Batteria era un’isola, quasi trecento ettari nell’estremo delta del Po. C’erano alcune case, un’azienda. Poi cominciò ad allagarsi. Non era un’alluvione, ma la terra che sprofondava. Si provò a salvarla innalzando gli argini. Si provò a farne una risaia. Poi, negli anni settanta, ci fu una mareggiata più forte delle altre, e l’Adriatico era di nuovo lì che bussava alla porta delle case. Infine, mare e fiume se la sono ripresa.

A tirarla giù fu la subsidenza, il lento e progressivo sprofondamento della terra. Il fenomeno naturale da queste parti è stato accelerato dall’estrazione di gas, praticata massicciamente nel delta e fino all’entroterra ferrarese, dagli anni trenta del novecento all’inizio dei sessanta, quando le operazioni furono interrotte per i rischi che comportavano.

Nei mesi scorsi, anche per superare le difficoltà nell’approvvigionamento di gas causate dalla guerra in Ucraina, il governo Meloni aveva annunciato di voler rivedere le norme sulle trivellazioni nell’alto Adriatico. L’intenzione è stata confermata negli ultimi giorni, nonostante in Veneto ci siano state diverse proteste e malumori, inclusi quelli di molti amministratori di destra. E nonostante anche le evidenze, come la scomparsa di Batteria, della quale non resta più nulla, o quasi.

Al suo posto c’è una laguna su cui è possibile avventurarsi solo in barca, e che ancora conserva un magazzino e un paio di edifici una volta destinati a uffici, ormai semi sommersi. Sott’acqua s’intuisce anche la vecchia fortificazione militare da cui l’isola ha preso il nome. Poco più in là, ecco le bocche del Po di Pila, il ramo principale del grande fiume, che proprio qui si divide in tre canali: la busa dritta, quella di scirocco e quella di tramontana, prima di perdersi nell’Adriatico.

L’acqua dentro le case

“Ecco, io sono nato lì”, dice Fabrizio Boscolo, mentre manovra la barca che scivola sicura sul Po. E indica un punto sull’altro lato del fiume rispetto a Batteria, appena oltre la riva. Ma non c’è terra neanche lì, dove uno se l’aspetterebbe, solto un’altra distesa d’acqua e canneti, un labirinto di canali e lagune dai nomi evocativi – Basson, Canarin – dove un tempo la terra era coltivata a riso. Boscolo è un pescatore. Lo è da una vita, trascorsa tutta letteralmente sul fiume.

“Sono nato lì”, ripete. “Non c’era luce, non c’era gas. E l’acqua era quella del fiume. Quando era torbida si aspettava che il torbido si depositasse. Poi si usava”. Ancora oggi qui sembra d’essere in mezzo al nulla, in un paesaggio sterminato e rarefatto dove, come scrisse Ermanno Rea in Il Po si racconta (Gambero Rosso 1990), “una striscia di terra può anche apparire una stravaganza se non addirittura un’anomalia della natura, un’emergenza del tutto immotivata”. Qui terminano anche le arginature con cui per centinaia di chilometri l’uomo ha stabilito il percorso del fiume, che invece proprio nell’ultimo tratto del suo viaggio torna a farsi arbitro del proprio destino.

Ed è solo qui che l’acqua modella ogni cosa, perfino il carattere degli uomini e delle donne che lo abitano. “Qui le persone hanno sempre vissuto. Prima saltuariamente, con le campagne per la raccolta delle canne, poi con il riso e la pesca”, racconta Boscolo. “Noi”, aggiunge, “ci abbiamo vissuto fino al 1966. Andammo via con l’alluvione, ma in realtà eravamo già alluvionati da anni”. La sua famiglia infatti abitava in una baracca in cui, a causa del terreno che sprofondava per l’estrazione del gas, entrava spesso acqua.

