Catania, 25 dicembre 2021. Il pranzo di Natale è finito, anche se è inverno fuori ci sono 15 gradi, ma Alice non ha voglia di uscire. Decide di prendersi un po’ di tempo per sé, dopo mesi senza respiro tra la scuola, il volontariato e l’impegno politico. Si butta sul divano e accende la tv: su Netflix è appena uscito Don’t look up, il film con Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence che interpretano due astronomi alle prese con un meteorite che rischia di distruggere il mondo. I protagonisti si affannano per scongiurare questa minaccia, ma nessuno li ascolta.
Scena dopo scena, Alice sente che il divano sotto di lei diventa sempre più scomodo. Il respiro si fa corto, le viene da piangere. “Il film mi ha riportato la mente alla crisi ecoclimatica”, racconta. “Mi sono sentita in colpa per essermi goduta quel Natale con spensieratezza, facendomi prendere da cose superficiali come il cibo e i regali, quando invece il pianeta sta per morire proprio a causa del nostro stile di vita. Ho capito di aver fatto un errore ad abbassare la guardia: dovevo subito rimettermi in carreggiata”.
Non è la prima volta che Alice Quattrocchi, 16 anni, vive una crisi di ecoansia, un nuovo disagio sempre più diffuso, in particolare tra i giovani, legato alla preoccupazione per la distruzione della Terra. Il cambiamento climatico sta comportando gravi conseguenze sulla salute umana, non solo fisica, ma anche mentale, e così stanno comparendo nuove problematiche: c’è la solastalgia, l’angoscia che colpisce chi assiste alla degradazione del territorio in cui vive provocata da un disastro ambientale, e l’ecoansia, che è differente perché è legata a eventi che devono ancora verificarsi.
Un’emozione fisiologica
Mentre negli Stati Uniti l’American psychological association dal 2017 mette in guardia sul fatto che i cambiamenti climatici “stanno colpendo la salute mentale su larga scala”, definendo la climate anxiety come “una paura cronica della rovina ambientale”, in Italia l’ecoansia è ancora poco conosciuta e studiata. Eppure il problema esiste: un sondaggio sui temi della Cop26 rileva che un italiano su due considera la crisi climatica “un problema di gravità massima”. La tutela dell’ambiente rappresenta “una reale necessità” per il 65 per cento degli intervistati, mentre nove su dieci sono pronti a cambiare stile di vita per salvaguardare il pianeta.
“L’ecoansia, quando non è eccessiva, può anche essere costruttiva, perché serve ad attivarci e a trovare l’energia giusta per cambiare i nostri comportamenti: l’essere umano si muove solo quando si muovono le emozioni”, sostiene Roberta Ramazzotti, psicoterapeuta, che tra i suoi pazienti ha anche alcuni giovani che ne soffrono. “L’ansia è un’emozione fisiologica: se non ci fosse quando attraversiamo la strada, verremmo investiti. Però, quando si intreccia con altri fattori personali, c’è il rischio che diventi patologica e che ci paralizzi”.
In alcuni casi, l’ecoansia si associa ad altri disturbi, come quelli del comportamento alimentare: “È come se l’essere umano nei confronti della Terra avesse un rapporto simile a quello del neonato con la madre”, spiega Gemma Galeati, psicoterapeuta e psicanalista che ha affrontato casi di ecoansia. “È il pianeta che ci dà il nutrimento: quando capiamo che questa fonte non è inesauribile e vediamo che tutti se ne approfittano, allora siamo noi stessi a rinunciare al cibo”.
