetto agli uomini. La nona relazione sullo stato di attuazione della legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) al parlamento rileva un’occupazione femminile al 41,2 per cento contro il 58,8 per cento di quella maschile.

Nel 2016 l’Italia è stata richiamata dall’Onu, che ha raccomandato al governo di intervenire con misure specifiche per garantire il lavoro alle donne con disabilità. Da allora poco è cambiato.

Servizi inaccessibili

Anche l’esercizio del diritto alla salute sessuale e riproduttiva per una donna con disabilità non è scontato.

“L’ambulatorio che mi ha seguito durante la gravidanza ovviamente non era attrezzato. La mia carrozzina è reclinabile, quindi la inclinavo e così riuscivano a farmi l’ecografia. Altrimenti mio marito doveva sollevarmi. Anche durante il parto lui mi ha dovuto aiutare, altrimenti sarebbe stato impossibile”, racconta Sonia Veres, 39 anni, donna con disabilità motoria, madre di Leila, 4 anni.

I dati in merito scarseggiano, ma un’indagine dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (Uildm) ha evidenziato come nella maggior parte dei casi gli ambulatori ginecologici siano sprovvisti degli ausili di base, come un lettino elettrico e un sollevatore.

L’inaccessibilità dei servizi di ginecologia e ostetricia compromette il diritto delle donne con disabilità alla prevenzione e alla cura delle patologie della sfera sessuale e riproduttiva.

Secondo il rapporto Osservasalute 2015 nelle regioni italiane le donne con disabilità che si sottopongono allo screening per la prevenzione del tumore al collo dell’utero sono il 52,3 per cento, contro il 67,5 per cento delle altre, mentre quelle a cui viene eseguita una mammografia sono il 58,5 per cento contro il 75 per cento della restante popolazione femminile.

Anche la maggior parte dei prodotti o servizi per l’infanzia, come i passeggini, è costruita a misura di genitori abili. Dietro a tutte queste barriere si nasconde l’idea secondo cui le donne con disabilità non hanno una vita sessuale attiva e, di conseguenza, non diventano madri. “Una volta ero con Leila, una mia amica e sua figlia, un anno più piccola della mia”, ricorda Sonia Veres. “Una signora si è rivolta alla mia amica credendo che anche Leila fosse sua figlia: ‘Che carine le sorelline’. Non l’ha minimamente sfiorata l’idea che io potessi essere la mamma’”.

Barriere

Le donne con disabilità hanno più probabilità di subire violenza fisica o sessuale. I dati Istat rilevano che ad averla subita è il 36 per cento di loro, contro il 31,5 per cento delle donne senza disabilità, mentre il rischio di stupri o tentati stupri è doppio.

“Marta (nome di fantasia), mia figlia, è una persona con sindrome di Down e lavora in una cooperativa a Padova”, racconta Renata Trevisan. “Aveva poco più di vent’anni quando è stata aggredita. Un giorno, tornando a casa dopo il lavoro, è stata seguita da un uomo che l’ha messa in un angolo e ha cercato di toglierle i pantaloni. Per fortuna è riuscita a scappare ma, una volta arrivata a casa, non mi ha raccontato niente.

Alcuni giorni più tardi un’educatrice della cooperativa dove lavora l’ha sentita raccontare l’accaduto a una collega. Mi ha subito avvisata, così sono riuscita a farmi raccontare tutto da mia figlia. Siamo andate a fare la denuncia ai carabinieri e quando Marta ha finito di deporre ho capito che si era liberata di un peso enorme”.

A livello nazionale mancano i dati relativi agli uomini con disabilità vittime di violenza, ma disponiamo di quelli raccolti dal Servizio antiviolenza disabili di Torino nel biennio 2019-2020. È uno dei quattro centri antiviolenza accessibili a persone con disabilità in Italia e l’unico a prendere in carico anche gli uomini. Nel 2019 i casi seguiti sono stati 57, di cui 11 uomini e 46 donne, mentre nel 2020 le donne sono state 55 e gli uomini 17.

