Chiudono le aie in Val d’Orcia, i nuovi proprietari si blindano nei casali trasformati in ville, sparisce un mondo che è sempre stato aperto. Scompare senza troppo clamore, ormai quasi senza voce. “Le aie erano destinate all’uso del podere, ma erano anche un appezzamento franco: le persone con animali al seguito potevano fermarsi e trovare ospitalità. Per questo la terra veniva mantenuta soda”, racconta Marco Capitoni, agricoltore e vignaiolo. “Adesso”, aggiunge, “sono diventate prati verdi, irrigati, illuminati giorno e notte, sorvegliati da telecamere e circondati da muri in finta pietra o da ringhiere”.
Il suo non è il lamento fuori tempo massimo di chi guarda al passato e lo rimpiange. Semmai il contrario. L’azienda di Capitoni se ne sta sul fianco di una collina in vista di Pienza, in uno splendore di campagna aperta e quasi vuota, fatta di vento e di ampiezze silenziose a mezzogiorno di Siena. Dalla sua aia osserva le colline e racconta lo sconcerto per un cambiamento repentino, quasi violento, che sta investendo la Val d’Orcia, e perfino il suo paesaggio, che in fondo è ciò che ha fatto la fortuna di questa valle, altrimenti poverissima fino a non troppo tempo fa. Di mezzo c’è stata la pandemia, ma il virus in questo caso c’entra poco.
“Prima del covid-19”, dice Capitoni, “in Val d’Orcia venivano soprattutto stranieri. Dopo la pandemia si sono aggiunti nuovi turisti italiani”: hanno scoperto queste campagne che, pur essendo molto usate da cinema e pubblicità, erano sempre rimaste fuori dalle rotte del turismo di massa. E allora molte cose sono cambiate, nei numeri ma soprattutto nel modo della frequentazione.
La cappellina di Vitaleta, per esempio, è una piccola chiesa rurale nelle campagne di San Quirico d’Orcia, ed è uno dei simboli della valle. Lo è per il suo aspetto, che è un riassunto di toscanità, cipressi inclusi, e lo è per l’isolamento splendido nel quale è stata immersa fino a qualche tempo fa.
Poi accanto le hanno aperto un ristoro che è anche una location per eventi. Sul sito web c’è scritto: “Dalla città di Firenze a un non luogo in Val d’Orcia”. E forse rivela più di quanto vorrebbe. Lo slogan pare infatti una spericolata incursione nel pensiero di Marc Augé. Nel suo saggio del 1992 Nonluoghi, l’antropologo francese parlava di “spazi della provvisorietà” dove “non si potevano decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva”. Raccontava luoghi privi d’identità, scollegati dal contesto sociale e dalla storia, e per questo produttori di solitudini, oltre che fortemente omologati. Insomma, aeroporti, supermercati, parcheggi. E anche villaggi turistici. Cosa che, in effetti, la Val d’Orcia rischia adesso di diventare.
Immagine stereotipata
Il nuovo turismo post pandemia sembra infatti avere un rapporto distratto e, per così dire, molto rapido col territorio. Che mostra adesso evidenti segni di logoramento. Lo schema pare ricalcare quello ormai noto: i servizi per i turisti sostituiscono le attività necessarie per la vita dei residenti, e i centri abitati finiscono per trasfigurarsi in prodotti da vendere, anche favorendo la diffusione di un’immagine di sé decisamente stereotipata.
Basta vedere i ristoranti che da queste parti stanno prendendo il posto delle vecchie osterie, o quelli che modificano aspetto e menu per corrispondere alle aspettative dei turisti, più che alle esigenze dei residenti. Finendo però per trasformarsi in una specie di caricatura della toscanità.
Da queste parti viene chiamata “pientizzazione”, da Pienza, che con Montalcino è il centro più noto della valle. A Pienza questo processo è cominciato già molti anni fa e basta una passeggiata in centro per osservare le conseguenze che ha prodotto. Lungo la via principale si cammina all’interno di una zona doppiamente tutelata dall’Unesco: dal 2004 la Val d’Orcia come paesaggio culturale, e dal 1996 la stessa Pienza come esempio di città ideale umanistico rinascimentale. Neppure questo è bastato a salvarla.
Nel centro ormai ci sono soprattutto botteghe che vendono il noto pecorino locale, qualche negozio di souvenir e di antiquariato, e poi ancora e ovunque formaggio. E naturalmente ristoranti. Solo la farmacia e il bar tabacchi sembrano destinati a chi a Pienza ci vive.
