“In sala parto l’ostetrica mi faceva muovere in continuazione: dovevo mettermi seduta, sdraiata, a pancia in giù, fare i piegamenti. Non mi dava un attimo di tregua. Io ero stremata, ma ci provavo. Lei però si arrabbiava e mi accusava di non avere fiducia. Mi sentivo sola, il mio compagno non poteva entrare a causa del covid. E poi avevo la mascherina e non riuscivo a respirare. Quando ho chiesto se potevo abbassarla, una ginecologa, rivolgendosi al resto del personale presente in sala parto, ha detto: ‘Queste sceme non si fanno neanche il vaccino e poi vogliono togliersi la mascherina!’. Io però ero vaccinata, mi sono sentita mortificata”.
Benedetta (il nome è di fantasia, come quello delle altre donne che raccontano la loro storia in questo articolo), 36 anni, ha partorito il suo primo figlio nell’agosto del 2021 in un ospedale pubblico di Napoli. La sua ginecologa era in ferie, ma nella struttura c’era la sua équipe di cui lei aveva piena fiducia. “È stato bruttissimo, era come se fossi trasparente”, racconta. “Senza neanche avvisarmi, un ginecologo mi ha fatto una manovra molto dolorosa con il gomito sulla pancia. Mi sono messa a urlare, non ero d’accordo e non capivo quell’urgenza di farmi partorire: ero lì solo da due ore”. Nel frattempo, l’ostetrica le ha fatto l’episiotomia, cioè l’incisione chirurgica del perineo per allargare l’apertura vaginale, e ha usato la ventosa. “Mi ha offeso dicendomi che ero una mamma ingrata, perché l’avevo costretta a tirare fuori la mia bambina in quel modo”, ricorda Benedetta. “Poi è andata da mio marito, che era dietro la porta, e gli ha detto che non ero capace neanche di dare le spinte. Alla fine mi hanno messo più di sessanta punti, tra interni ed esterni. Uscita da là chiedevo persino scusa: pensavo di non essere stata capace, mi sentivo in colpa, piangevo”.
Allora Benedetta non lo sapeva, ma è stata vittima di violenza ostetrica. Atteggiamenti denigratori, pericolose manovre sulla pancia, attesa per ore in reparto senza assistenza, rifiuto di accettazione in ospedale, cesareo senza consenso, interventi chirurgici non necessari: nella violenza ostetrica rientrano tutte quelle pratiche di intervento non motivate da una reale esigenza clinica che possono avere effetti sulla salute psicofisica delle pazienti. Il termine fa riferimento in generale agli abusi nell’ambito delle cure ostetrico-ginecologiche. Non riguarda quindi solo le ostetriche, ma anche i ginecologi, gli anestesisti o altri professionisti sanitari. Spesso si concretizza in un’imposizione di cure o pratiche senza il consenso della donna, senza fornirle adeguate informazioni o contro la sua volontà.
L’Osservatorio italiano contro la violenza ostetrica denuncia che durante la pandemia questo tipo di episodi è aumentato: le conseguenze vanno dalle ripercussioni psicologiche alle lesioni degli organi genitali, fino, nei casi più estremi, ai danni al bambino. La ricerca Imagine Euro, commissionata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in diversi paesi europei, ha valutato la qualità delle cure alle donne durante il parto in ospedale nella prima fase dell’emergenza sanitaria: in Italia, in particolare, lo studio ha coinvolto 4.824 donne che hanno partorito tra il 1 marzo 2020 e il 29 febbraio 2021. Un quarto di loro ha dichiarato di non essere stata trattata con dignità, e il 13 per cento sostiene di aver subìto abusi, con numeri maggiori tra chi vive al sud. Il 44 per cento ha avuto difficoltà a effettuare le visite prenatali di routine e il 39 per cento non si è sentita coinvolta nelle scelte mediche riguardo al parto.