“Allora mio padre recuperò la pietra con cui erano fatti i camini delle altre baracche, ormai abbandonate, e ne costruì una nuova”. Ma la situazione peggiorava, “e allora”, ricorda Boscolo, “andammo a vivere nella casa padronale della risaia, abbandonata anch’essa. Poi l’acqua cominciò ad arrivare anche lì. Vivemmo per un po’ al primo piano. Ma alla fine siamo dovuti andare via, a Pila”.

I pozzi di estrazione del gas abbandonati, Ca’ Pisani, ottobre 2023. (Alessandro Calvi)

A estrarre gas si cominciò nel 1935 con tredici pozzi. Nel 1951 erano già 993 e nel 1959 addirittura 1.424. La produzione toccava i 281 milioni di metri cubi di gas, superando i trecento milioni nel 1957. Ma, spiega il direttore del consorzio di bonifica del delta del Po Giancarlo Mantovani, proprio allora “si iniziò anche a registrare il collegamento diretto tra estrazione di gas e subsidenza”. Anche perché il terreno stava sprofondando in aree che erano sempre rimaste fuori dall’acqua. Solo nel 1957 si registrò un abbassamento di ben trenta centimetri. Quello stesso anno il governo incaricò una commissione di studiare il fenomeno.

Infine, nel 1961 l’estrazione fu sospesa in tutto il territorio compreso tra Adria e il mare. Nel ferrarese si andò avanti fino al 1965. A far chiudere i pozzi, insomma, “non fu ‘l’ambientalismo ideologico’”, ma, come ha scritto Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, “Fanfani e Zaccagnini e i democristiani e i moderati che allora dominavano l’Italia”, e che a un certo punto “dovettero prender atto delle evidenze denunciate da tecnici che tutto erano tranne che teste calde comuniste”. Certo, il gas “faceva gola”, ma “i rischi erano troppo alti”. E tuttavia il danno ormai era stato fatto.

“Osservando le mappe”, spiega Mantovani, “si nota come a fine settecento il territorio del delta si trovasse fuori dall’acqua. Non essendoci idrovore, se ne deduce che la superficie si trovasse al di sopra del livello del mare. Oggi in alcune zone la terra è sprofondata più di quattro metri al di sotto del livello del mare”. È successo anche per cause naturali. In aree come questa, nate dall’accumulo di sedimenti portati dal fiume, il terreno si compatta e sprofonda. Ma, spiega Mantovani, “si tratta di un abbassamento che vale uno o due millimetri all’anno”. Anche la bonifica incide, “e lo dico da direttore di un consorzio di bonifica. Ma l’abbassamento arriva in tutto a una decina di centimetri nei terreni sabbiosi, tra i 30 e i 40 in quelli di medio impasto, e a 70 in quelli torbosi, ma solo quando si effettuano bonifiche di terreni paludosi. Poi lì si ferma. Il vero problema è stato creato con l’estrazione del metano”. Con conseguenze che il Polesine continua a pagare.

Oggi infatti il delta si trova in media due metri sotto il livello del mare, con punte fino a quattro metri e trenta centimetri, con un abbassamento di circa tre metri e mezzo fino agli anni ottanta, e altri cinquanta centimetri fino al 2008. Ma il processo è continuato anche negli anni successivi perché, spiega Mantovani, “quello che è stato messo in moto non è un motore che si accende e si spegne come si vuole”.

Così oggi quota zero si trova all’altezza della strada statale Romea: gli oltre venti chilometri in linea d’aria che ci sono da lì all’estremo lembo di terra emersa sono tutti sotto il livello del mare. E allora sembra che nel suo delta il Po voli, e che i rami nei quali si divide quando ormai è in vista del mare, scorrano in cielo, sollevati da argini che a monte se ne stanno lontani dal letto, oltre le aree golenali, sorvegliando il fiume a distanza poiché pensati per contenere le piene, mentre nel delta servono a contenere il fiume stesso. Il fiume sovrasta ogni cosa mentre la terra sprofonda. Ed è mantenuta all’asciutto solo grazie ad arginature sempre più alte, e alle idrovore che scaricano all’esterno le acque piovane e le acque di filtrazione, impedendo così all’acqua di invadere i campi e dilagare in terraferma per chilometri. Il costo per farle funzionare è piuttosto salato, eppure tutto questo ancora non basta.

