La destra ha vinto le elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio, confermando il risultato delle elezioni politiche del settembre scorso. Insieme a questo il dato più rilevante è l’altissima astensione che si è registrata in entrambe le regioni. Le opposizioni, poi, sono sempre più irrilevanti. Così, dopo i primi tre mesi al governo, sprecati per lo più in polemiche e retromarce o intorno a una manovra economica per metà scritta dal governo precedente, l’era della destra al potere ora può cominciare davvero.

La doppia affermazione di Attilio Fontana in Lombardia e di Francesco Rocca nel Lazio “consolida la compattezza del centrodestra e rafforza il lavoro del governo”, sostiene la presidente del consiglio Giorgia Meloni. Alla vigilia del voto in molti ritenevano che una vittoria troppo netta di Fratelli d’Italia (FdI), soprattutto in Lombardia, avrebbe messo in ulteriore difficoltà gli alleati, aumentando la conflittualità interna alla coalizione di destra. I risultati sembrano suggerire invece la direzione opposta, quella indicata da Meloni a commento del voto. Ma è tutto da vedere se andrà davvero così.

Segnali di instabilità si erano infatti già visti a partire dai mesi che avevano preceduto le elezioni politiche d’autunno, in una coalizione caratterizzata dalla presenza sempre più forte di Giorgia Meloni e da una malcelata sopportazione di questa situazione da parte degli alleati Silvio Berlusconi (Forza Italia, FI) e Matteo Salvini (Lega). Ebbene, quegli stessi segnali sono proseguiti con cadenza quasi quotidiana fino a queste regionali, evidenziando nei fatti il protrarsi di una distanza tra FI e Lega da un lato, e FdI dall’altro, nonostante un qualche riavvicinamento tra Lega e FdI sia avvenuto in questi ultimi tre mesi. Di tutto ciò sono state un esempio eclatante le dichiarazioni di Silvio Berlusconi sulla guerra in Ucraina rilasciate proprio nel giorno del voto.

“Io a parlare con Zelenskyj, se fossi stato il presidente del consiglio, non ci sarei mai andato”, ha infatti detto Berlusconi, con un riferimento all’incontro di qualche giorno prima tra Meloni e il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj. Non era la prima volta che Berlusconi manifestava posizioni simili. E non era la prima volta che finiva per mettere in difficoltà Meloni, impegnata nell’accreditarsi presso le cancellerie europee. In questi ultimi giorni, poi, anche l’altro alleato, Matteo Salvini, si è fatto sentire, nonostante il fatto che in campagna elettorale se ne fosse rimasto defilato sulle questioni politiche, presentandosi soprattutto come uomo del fare e dei cantieri. Poi, però, nelle ore che hanno preceduto il voto è intervenuto sulla presenza di Zelenskyj a Sanremo, e perfino su quella del presidente della repubblica Sergio Mattarella al festival. Adesso si tratta di capire se il risultato delle elezioni regionali suggerirà ai leader della destra un cambio di atteggiamento oppure no.

Una doppia vittoria

Al di là delle ambiguità di Berlusconi, molto a questo punto dipenderà dalle scelte della stessa Meloni che, vista la situazione, potrebbe voler regolare qualche conto nella maggioranza. Il patrimonio costituito dal consenso politico e personale appena riconfermato dal voto regionale glielo consentirebbe. Gli elettori le hanno consegnato anche la Lombardia, tradizionale roccaforte di Lega e Forza Italia. Fratelli d’Italia è ormai primo partito anche da quelle parti, e a livello locale si prepara a incassare il risultato elettorale in termini di potere a discapito della Lega. Meloni a livello nazionale potrebbe decidere di fare lo stesso. In questo caso nel mirino ci sarebbe soprattutto l’area berlusconiana.

Dal punto di vista operativo, la dimensione della doppia vittoria politica ottenuta dalla destra – quella alle politiche e quella alle regionali – concede comunque alla maggioranza la possibilità e il tempo per mettere mano alle promesse fatte nelle due campagne elettorali, anche perché il prossimo appuntamento importante con il voto – le elezioni europee – è in programma soltanto nella tarda primavera del 2024. Sullo sfondo si agitano però alcune questioni di non poco conto. Una di queste ha che fare con il posizionamento in Europa. Secondo alcuni osservatori la presidente del consiglio starebbe lavorando a un patto per sostituire i conservatori ai socialisti nel rapporto con i popolari, per poter controllare la Commissione europea dopo le elezioni del 2024, in caso di vittoria del centrodestra. Secondo alcune di queste ricostruzioni anche le recenti tensioni con la Francia sarebbero da ricondurre a questo progetto. Si vedrà, ma intanto le frizioni con alcuni partner europei sono già forti da tempo e potrebbero pesare sulle decisioni da prendere nei prossimi mesi.