“Mi è arrivata una scarica d’ormoni fortissima: il dolore era atroce, senza che il mio corpo fosse pronto”, racconta Lucia, che ha accettato l’induzione del parto dopo che le si erano rotte le acque senza che cominciasse il travaglio. “Mi hanno fatto una dose eccessiva di epidurale e così sono arrivata in fase espulsiva che non sentivo più il mio corpo, ero completamente anestetizzata, non riuscivo a spingere. Nel frattempo alcune ostetriche a fine turno mangiavano cracker e chiacchieravano sedute di fianco a me: io stavo partorendo, ma era come se non esistessi”. Lucia aveva deciso di partorire in uno tra i più rinomati ospedali di Roma, era il 2 ottobre del 2021. “Molti mesi dopo, non cambia la rabbia che ho provato in quel momento”, dice. “Mi hanno fatto l’induzione, l’epidurale, la ventosa, quattro manovre di pressione sulla pancia. Dopo 47 ore, il mio bambino era in insufficienza respiratoria e non aveva più liquido amniotico: non mi hanno neanche avvisato e mi hanno fatto un cesareo d’urgenza”.
Procedure rischiose
Secondo l’ultimo rapporto sull’evento nascita del ministero della salute relativo all’anno 2020, in Italia il tasso di cesarei è del 31 per cento, contro una media europea inferiore al 25 per cento. C’è comunque una forte variabilità tra regioni: si va dal 20 per cento della provincia autonoma di Trento al 50 per cento della Campania, anche se in alcuni ospedali il tasso arriva anche all’80 o 90 per cento. Molti professionisti sanitari tendono a preferire il taglio cesareo per evitare possibili rischi o per scarsa conoscenza di manovre ostetriche alternative. Il taglio cesareo aumenta però il rischio di mortalità materna o di complicanze potenzialmente fatali per la donna di oltre quattro volte rispetto al parto naturale, anche se in parte questo è dovuto alla patologia che lo ha reso opportuno e non all’intervento in sé.
“A me hanno fatto il cesareo dopo che le spinte erano andate avanti per cinque ore”, racconta Mara, 37 anni, ostetrica e infermiera al pronto soccorso nello stesso ospedale di Trento dove ha partorito a gennaio 2022. “L’ostetrica che mi seguiva mi diceva che non mi impegnavo abbastanza e teneva la mano nella mia vagina per divaricarla e portarmi a spingere di più. Non ho mai visto una cosa così, è una manovra non scientifica. Mi sono sentita violata”. La testa del bambino però non scendeva e così è stata aumentata la dose di ossitocina, ormone che stimola le contrazioni. “È una procedura rischiosa quando si superano certe quantità: io non ero d’accordo, ma nessuno mi ascoltava, così mi sono strappata via la flebo”, dice Mara. “Dopo che mio figlio è nato, ci siamo resi conto che nella pancia non era in una posizione corretta: potevo spingere anche per un giorno, non sarebbe mai uscito”.
Alla fine del 2021 la relatrice speciale dell’Onu sul diritto alla salute, Tlaleng Mofokeng, ha evidenziato in un report l’aumento della violenza ostetrica da quando è cominciata la pandemia. “L’emergenza sanitaria ci ha fatto capire quanto i diritti delle donne durante il parto siano fragili”, dice Elena Skoko, fondatrice dell’Osservatorio italiano contro la violenza ostetrica. “Gli ospedali spesso non si sono attenuti alle indicazioni dell’Oms, che stabilivano la presenza di un accompagnatore in sala parto, la non separazione della madre dal bambino e la continuazione dell’allattamento. Una volta entrata in ospedale, la donna non poteva scegliere più nulla, doveva solo obbedire”. È stata riscontrata anche una maggiore propensione alla medicalizzazione e a interventi come l’induzione farmacologica del parto, l’episiotomia e la manovra di Kristeller, che consiste nell’applicare una pressione con il gomito sul fondo dell’utero durante la contrazione per favorire l’espulsione. L’Oms definisce entrambe le pratiche “non raccomandate”.
“La violenza ostetrica si basa su due opposti”, spiega l’avvocata Alessandra Battisti, che difende donne che hanno subìto abusi durante il parto. “Da un lato c’è l’ipermedicalizzazione e l’eccessivo interventismo, dall’altro la carenza assistenziale, con donne lasciate sole per ore. In ogni caso non è rispettato il criterio dell’appropriatezza dell’intervento: un intervento non necessario che viene effettuato viola il diritto alla salute tanto quanto un intervento necessario che non è realizzato. Il filo conduttore è che la donna non viene presa in considerazione e non viene ascoltata”.