L’ex isola della Batteria, ottobre 2023. (Alessandro Calvi)

Batteria è lì a dimostrarlo. Così come la vecchia idrovora di Ca’ Giustinian, costruita negli anni venti e sostituita con un nuovo impianto nei sessanta perché il terreno si era abbassato di circa due metri. Lo testimonia anche il vecchio deposito di riso che se ne sta abbandonato proprio al centro della laguna di Bottonera, tra la bocca del Po di Gnocca e la sacca di Scardovari, lì dove prima c’erano terra coltivata e strade. O Bonelli, un pugno di abitazioni appena fuori Scardovari, di fronte al quale un altro ex deposito di riso marcisce nell’acqua. E dove si può constatare il salto impressionante tra la sommità dell’argine che contiene il Po di Tolle e il terreno su cui furono costruite le case, mentre sull’altro lato il fiume scorre decisamente più in alto, costeggiando la laguna che lo separa dall’Adriatico. E lo stesso succede lungo tutto o quasi il perimetro della sacca di Scardovari, la grande laguna che con più di tremila ettari segna il versante sudorientale del delta.

Ca’ Pisani invece “non esiste più”, dice Danilo Trombin, tecnico faunista e profondo conoscitore del fiume, indicando uno specchio d’acqua che ha preso il posto del piccolo abitato, poco distante dal punto in cui il Po di Maistra si separa dal Po di Venezia. All’asciutto restano solo la chiesa e la vecchia casa padronale. Defilati, un paio di vecchi pozzi di estrazione del gas sembrano guardare tutta quell’acqua facendo finta di nulla. Di pozzi abbandonati come quelli se ne trovano ancora molti nel delta. Le cronache locali raccontano anche di estrazioni illegali. Quando erano in funzione, servivano per separare gas e acqua salata che fuoriuscivano insieme dal sottosuolo. Il gas era instradato verso le stazioni di compressione, l’acqua invece era scaricata nella terra, creando non pochi malumori tra gli agricoltori, poiché il sale danneggia i campi.

Nonostante tutto – nonostante anche il fatto che la subsidenza, compromettendo gli argini, aumenta il rischio di alluvioni, e le alluvioni nel Polesine hanno spesso picchiato durissimo, come nel 1951 – da qualche tempo si è tornati a parlare dell’estrazione di gas.

Il governo guidato Meloni vuole rivedere le regole sulle trivellazioni. Il presidente della regione Veneto Luca Zaia, della Lega, si è però detto assolutamente contrario. Così come, tra gli altri, Moreno Gasparini, sindaco di centrodestra di Loreo e presidente del parco regionale veneto del delta del Po: “Se vogliono farci sprofondare del tutto lo dicano apertamente”, ha dichiarato. Ma a lanciare l’allarme da queste parti sono stati un po’ tutti, anche i vescovi.

Tra i primi a muoversi c’è stata però Italia Nostra. “Abbiamo subito ricordato a tutti che la pericolosità delle trivellazioni è già dimostrata”, spiega Fabio Bellettato, presidente della sezione di Rovigo. “Certo”, aggiunge, “in quel momento c’era il problema dell’approvvigionamento per la guerra in Ucraina, ma nel Polesine abbiamo un bradisismo endemico che le estrazioni hanno accelerato. Per questo ci siamo attivati”. A causa delle obiezioni emerse, nel 2022 è stato aperto un tavolo per studiare la situazione. “A lungo abbiamo chiesto i verbali delle riunioni”, dice Bellettato.