È quello che è successo anche ad Alice, che durante il lockdown ha vissuto un periodo di grande difficoltà: per una come lei, attivista nel gruppo ambientalista Fridays for future, abituata a organizzare incontri e a scendere in piazza per manifestare, restare bloccata in casa è stato un duro colpo. “Ho fatto molta fatica ad accettare di avere così tanto tempo libero, quando di tempo per salvare il pianeta ormai ne è rimasto pochissimo”, racconta. “Piangevo ogni giorno e sono diventata molto rigida: ho iniziato a giudicare male i miei amici e la mia famiglia, perché non vedevo in loro il mio stesso impegno nel cambiare stile di vita in un’ottica più sostenibile. Mi sono allontanata, mi sentivo molto sola”.
Per ridurre al minimo il suo impatto, Alice mangiava pochissimo, sceglieva solo cibi che non fossero confezionati, oppure finiva gli avanzi: “A colazione mangiavo solo il pane duro del giorno prima. La logica dell’ottimizzazione e del risparmio aveva preso il sopravvento: erano meccanismi malati, che però sentivo nel mio cervello come giusti. Mia madre era preoccupatissima, mi è stata molto vicino: parlare con lei e con degli esperti mi ha aiutato a superare quel momento, anche se ho ancora degli strascichi. A volte mi chiedo: è davvero giusto ridimensionare la questione, quando il problema è così enorme?”.
Come un sasso nella scarpa
Anche Lucia (il nome è di fantasia), 23 anni, di Padova, racconta che davanti al pensiero della crisi ecoclimatica le sembra che tutto il resto perda di senso. “La cosa peggiore è l’aspetto del futuro”, dice. “Sto facendo una fatica incredibile a scegliere il corso di laurea magistrale: se prima decidevo in base ai miei interessi, ora preferisco orientarmi verso qualcosa che sia utile al mondo. Che senso ha studiare qualcosa semplicemente perché mi piace, se poi arriveranno gli effetti del cambiamento climatico? Sento il peso della responsabilità, il mio benessere passa in secondo piano”.
Lucia si è da poco laureata in antropologia all’università di Bologna con una tesi dal titolo Abitare le rovine, che parla di come gli attivisti di Extinction rebellion, di cui anche lei fa parte, vivono la crisi ecoclimatica. Un capitolo della sua ricerca era dedicato proprio al tema dell’ecoansia: “Facendo le interviste, ho notato come persone molto diverse facessero emergere temi comuni”, spiega. “È stato allora che ho capito quanto l’ecoansia mi stesse impattando, tanto da diventare invalidante: è un presagio che aleggia costantemente. Alcuni giorni diventa totalizzante e mi paralizza dalla paura, altre volte riesco a tenerla sotto controllo, eppure resta sempre lì, come un sassolino nella scarpa: anche i momenti belli sono contaminati, non ho più la spensieratezza e l’entusiasmo di prima”.
La ricerca in ambito psicologico si è concentrata sulle conseguenze del covid-19, mentre la questione del cambiamento climatico è stata messa in stand-by
C’è poi chi fa fatica a dormire, come Alice Maia Corso, 19 anni, di Genova: “Quando mi sono resa conto che il disastro climatico è molto più vicino di quanto credessi, ho cominciato ad avere attacchi di panico e a svegliarmi di notte. Avevo la nausea e il respiro pesante. Adesso prendo un farmaco per riposare meglio”.
Per calmarsi e trovare un po’ di sollievo ognuno adotta le proprie strategie: alcuni si sentono meglio cambiando il proprio stile di vita, optando per brand etici o vestiti di seconda mano; altri mangiano solo cibo a chilometro zero o prodotti sfusi, senza imballaggi. “Quando ho preso consapevolezza delle conseguenze dell’industria della carne, sono stata malissimo e sono diventata vegana”, racconta Giorgia Adragna, 22 anni, di Palermo. “Da due anni non compro più bottiglie in plastica, ho ridotto drasticamente i miei consumi e ho cambiato anche il modo in cui mi sposto: non uso più l’aereo e ho deciso di non prendere neanche la patente della macchina”.
