Questo articolo è uscito il 9 aprile 2022 a pagina 8 del numero 22 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.

“Vieni a pranzo con noi, così c’è una figura femminile”. “Sei una donna, non ti spetta l’auto aziendale”. “Più che una crescita verticale, la vedrei meglio in posizione orizzontale”. In Italia, nove persone su dieci hanno assistito a comportamenti o espressioni sessiste sul lavoro. Più della metà le ha anche subite. E il 93 per cento pensa che questo possa determinare la scelta di licenziarsi.

Sono alcuni dei dati raccolti dal nuovo osservatorio sul sessismo nei luoghi di lavoro dell’associazione Fior di risorse, realizzato dalla redazione di SenzaFiltro: all’indagine hanno partecipato più di 700 lavoratrici e lavoratori, che tra novembre 2021 e gennaio 2022 hanno risposto a un questionario. Tra loro ci sono amministratori delegati e centralinisti, metalmeccanici e responsabili di stabilimento, segretari di direzione e responsabili della comunicazione. Il 40 per cento sono uomini.

“Nel bar dove lavoravo, il mio titolare faceva continue battute a sfondo sessuale”, racconta Lara (il nome è di fantasia), 27 anni, di origine kosovara. “Mi affidava le mansioni più dure e, quando qualcosa non andava, era sempre colpa mia: una volta una cliente ha trovato un capello nell’insalata e lui ha minacciato di licenziarmi. Io ero alle prime armi e non gli rispondevo, anzi spesso ero in imbarazzo”. La situazione è peggiorata quando Lara si è ammalata: soffriva di crisi epilettiche, e il medico le ha consigliato di restare a casa. “Per paura di perdere il posto andavo lo stesso a lavorare: ero molto debole, non mi reggevo in piedi. L’ultimo giorno che l’ho visto mi ha detto: ‘Vai via zingarella, e non tornare più’. Solo oggi mi rendo conto che, per tenermi stretto il lavoro, sono arrivata a umiliare me stessa”.

Il sessismo viene esercitato soprattutto da chi è in una posizione di potere: l’osservatorio rileva che nel 62 per cento dei casi si tratta del capo, del presidente o dell’amministratore delegato, mentre il 38 per cento degli intervistati racconta che ad avere atteggiamenti discriminatori sono stati i colleghi.

“È interessante notare come il problema sia diffuso lungo tutta la scala gerarchica”, dice Maria Cristina Bombelli, che da vent’anni si occupa di inclusione sul lavoro e che ha fondato la società di consulenza Wise Growth. “Tra gli atteggiamenti più comuni ci sono i commenti sul corpo: se una donna è bella non conta più la sua professionalità, se invece è giudicata brutta viene presa in giro. E poi c’è il tema del ciclo mestruale: se un uomo è aggressivo è visto come autorevole, se una donna è aggressiva viene considerata ‘isterica’, perché avrà ‘le sue cose’”.

La questione della maternità

Un’altra questione delicata è quella della maternità: sono tante le donne che vengono scartate a un colloquio per aver dichiarato di volere figli o di averli, oppure che subiscono pressioni per questo una volta assunte. “Quando ho scoperto di essere incinta lavoravo da dieci anni con contratto a tempo indeterminato”, racconta Silvia (nome di fantasia). “Era un momento di crisi per la mia azienda, e la mia responsabile si è sentita doppiamente tradita”.

All’inizio le è stato proposto di passare a un contratto part-time, ma Silvia ha rifiutato. Quando sua figlia ha compiuto un anno, però, è stata licenziata. “Purtroppo non sono stata l’unica”, dice Silvia. “Qualche anno dopo, una collega si è trovata nella mia stessa situazione, ma lei per conservare il posto ha accettato il part-time: è stata licenziata lo stesso, con l’aggravante che il suo assegno di disoccupazione era decisamente inferiore. La cosa più sconcertante è che la responsabile che ci ha lasciate a casa aveva anche lei una figlia”.

Nella maggior parte dei casi, le donne preferiscono non protestare e non informare le risorse umane. La ragione si deduce dalle risposte al questionario di Fior di risorse: “Non mi aspettavo nessun risultato concreto da parte dell’ufficio del personale, sarebbe stata un’azione inutile”. “Provavo vergogna: ne ho parlato solo con i miei genitori, sembravo sempre io l’esagerata”. “Il molestatore era proprio il responsabile del personale”.