Qualcosa di simile è accaduto anche a Montalcino. Qui il protagonista è il Brunello, tra i vini italiani più importanti, e che da solo muove l’economia di una parte pregiata della valle. Pienza e Montalcino però fino alla pandemia erano l’eccezione, mentre il resto della Val d’Orcia non era stato granché toccato dal fenomeno che ora invece comincia a dilagare perfino nelle campagne, oltre che nei paesi. Per esempio a San Quirico, che è sempre stato un paese vivo, abitato e non messo in scena, e che adesso mostra molte avvisaglie di pientizzazione. Non senza conseguenze.
Il problema infatti non è più soltanto la trasformazione di paesi e campagne in alberghi diffusi, ma più in generale il mutamento di questi spazi in palcoscenici sui quali i turisti vengono a vivere un’esperienza per lo più artefatta. Ogni cosa diventa intrattenimento, con la Val d’Orcia costretta a farsi scena e luogo comune, consumando così – nella speranza di un arricchimento economico – la propria identità culturale, il paesaggio e la sua stessa storia.
“Ci sono turisti che mi chiamano e mi chiedono di fare turismo esperienziale. Io rispondo che non faccio animazione”, scherza Alessia Farina, la cui azienda produce formaggio a cavallo tra la Val d’Orcia e le Crete senesi. Ma non tutti evidentemente la pensano come lei. Ci sono agenzie che organizzano tour per le campagne mettendo a disposizione vecchie Fiat 500 e Vespe 50, promuovendo una sorta di “italian experience” che faccia rivivere ai visitatori un immaginario, idilliaco passato rurale, molto simile a certe cartoline dall’Italia che tanto piacciono a Hollywood. Una specie di Vacanze romane in campagna, insomma.
Non si viene più per fare una passeggiata in campagna o magari per vedere i campi di grano vicino a Pienza dove è stato girato Il gladiatore di Ridley Scott, ma si viene invece per vivere l’esperienza del gladiatore, per interpretarlo: fino a qualche tempo fa difficilmente su quei campi si sarebbe incontrato qualcuno, adesso è pieno di turisti in fila per farsi la foto – tutti la stessa – mentre scendono per il pendio accarezzando il grano con la mano, imitando il gesto di Massimo Decimo Meridio, protagonista del film.
La sensazione è di trovarsi di fronte a una frontiera, travolta la quale non ci sarà più nulla in grado di salvare l’identità del paesaggio italiano
Ormai si viene per questo, e per percorrere rapidamente una specie di circuito, consolidatosi con la condivisione di foto e notizie sui social network, e costruito su 4 o 5 luoghi diventati ormai delle vere star. È il caso del famoso boschetto di cipressi tra San Quirico d’Orcia e Montalcino, ma anche di Poggio Covili con il suo scenografico doppio filare di cipressi, o di un vecchio edificio utilizzato anch’esso nel film con Russell Crowe, e per questo ormai noto come la casa del gladiatore.
Qualcosa di simile accade perfino con il cibo, massimo vanto di questo paese e qui rappresentato sempre più dal solito tagliere di salumi e formaggi, oramai piatto unico di una tradizione toscana immaginaria. Ma forse ai turisti non importa più davvero cosa mangiano. Ciò che conta è l’illusione dell’esserci, e aggiungere un’altra foto alla propria collezione. Così da poter dire: “Anch’io”.
Naturalmente non accade soltanto qui di vedere masse di turisti all’inseguimento di una realtà immaginaria, costruita da cinema e tv, e nei casi peggiori dalle strategie di comunicazione, che poi i social network amplificano e diffondono obbligando il territorio a cambiare i propri connotati. Si tratta anzi di un fenomeno piuttosto diffuso, che ferisce prima di tutto l’identità dei luoghi che ne sono afflitti.
Negli ultimi anni è accaduto a Matera, nel ragusano, e più in generale nell’intero meridione, per lo più raccontato da film e fiction come un luogo pittoresco e antimoderno, e che per questo nella fantasia di molti diventa buono per fare vacanze che paiono piuttosto una redenzione temporanea dalla modernità. Tuttavia, colpisce la rapidità con la quale questo processo si sta rivelando anche in val d’Orcia. E colpisce, soprattutto, che qui in un certo senso il danno si stia producendo anche sul piano simbolico.
Responsabilità politica
Per la sua bellezza, e per come il lavoro dell’essere umano l’ha trasformata nei secoli, la Val d’Orcia rappresenta infatti un archetipo del paesaggio italiano, e anzi rappresenta il paesaggio italiano nella sua forma più riconoscibile in tutto il mondo. Ma se anche in un posto così noto, così tutelato e così rappresentativo può accadere che si radichi un tale fenomeno di aggressione, la sensazione è di trovarsi di fronte a una frontiera, travolta la quale non ci sarà più nulla in grado di salvare l’identità del paesaggio italiano.