“Il minor numero di uomini che accedono al servizio non significa che siano meno colpiti dalla violenza”, spiega Giada Morandi, coordinatrice del servizio. “Penso siano vittime della cultura patriarcale che ancora ci domina, secondo cui non è opportuno che un uomo chieda aiuto. Gli uomini con cui ho fatto il colloquio tendevano a minimizzare l’accaduto, si vergognavano.

La maggior parte dei prodotti per l’infanzia è costruita a misura di genitori abili

Non abbiamo dati a livello nazionale ma non credo siano meno colpiti”. E aggiunge:“ I tipi di violenza subita sono identici in entrambi i generi: sessuale, fisica, economica, psicologica a matrice abilista, cioè contro le persone disabili. Solitamente gli uomini la subiscono nell’ambito di relazioni omosessuali”.

Che anche gli uomini con disabilità siano vittime di tutte le tipologie di violenza è confermato da due recenti studi dell’università di Auckland, in Nuova Zelanda, pubblicati dall’American Journal of Preventive Medicine. Le ricerche mostrano tra l’altro come la violenza fisica colpisca molto di più gli uomini delle donne, in particolare quando è commessa da persone diverse dal partner (il 56,2 per cento degli uomini contro il 15,4 per cento delle donne). Le donne tuttavia restano le principali vittime degli altri tipi di violenza, in particolare sessuale (l’11,1 per cento contro il 5,6 per cento). Confermata anche la maggior difficoltà degli uomini nel chiedere aiuto: a non esserci riuscito è il 60 per cento contro il 45 per cento delle donne.

Le barriere all’uscita dal circuito della violenza sono molteplici, sia materiali sia culturali: dall’inaccessibilità fisica e comunicativa dei centri antiviolenza, delle case rifugio e dei luoghi in cui vengono svolti i processi alla mancanza di competenze degli operatori nella presa in carico delle persone con disabilità, specialmente cognitiva.

Nel 2016 il comitato dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità ha richiamato l’Italia per inadempienze rispetto alle misure per tutelare le donne vittime di violenza e nel 2020 il Grevio – il gruppo di esperti ed esperte incaricato di far rispettare la Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere – ha pubblicato un rapporto di valutazione che contiene una serie di raccomandazioni rivolte alle autorità italiane a riguardo.

Partecipazione

“Nella struttura sociale di tipo patriarcale in cui viviamo, lo squilibrio di potere tra uomo e donna si è sedimentato e quindi anche nelle associazioni di persone con disabilità si creano gli stessi divari”. Non ha dubbi Silvia Cutrera, vicepresidente della Federazione italiana superamento handicap (Fish), una delle principali organizzazioni per la difesa dei diritti delle persone con disabilità: la discriminazione delle donne con disabilità è presente anche nella politica associativa.

I risultati dell’indagine che la rivista mensile Altraeconomia ha condotto tra agosto e ottobre del 2020 lo confermano. L’obiettivo era verificare il “peso” della componente femminile all’interno degli organi dirigenziali di 58 associazioni di persone con disabilità, scelte tra le più rappresentative a livello nazionale e regionale.

Dalla ricerca è emerso che a ricoprire il ruolo di presidente, vicepresidente, consigliere, segretario, tesoriere sono complessivamente 193 donne (il 37,8 per cento del totale) mentre gli uomini a cui sono stati assegnati gli stessi incarichi sono 318 (il 62,2 per cento). Le presidenti sono 17 mentre gli uomini 41; le vicepresidenti sono 30 e i loro colleghi di sesso maschile 40. Il rapporto risulta invertito solo per quanto riguarda il ruolo di tesoriere: a ricoprirlo sono 17 donne contro 10 uomini.

Gli ostacoli che impediscono alle donne con disabilità di raggiungere i vertici delle associazioni di persone con disabilità, secondo Cutrera, sono molteplici. “Innanzitutto l’eccessiva protezione delle famiglie nei confronti delle ragazze. Inoltre non si è investito nella formazione politico-associativa delle donne né favorito una loro maggior preparazione sulle tematiche legate alla disabilità”. Non di rado le donne non si candidano a ruoli di responsabilità perché hanno difficoltà a conciliare i tempi della politica con quelli personali, familiari e professionali. Per gli uomini, in genere, non è così.