Dopo circa un anno, la risposta è arrivata proprio in questi giorni: gli scienziati hanno stabilito che a causa della subsidenza i rischi sono troppo alti, addirittura inaccettabili. Tuttavia, il governo ha fatto sapere che si andrà avanti comunque, smentendo così anche i propri amministratori locali. Per questo, Bellettato annuncia l’intenzione di Italia Nostra di diffidare la presidenza del consiglio dei ministri per il rischio di danno ambientale.

“Abbiamo cercato di sensibilizzare tutti su questioni concrete come la risalita del cuneo salino che danneggia l’agricoltura”, aggiunge Vanni Destro, portavoce del comitato Polesine no trivelle, “ma a volte manca perfino la memoria di quello che è già successo. E quindi molti si allarmano solo se gli si fa notare che anche Venezia potrebbe affondare per la subsidenza”. Venezia, infatti, è dietro l’angolo: in linea d’aria da piazza San Marco ci sono appena una cinquantina di chilometri per arrivare al faro di Pila.

“Fino all’ottocento il faro era ancora in paese. Quello nuovo è stato ricostruito più a valle di circa quattro chilometri”, spiega Stefano Cacciatori, mentre dalla motonave con cui la sua famiglia accompagna i turisti sul fiume da ormai più di trent’anni quel faro si comincia a vedere. È la terra che cammina, è l’acqua del fiume che giorno dopo giorno spinge questo pezzo d’Italia verso il mare, e lo costruisce. Tuttavia, se il Po spinge, la terra ormai sembra non farcela più a seguirlo. E sprofonda. Dove c’erano risaie ora ci sono lagune e labirinti di canneti, e pare davvero che qui il mondo finisca, e che il resto sia solo acqua. E il mare, oltre la bocca del Po Grande, somiglia a un muro che si prepara a dare ancora un morso a questa terra appena nata.

“Se il metano ha sconvolto il delta”, va avanti Cacciatori, “in qualche modo lo ha però anche salvato, perché con l’inizio delle estrazioni si è fermata la bonifica. Altrimenti qui non avremmo avuto queste zone umide così importanti”. Sembra un paradosso eppure, come scrive Trombin nel suo Viaggio nel delta del Po (Apogeo, 2021), “nel corso della prima metà del novecento, in provincia di Rovigo sono stati bonificati tutti i terreni bassi. Le valli da pesca da cinquanta sono diventate poco più di venti. Gli ambienti salmastri rappresentavano circa il 17,2 per cento del territorio alla fine dell’ottocento, mentre all’inizio degli anni ottanta sono diventati appena l’8,9 per cento”. Tutto ciò “ha stravolto per sempre la naturalità di un territorio che oggi, per forza di cose, deve essere considerato fortemente antropizzato”. Non naturale, quindi, ma “frutto di una lunga collaborazione tra uomo e natura”. Che in qualche modo ancora va avanti.

“I cambiamenti climatici e alcuni interventi degli esseri umani”, dice infatti Cacciatori, “hanno fatto perdere al Po la sua natura di fiume”. Si riferisce per esempio alla modifica del suo corso in più punti per far passare più velocemente le piene. “Il Po ora è più sicuro”, dice, “ma in alcuni tratti ormai somiglia a un canale”. E poi, come fa notare Fabrizio Boscolo, l’interramento delle lagune, anch’esso frutto di progetti umani, “ha provocato la scomparsa delle aree di riproduzione dei pesci, poiché le lagune hanno anche questa funzione”. Dunque, non solo la diffusione del granchio blu, star mediatica della scorsa estate, ma anche la crisi della relazione secolare tra natura e interventi umani ha fatto sì che da queste acque sia sparito moltissimo pesce, sia di mare sia di laguna, come gamberi, granchi, acquadelle. Già alcuni anni fa lo raccontava Gian Antonio Cibotto, le cui parole Elisabetta Sgarbi ha utilizzato per introdurre il suo bel film Uomini del delta: “Oggi per i pescatori, certamente, la vita è migliorata. (…) Lo storione, però, non esiste più e con lui, che ha preso altre rotte, se n’è andato il sogno”.