Su tutto pesa anche “una responsabilità della politica”, dice Elena Salviucci, segretaria dei giovani democratici di Siena e imprenditrice vinicola a Campiglia d’Orcia, che aggiunge: “Nel momento in cui si è deciso che la politica non aveva più la funzione di riequilibrare gli interessi che operano sul territorio, e quindi anche di fare da argine a quegli stessi interessi, le amministrazioni locali sono state condannate a lavorare in solitudine”.
“Dopo la riforma delle province si è iniziata a sentire la mancanza di un ente sovraordinato”, spiega Valentina Pierguidi, guida turistico ambientale di Castiglione d’Orcia. “C’è la regione”, dice, “ma questo territorio politicamente pesa poco, per quanto sia bello e importante”.
Le conseguenze si vedono anche nella forza che manca per gestire i processi che stanno ulteriormente modificando il volto di questa terra, come per esempio quelli innescati dall’ingresso in valle di alcuni grandi imprenditori arrivati da fuori, anche dall’estero, e attorno ai quali, spiega Salviucci, “si sta ricostruendo la grande proprietà terriera”. Si tratta spesso di investitori che “non hanno un rapporto con l’agricoltura tradizionale della valle”, e la cui presenza, con l’accumulo di centinaia di ettari di terra, sta provocando un aumento dei prezzi “che ne preclude il possesso ai proprietari di qui”.
Più che una gentrificazione rurale, osserva Salviucci, “è una specie di finanziarizzazione dell’agricoltura”. “Il territorio”, conferma Capitoni, “viene utilizzato ormai come strumento finanziario. Così però stiamo erodendo tutto il miglioramento che dal dopoguerra con fatica aveva portato il benessere da queste parti, a partire dal lavoro dei contadini su cui è fondata la bellezza di queste campagne. Il latifondo è un’altra cosa”.
Questi processi, secondo Alessia Farina, potrebbero essere stati agevolati anche da un eccesso di tutela del territorio. “Si deve decidere se puntare soltanto sul paesaggio o anche sulla produzione”, dice, “perché se si punta solo sul paesaggio si rischia di creare un parco divertimenti per turisti. Negli ultimi venticinque anni si è scommesso sull’immagine di una Toscana cristallizzata nel passato, con vincoli paesaggistici severi che hanno reso difficile la produzione. In altre regioni si trovano capannoni ovunque e meno vincoli. E noi così non riusciamo a reggere la concorrenza”.
“Certo”, aggiunge Farina, “ci resta il paesaggio che richiama turisti, ma i piccoli imprenditori sono economicamente indeboliti e non possono permettersi investimenti come i grandi investitori che stanno arrivando. E alla fine, se loro offrono tanti soldi, in molti sono tentati di vendere terra e aziende. Insomma, abbiamo conservato un paesaggio bellissimo ma adesso siamo costretti a venderlo a chi viene da fuori”.
Per le campagne senesi il grano è importantissimo, anche dal punto di vista culturale
Il paradosso è che il paesaggio che i turisti apprezzano per la bellezza della colline diradate e selvagge, ha ben poco di naturale, essendo il frutto del lavoro secolare e cooperativo di umani e natura, come d’altra parte tutto o quasi il paesaggio collinare italiano.
Tuttavia, questa collaborazione qui ha prodotto un miracolo, ed è proprio per questo che la Val d’Orcia dal 2004 si è guadagnata la tutela dell’Unesco come paesaggio culturale: “È un eccezionale esempio”, si legge nelle motivazioni del riconoscimento, “di come il paesaggio naturale sia stato riscritto nel rinascimento per riflettere gli ideali di buon governo e per creare un’immagine esteticamente gradevole”, che ha “influenzato profondamente lo sviluppo del pensiero paesaggistico”.
E quanto tutto ciò sia radicato nella cultura senese ce lo racconta il ciclo di affreschi detto del Bene comune, realizzato da Ambrogio Lorenzetti poco prima del 1340 a Siena, e noto in età moderna come l’allegoria del buon governo e del cattivo governo e dei loro effetti in città e in campagna. Si trova nella sala dei Nove del Palazzo pubblico di Siena, e il paesaggio che vi è rappresentato è del tutto simile a quello che si può vedere ancora oggi, anche nelle ragioni culturali e politiche che lo hanno governato. E questo nonostante la povertà estrema che queste colline hanno conosciuto in epoca moderna, e che ha spinto molti ad andare via. Poi le cose sono cambiate.
Tra gli anni trenta e gli anni sessanta del novecento la valle è stata in parte ricolonizzata. Si sono guadagnati nuovi spazi per l’agricoltura sbancando le colline, perfino a colpi di dinamite. Sono arrivati pastori sardi per condurre le pecore e cerealicoltori siciliani per lavorare il grano. E sono stati loro a introdurre la meccanizzazione. Ma forse il cambiamento più vistoso sta avvenendo proprio adesso.