C’è il timore di ritorsioni, la paura di essere bollate come rompiscatole, il rischio di non essere credute. Chi trova il coraggio di denunciare, poi, vede la propria esperienza sminuita o silenziata: “Ma cosa vuoi che sia!”, “Non è che stai esagerando?”. È quello che è successo anche a Serena (nome di fantasia), 36 anni, che ha avuto problemi con un collega che inizialmente pretendeva di insegnarle in che modo fare il suo mestiere, e poi le ha chiesto di andare a letto con lui. “Quando ne ho parlato con la direzione, mi hanno risposto che quelli sono ‘fatti privati’”, racconta Serena. “Eppure io so che non sono l’unica a cui sono state fatte queste proposte”.

Il rischio di essere sminuite

Nonostante il suo rifiuto, l’uomo ha continuato a insistere, a mandarle messaggi e a seguirla nei suoi spostamenti. “Lo vedevo spesso passare davanti casa. Per lo stress ho preso dieci chili, avevo valori sballati nelle analisi del sangue e a livello mentale ero devastata. Avevo tutti i colleghi contro: quando mi è scaduto il contratto, mi hanno lasciata a casa. Non ho fatto denuncia perché anche mio marito lavora nella stessa azienda e temevo ripercussioni: abbiamo una bambina di dieci anni, non potevamo rimanere entrambi senza lavoro”.

Sono ancora tanti i comportamenti e le espressioni percepite come innocui, ma che in realtà sono discriminanti nei confronti delle donne. Ecco perché Hella Network, collettivo di professioniste della comunicazione che si battono per una maggiore inclusività, ha pubblicato la Guida al sessismo nascosto nei luoghi di lavoro: “Il sessismo non si presenta con un segnale luminoso, è nascosto nel nostro quotidiano”, spiega la fondatrice Flavia Brevi. “Ci sono frasi o situazioni che depotenziano la lavoratrice, ma lo fanno in maniera velata”.

Si va dai complimenti fisici al fatto di chiedere più spesso alle donne di portare il caffè o l’acqua, fino all’abitudine di chiamare gli uomini “dottore” e le donne “signora”, a prescindere che siano laureate o meno. “Le donne vengono interrotte più spesso”, spiega Brevi. “E poi c’è il cosiddetto mansplaining, una fusione tra le parole inglesi man ed explaining: l’uomo che in pubblico vuole spiegare quello che sta dicendo una donna, pensando di farlo meglio di lei”.

Tutto questo ha conseguenze concrete: in Italia oggi meno di una donna su due lavora, come mostra il Bilancio di genere 2020 della Ragioneria generale dello stato. Tra le più penalizzate ci sono le mamme: il tasso di occupazione di chi ha un figlio con meno di cinque anni è più basso di oltre il 25 per cento rispetto a quello delle coetanee senza figli.

Le lavoratrici ricoprono solo un terzo delle posizioni a tempo indeterminato, e secondo l’Istat, nel 2018 le donne guadagnavano in media il sei per cento in meno degli uomini, con una differenza di retribuzione che tra i laureati arrivava al 18 per cento. “I dati dimostrano che gli atteggiamenti sessisti hanno una portata distruttiva”, conclude Maria Cristina Bombelli. “Ora le cose stanno cambiando: le nuove generazioni hanno maggiore consapevolezza e non sono più disposte ad accettare certi atteggiamenti. Il ruolo dell’informazione è fondamentale: bisogna far capire che i comportamenti sessisti non sono ‘normali’.

E poi è necessario costruire un luogo sicuro per raccogliere le segnalazioni anonime, istituendo nei codici etici delle aziende la figura del whistleblower, a cui rivolgersi per denunciare eventuali episodi discriminatori, prevedendo anche sanzioni per i casi più gravi. Dal comportamento sessista alla molestia il passo è breve: le donne non possono più rimanere in silenzio”.

Questo articolo è uscito il 9 aprile 2022 a pagina 8 del numero 22 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.

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