Molti trovano nell’attivismo una risposta alle proprie inquietudini, anche se questa scelta in alcuni casi può anche accrescere l’ansia: “Da quando sono entrato a far parte di Extinction rebellion sono più informato e l’angoscia è aumentata”, racconta Peter Bonu, 36 anni, di Trieste. “È come se la mia testa dovesse fare, fare, fare: perdo di vista la mia vita privata e penso solo all’ambiente”. A febbraio Peter, insieme alle compagne Beatrice e Laura, ha fatto uno sciopero della fame durato undici giorni, per chiedere al governo di attuare una strategia più chiara nella lotta al cambiamento climatico. “In quei giorni ero molto più tranquillo: mi sentivo al mio posto. Attraverso il mio corpo mi sembrava di rappresentare il pianeta, che giorno dopo giorno viene lasciato morire”.
Oltre agli attivisti, diverse ricerche mostrano che anche gli scienziati e i ricercatori impegnati nello studio dei cambiamenti climatici sono colpiti da disturbi mentali come stress, burnout e apatia. “Gli scenari delineati di anno in anno sono sempre peggiori”, racconta Francesco Solinas, 26 anni, ingegnere aerospaziale ed energetico che nel dipartimento ambientale dell’agenzia Icao delle Nazioni Unite ha studiato i modelli di previsione dei cambiamenti climatici.
“La finestra temporale per fermare la crisi ambientale si sta chiudendo: quando escono nuovi studi che confermano questo andamento, sento una depressione che mi abbatte. Siamo ricercatori, siamo abituati a mettere da parte l’emotività e concentrarci sui dati, ma quando ci sono evidenze di questo tipo è difficile girarsi dall’altra parte. Uscire con gli amici, fare sport, andare in vacanza, niente ha più senso. I miei coetanei invece parlano di progetti, mutui, pensioni… Mi sento incompreso: io non ci provo neanche più a pianificare la mia vita”.
Tema emergente
Alice, Lucia, Giorgia, Peter, Francesco: tante storie accomunate dallo stesso senso di impotenza. Un’indagine su diecimila giovani tra 16 e 25 anni in dieci paesi, realizzata nel 2021 da The Lancet planetary health, mostra che tre quarti degli intervistati considera il futuro “spaventoso”. La metà si dichiara triste, ansioso, arrabbiato, persino colpevole della crisi climatica. Christina Popescu, psicologa sociale dell’università del Québec a Montréal, sta conducendo la prima ricerca di dottorato focalizzata sull’ecoansia: l’obiettivo è elaborare una scala di misura per la sua valutazione scientifica, visto che non sono ancora stati stabiliti i criteri discriminanti per identificare chi ne soffre. Nel frattempo, per rispondere a questo malessere, nel nord dell’Europa sono nati i Climate café, degli incontri in cui ciascuno può esprimere il proprio disagio, perché il primo antidoto contro l’ecoansia è proprio il fatto di parlarne e condividere il proprio vissuto.
In Italia mancano dati per misurare il fenomeno: un gruppo di lavoro del dipartimento di psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell’università di Padova sta iniziando a impostare la prima indagine sul tema, che partirà dalle scuole. “Siamo ancora in una fase embrionale”, racconta la psicoterapeuta Marina Miscioscia, ricercatrice al dipartimento. “È un tema emergente e particolarmente importante: negli ultimi anni la ricerca in ambito psicologico si è concentrata sulle conseguenze del covid-19, mentre la questione del cambiamento climatico è stata messa in stand-by”.
Il problema è reale e necessita di risposte adeguate. Ecco perché il Movimento psicologi indipendenti sta lavorando a una lettera aperta per richiamare l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica sugli effetti psicologici della crisi climatica. “La chiamata è partita dalla Climate psychology alliance, organizzazione nata nel Regno Unito nel 2009 per studiare le ripercussioni dei cambiamenti climatici sulla salute mentale”, afferma Marcella Danon, psicologa e fondatrice della scuola di ecopsicologia Ecopsiché, in provincia di Lecco. “Tra le buone pratiche già promosse nel Nordeuropa per sostenere chi soffre di ecoansia c’è l’ascolto empatico e l’invito all’impegno attivo”.