Le pecore, per esempio, fino a qualche anno fa popolavano i fianchi ventosi delle colline, ma ora “c’è meno pascolo”, dice Elena Salviucci, “e anche l’allevamento diminuisce”. Spesso, poi, “le pecore sono tenute nelle stalle”, sostiene Alessia Farina, che tra le cause indica anche l’aumento dei lupi e l’introduzione delle pecore di razza lacaune, meno adatte al pascolo e più idonee per l’allevamento intensivo.
“Di norma”, spiega Farina, “le pecore partoriscono in autunno e si tengono al pascolo fino a quando è possibile, provando a sfruttare tutta l’erba primaverile. Poi, in estate, i pascoli si seccano. Chi lavora su scala industriale invece le alimenta sempre nello stesso modo e le fa partorire a rotazione così da avere latte tutto l’anno, ma latte e formaggio avranno caratteristiche sempre uguali, mentre andando al pascolo varierebbero sapore e consistenza”.
Il prezzo da pagare per il passaggio all’allevamento intensivo, spiega Farina, è quindi una certa standardizzazione del prodotto. Tuttavia le persone a quanto pare si abituano anche a questo, così come non molti sembrano farsi un cruccio per come il paesaggio stia cambiando con la parziale scomparsa delle greggi dai pascoli. E non è ancora tutto.
Spiega infatti Marco Capitoni che, “se la filiera del vino è fondamentale per questa terra perché i piccoli produttori riescono a curarla fino al prodotto finale, la stessa cosa ormai è diventata molto difficile in altri settori”, come per esempio quello dei cereali. Per le campagne senesi il grano è importantissimo, anche dal punto di vista culturale. “Eppure”, dice Capitoni, “si sta smettendo di coltivarlo”.
“Lungo la strada da Siena a Montalcino”, racconta Giacinto Beninati, cerealicoltore nelle Crete senesi, “c’era soltanto grano, adesso si fanno colza, avena, farro, prato per la fienagione”. “Fino alla pandemia”, prosegue, “noi riuscivamo a lavorare fino a 700 o anche 900 ettari. Quest’anno, con il grano duro, che è il nostro cavallo di battaglia, forse arriviamo a 220 ettari. Il resto è coltivato a trifoglio”.
Il problema è nell’aumento dei costi che gli agricoltori devono sopportare. “Abbiamo comprato concimi per 80, 100 euro al quintale”, spiega Beninati, “quando fino al 2020 li pagavano tra 18 e 20 euro. E poi c’è l’aumento del prezzo del gasolio”. In queste condizioni, spiega, è inevitabile ridurre la dimensione delle colture. La speranza è che almeno in questo caso si tratti di un fenomeno temporaneo.
Sprazzi di resistenza
E però intanto cambiano i colori, cambia l’aspetto della campagna, cambiano i ritmi del lavoro, e forse sono cambiate anche le ragioni stesse per cui queste campagne si erano meritate la tutela dell’Unesco. Tuttavia c’è chi prova a resistere.
Antonio Cipriani nella vita ha fatto a lungo il giornalista, ma da tempo ha aperto una vineria letteraria – Vald’O – sulla strada principale di San Quirico. Sostiene che “non tutti coloro che lavorano col turismo tengono conto della storia e della cultura di questa terra”, e che “c’è anche chi sembra non avere alcuna consapevolezza di ciò che sta accadendo. E poi sì, ci sono anche sprazzi di resistenza”, aggiunge, “ma non è facile”.
Nel suo caso la resistenza ha a che vedere con la cultura, una cultura che ha una forte radice popolare, e con un tentativo di “porre qualche domanda, e far sorgere almeno un dubbio di fronte alle certezze assolute su come sostenere lo sviluppo di questo territorio. Ma il senso critico è lento a crescere”. E poi “c’è stato anche uno slittamento culturale”, dice riferendosi alle manifestazioni che da queste parti vengono organizzate spesso delegando ogni cosa a strutture che con il territorio non hanno nessun legame, magari confidando nella presenza di qualche nome di richiamo.
“Così però non si esprime più nulla di originale”, dice, “se non una sintonia mediatica con una cultura spesso costruita attorno a personaggi televisivi”. E, così, questa terra che pare una scheggia di rinascimento che ancora vive, rischia adesso di rimanere senza voce, mentre ogni cosa si trasforma nel simulacro di se stessa, si consuma nell’inconsapevolezza di sé e poi muore, sostituita da un gigantesco sfondo per le foto ricordo. “Ecco, questo è il confine”, dice Cipriani, “e se crolla sono guai”. ◆
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