“Me li ricordo gli storioni, sono stati i primi a cominciare a sparire, saranno stati gli anni sessanta”, ricorda Doriano Cazzola, pescatore di Gorino, piccolo paese nella parte ferrarese del delta. Cazzola, che è presente nel film di Elisabetta Sgarbi, parla con una bella voce bassa, che sembra un tutt’uno con il fiume e la nebbia, mentre conduce la barca tra i canneti, verso il faro di Goro. E racconta che anche le anguille, simbolo del delta, ora sono molte meno di un tempo: “L’ultima volta che abbiamo visto una bella quantità di novellame fu nel 2015. A poco a poco se n’è visto sempre meno”. E anche il canneto è entrato in crisi, a causa dell’aumento della salinità dell’acqua. “A luglio e agosto”, racconta ancora Cazzola, “si andava a raccogliere il giunco di palude, con cui si facevano i dischi per pressare le olive, o a tagliare le cime delle canne per fare le scope. Certo, il canneto rappresentava la miseria. Ma tutto ha un senso, anche la miseria”. E poi, aggiunge, “una volta il delta era un mondo a sé, con le sue regole: nessuno ci dava ordini, si lavorava insieme. Era così, perché si lavorava per mangiare, mentre ora si lavora per i soldi”.

Poi sono arrivate anche le vongole, “la pepita di Goro”, come scrisse Ermanno Rea in Il Po si racconta. E tutto è cambiato. Era la fine degli anni ottanta, e in una terra abituata da secoli alla fatica e alla miseria più nera, l’allevamento dei molluschi portò una ricchezza enorme e improvvisa. E per questo anche molto difficile da gestire. “I portafogli scoppiano. Ma i cuori sono pieni d’odio”, confessò all’epoca il parroco di Goro a Rea, che raccontò la situazione nel suo reportage sul fiume, aggiungendo poi anche la propria testimonianza: “In nome della vongola sta succedendo di tutto: tra i pescatori le baruffe sono all’ordine del giorno”.

Non sono in molti qui a volerne parlare. Non della miseria d’un tempo, e neanche delle questioni aperte dall’allevamento dei molluschi, incluse quelle di natura ambientale. Resta il fatto che, dice Trombin, “il delta si sta trasformando in un deserto biologico”. Succede per molte ragioni che hanno a che fare con le attività umane e hanno innescato un imponente processo di semplificazione ambientale. “Si verifica sulla terraferma”, spiega, “per la perdita degli acquitrini che hanno lasciato il posto all’agricoltura con migliaia di ettari di monocolture. E in acqua, un po’ per la pressione venatoria, un po’ per l’allevamento delle vongole, tra le altre cose”. Paradossalmente, dice ancora Trombin, “le uniche aree che ancora conservano biodiversità sono le valli da pesca (aree private in cui si allevano i pesci) e le zone dove si caccia, che ospitano anche animali non coinvolti da quelle attività”.

Nonostante tutto questo, e nonostante la sua bellezza struggente, questo pezzo d’Italia così fragile e remoto rischia di essere sacrificato ancora una volta. “Se si ricominciasse a estrarre gas”, dice Cacciatori, “la terra riprenderebbe a scendere. Non è una preoccupazione, è un’esperienza che abbiamo già fatto, e che abbiamo superato con molte difficoltà”. “Gli scienziati”, aggiunge Bellettato, “spiegano che con l’innalzamento delle acque il mare riconquisterà terre oggi emerse. A causa della subsidenza, qui lo si comincia a vedere già in modo evidente”. “Non so dire cosa ci aspetta”, dice ancora Cacciatori, “ma il mare comunque salirà. Speriamo che almeno gli argini tengano”. Anche perché, come dicono da queste parti, già oggi i pesci nel mare nuotano più in alto delle galline che beccano in terra.

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