Infine, in questo quadro che, nonostante le insidie e le difficoltà, vede un governo uscire rafforzato dal voto, si inserisce l’assenza pressoché assoluta dell’opposizione. Le decisioni su come presentarsi al voto in Lombardia e Lazio hanno ricalcato gli errori già commessi in occasione delle recenti elezioni politiche, segno che quella sconfitta di proporzioni catastrofiche non ha insegnato granché. Alla fine, incredibilmente il Partito democratico ha incrementato di qualche frazione percentuale il proprio consenso elettorale, nonostante da mesi sia sparito dalla scena politica – o forse proprio per questo, si potrebbe dire con un po’ di malizia – e appaia risucchiato dal dibattito congressuale che si trascina attorno alla elezione del nuovo segretario. Il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte e il cosiddetto Terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi hanno invece riportato una grave sconfitta, segno che non paga più la strategia speculare adottata negli ultimi mesi dalle due forze politiche di provare a sottrarre consenso al Pd, attaccandolo da destra e da sinistra.

Riforma pericolosa

L’irrilevanza delle opposizioni non è però una buona notizia per chi è al governo. Non lo è mai, poiché paradossalmente rende il quadro politico più instabile, favorendo la nascita di spinte in direzioni opposte all’interno della stessa maggioranza. E in particolare in questa, come si è visto, le condizioni perché ciò accada sono addirittura strutturali. Ma il rischio più grande per Giorgia Meloni a questo punto sono le sue ambizioni e quella necessità di riscatto contro tutto e tutti che ha caratterizzato la presa del potere della destra, accompagnata da toni inquietanti nei confronti degli avversari. Il rischio più grande per la stabilità del governo è insomma la tentazione della stessa Meloni di rilanciare ancora, sia nei confronti dei propri alleati sia sul piano internazionale sia su quello interno, per provare a prendersi tutto, a partire dalla riforma in senso presidenziale della forma di governo del paese.

A questo proposito va rilevato che nel 2023 cade il settantacinquesimo anniversario della costituzione, e il presidente della repubblica toccherà spesso questo argomento nel corso dell’anno. È evidente che gli impegni del capo dello stato hanno natura istituzionale e nulla hanno a che fare con il legittimo dibattito tra le forze politiche. Tuttavia, la destra si prepara legittimamente a proporre una riforma del sistema di governo in senso presidenziale che di fatto finirebbe per modificare radicalmente quella stessa costituzione. Sarebbe quanto mai opportuno che le forze politiche mantenessero il dibattito su toni di estrema correttezza poiché il rischio altrimenti è che i due piani – quello istituzionale sul quale si muove Mattarella e quello politico sul quale si muovono i partiti – si confondano nella percezione dell’opinione pubblica, coinvolgendo di fatto, e suo malgrado, la presidenza della repubblica. Sarebbe un fatto gravissimo. Da questo punto di vista non fanno ben sperare le dichiarazioni con le quali Salvini è intervenuto sulla presenza di Mattarella a Sanremo per assistere al monologo di Roberto Benigni sulla costituzione. Se questa diventasse la linea della destra, si tratterebbe di un atteggiamento politico al limite della irresponsabilità.

Ma al di là di questo, se davvero la destra volesse portare avanti il progetto presidenzialista, rischierebbe di farlo senza avere la legittimazione garantita da un’adeguata rappresentanza popolare, considerati i dati sempre più drammatici di un’astensione che non aveva mai raggiunto nella storia repubblicana livelli paragonabili a quelli di questo turno. Proprio questo vuoto generale di consenso che la politica sta sperimentando costituisce la ragione che più di tutte dovrebbe sconsigliare qualsiasi forzatura che punti a modifiche importanti della costituzione, figurarsi uno stravolgimento come una riforma in senso presidenzialista.

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