“Gli uomini con disabilità che ho incontrato e che sono presidenti di associazione o di federazione hanno spesso delegato la parte di cura domestica e familiare a delle figure femminili che gli permettono di rivestire i ruoli apicali”, osserva Cutrera. D’altro canto, sottolinea, finché ai vertici di queste associazioni mancheranno le donne sarà difficile che il tema dell’uguaglianza di genere diventi trasversale.

“Se non ci sei, di te non si parla. Secondo me è necessario un cambio generazionale e dare maggiore attenzione alla presa di parola anche attraverso internet. Oggi giovani donne con disabilità capaci e intelligenti preferiscono partecipare attraverso i social e non intervenendo a riunioni, incontri, insomma evitano le modalità più tradizionali del fare politica”.

Dalle parole ai fatti

Finora a livello istituzionale l’attenzione alle politiche di genere a favore delle donne con disabilità è stata quasi completamente assente, ma ultimamente s’intravede una timida inversione di rotta. Nel 2019 sono state presentate in parlamento quattro mozioni – a prima firma rispettivamente di Lisa Noja, Francesco Lollobrigida, Giuseppina Versace e Alessandra Locatelli – per contrastare la discriminazione multipla delle donne con disabilità, tutte approvate all’unanimità. Un fatto di grande importanza politica, senza precedenti. Anche se le mozioni sono ancora ferme alla camera.

Segnali incoraggianti si trovano nella strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, presentata al consiglio dei ministri lo scorso agosto come uno degli strumenti di attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e del Family act. Contiene un richiamo alla necessità di integrare la prospettiva di genere legata a situazioni di fragilità – tra cui la condizione di disabilità – nella programmazione delle misure. Inserisce inoltre le donne con disabilità tra le destinatarie delle campagne di promozione della parità di genere e per contrastare i fenomeni di incitamento all’odio.

Anche il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023, presentato al consiglio dei ministri, include misure a sostegno delle donne con disabilità, soprattutto di prevenzione e di protezione e sostegno, come per esempio le campagne di sensibilizzazione e comunicazione.

Bisognerà capire in che modo le indicazioni contenute nei due documenti verranno declinate nei piani operativi.
Occasione persa invece per quanto riguarda la missione “Inclusione e coesione” del Pnrr, in cui si prevede un investimento per i percorsi di autonomia per le persone con disabilità e un’attenzione specifica al loro inserimento lavorativo ma senza declinare le misure in una prospettiva di genere.

L’attenzione alla dimensione di genere sta facendo capolino in alcune delle politiche a sostegno delle persone con disabilità. Ma si tratta per lo più di indicazioni generali o singole misure all’interno di ambiti specifici. La prospettiva di genere e quella della disabilità dovrebbero andare sempre di pari passo.

Da sapere
Disabilità in cifre

Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2019 le persone con disabilità in Italia erano 3,1 milioni, ovvero il 5,2 per cento della popolazione. Di questi, quasi un milione e mezzo ha più di 75 anni e circa un milione è donna.

Gli alunni con disabilità che frequentano le scuole italiane sono quasi 300mila. Solo una scuola su tre risulta accessibile per gli alunni con disabilità motoria. La pandemia ha limitato ancora di più la partecipazione scolastica degli studenti con disabilità: tra aprile e giugno del 2020 più del 23 per cento di loro (circa 70mila) non ha preso parte alla didattica a distanza.

Circa un terzo delle persone con disabilità vive sola, mentre la metà abita con il coniuge o i figli. Solo il 31,3 per cento delle persone con disabilità fra i 15 e i 64 anni ha un impiego e lo svantaggio è ancora maggiore per le donne.


Questo articolo è uscito il 19 marzo 2022 a pagina 14 del numero 19 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.

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