Nel 2017 Danon ha progettato insieme a Giuseppe Barbiero il primo corso accademico d’Italia sull’ecopsicologia, presso la facoltà di psicologia dell’università della Valle d’Aosta. “L’ecoansia è solo uno dei tanti aspetti studiati dall’ecopsicologia, che unisce la scienza che si occupa del ‘mondo fuori’, l’ecologia, con la scienza che si occupa del ‘mondo dentro’, la psicologia”, spiega Danon. “La nostra origine, la nostra storia, la nostra identità sono legate all’ambiente naturale: noi siamo natura, siamo parte del processo della vita in evoluzione. È come se a un certo punto si fosse prodotta un’amnesia, una disconnessione: abbiamo perso questa consapevolezza e la natura è diventata un oggetto, non ci sentiamo più parte di lei”.
Inconscio ecologico
L’ecopsicologia parla di “inconscio ecologico”: secondo questa teoria, nelle profondità del nostro essere c’è ancora la consapevolezza che la natura ci riguarda intrinsecamente. A soffrire per i disastri ambientali, allora, sono le persone più sensibili: “I dolori per loro sono due”, dice Danon. “Quello causato dalle ferite inferte agli ecosistemi, e quello di sentirsi soli e incompresi, perché gli altri non percepiscono quei danni con la stessa intensità. ‘La natura parla attraverso i più sensibili’, scrive l’ecopsicologa Sarah Conn”.
Secondo l’approccio ecopsicologico, l’ecoansia quindi non va considerata alla stregua delle altre ansie, come un disturbo da curare, ma va ascoltata come un campanello d’allarme che passa attraverso chi è più percettivo. Si tratterebbe di un meccanismo legato alla nostra biofilia, l’amore per la vita. “La biofilia è un adattamento evoluzionistico che ci permette di riconoscere e di godere degli ambienti naturali più rigogliosi”, afferma Giuseppe Barbiero, biologo e autore del libro Ecologia affettiva (Mondadori 2017). “Quando l’ambiente naturale viene violato, la nostra biofilia ne soffre e l’ecoansia è il segnale d’allarme”.
Barbiero, insieme al suo gruppo di ricerca dell’università della Valle d’Aosta, sta portando avanti una sperimentazione per prevenire l’ecoansia e gli altri disturbi legati all’allontanamento dell’essere umano dalla natura. Nel 2017 a Gressoney, nella Valle del Lys, ha realizzato un prototipo di scuola dove un certo numero di attività si svolgono all’aperto, mentre all’interno viene ricreato l’ambiente naturale attraverso elementi di biophilic design.
Quello che i bambini apprendono a scuola, infatti, può diventare determinante nello sviluppo della loro personalità. “Mi ricordo chiaramente la prima volta che ho sentito ansia per la distruzione della natura”, racconta Beatrice Trentin, bolognese, che ha 21 anni e studia scienze politiche. “Ero alle elementari, la maestra ci ha mostrato un filmato sull’importanza del riciclo e c’erano delle immagini dell’oceano pieno di plastica. Ho pensato: ‘Oh mio dio, devo fare qualcosa’”.
Dalla quarta liceo Beatrice fa parte del gruppo Fridays for future, ma la sua battaglia personale è cominciata molti anni prima: “Quel giorno tornai a casa e mi misi a discutere con i miei genitori sul perché in famiglia non facessimo la raccolta differenziata. Le solite risposte: ‘Non abbiamo spazio’, ‘Ci vuole troppo tempo’, ‘Non serve a niente’. Così uscii, andai a comprare dei cestini e li misi in camera mia: almeno lì avrei differenziato la spazzatura. È stato anche grazie all’ansia che sentivo che è cominciata la mia lotta per il pianeta”.
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