Un problema sistemico
L’indagine Doxa, realizzata nel 2017 dall’Osservatorio sulla violenza ostetrica su un campione di circa cinque milioni di donne con almeno un figlio con meno di 14 anni, rimane la più esaustiva nel nostro paese sul tema. I dati raccolti mostrano che dal 2003 al 2017 oltre un milione di donne ha subìto violenza ostetrica. Più della metà ha subìto l’episiotomia, anche se il 61 per cento non aveva dato il consenso informato. Ragazze adolescenti, donne sole, migranti e persone con patologie o disabilità sono state le più esposte. Parallelamente, la campagna #bastatacere ha raccolto centinaia di testimonianze: dopo un parto traumatico alcune donne riportano lesioni invalidanti agli organi genitali, non riescono ad avere rapporti sessuali per mesi o decidono di non avere altri figli.
“La mia è una storia di abbandono: le persone erano cortesi, ma solo di facciata”, racconta Anna, che ha partorito nel 2014 in una clinica privata di Roma. “Mi hanno portato in sala parto alle nove di mattina, mi hanno attaccato alla macchina del monitoraggio e non mi hanno più detto niente fino alle undici di sera. Ogni ora l’ostetrica arrivava, metteva le mani dentro la vagina e faceva la faccia scocciata perché non mi dilatavo. Di notte sono arrivata alle spinte finali: avevo dolori pazzeschi, tremavo sempre di più e nessuno mi aiutava. Quando si sono accorti che avevo la febbre a 39, la stanza si è riempita: sono arrivati l’anestesista, la ginecologa, le ostetriche. Mi hanno subito portato in sala operatoria per un cesareo d’urgenza: quando ho visto mia figlia per la prima volta ero talmente scioccata che non mi sono neanche emozionata”.
Mi hanno fatto l’induzione, l’epidurale, la ventosa e quattro manovredi pressione sulla pancia
Già nel 2015 l’Oms aveva pubblicato una dichiarazione sottolineando che in tutto il mondo molte donne, durante il parto in ospedale, fanno esperienza di trattamenti irrispettosi e abusanti. Nel 2019 le Nazioni Unite hanno riconosciuto la violenza ostetrica come una “forma di violenza di natura sistematica e diffusa”, chiedendo misure di compensazione alle vittime e formazione specifica del personale sanitario. A seguito di questo, anche il consiglio d’Europa ha adottato la prima risoluzione per contrastare la violenza ostetrica, invitando i parlamenti nazionali a discutere della salvaguardia dei diritti delle donne durante la gravidanza e il parto. Nel frattempo la White ribbon alliance, un’organizzazione internazionale che tutela la salute delle madri e dei neonati, ha steso la Carta dell’assistenza rispettosa della maternità, tradotta in diverse lingue, che enuncia i dieci diritti fondamentali delle donne durante il parto. Ma anche le persone più consapevoli e preparate possono comunque diventare vittime di violenza ostetrica.
“Anche se avevo solo 26 anni quando ho avuto il mio primo figlio, ero informatissima”, racconta Valeria, che ha partorito in un ospedale in Toscana nel 2008. “Ero stata seguita da un’ostetrica competente e mi sentivo tranquilla: il primo campanello d’allarme è stato che non l’hanno voluta in sala parto. Il travaglio è durato 23 ore. Mi hanno costretto a mettermi a pancia in su, una posizione che aumentava molto i dolori, ma permetteva a loro di stare comodi e vedere bene. Io mi opponevo con foga alle manovre che mi volevano fare e così mi hanno tenuta ferma in tre e mi hanno dato due schiaffi. Mi hanno divaricato le gambe e hanno proceduto con la dilatazione a mano. Alla fine mi sono lacerata: mi hanno messo i punti senza neanche farmi l’anestesia”. Dopo il parto, la bambina ha riportato un trauma dietro al collo, mentre Valeria aveva un prolasso intestinale, dell’utero, della vescica e dell’uretra. Ha sofferto di perdite urinarie, orgasmi dolorosi e perdite di sangue dalla clitoride. “Due chirurghi mi hanno detto che c’erano evidenti danni per via delle procedure che mi erano state fatte, ma entrambi non erano disposti a testimoniare se avessi deciso di denunciare”, dice. “Mi sentivo in frantumi: ogni volta che parlavo del parto mi mettevo a piangere e a tremare come una foglia. Solo dopo tre anni ho cominciato a stare meglio”.
Spazi di dialogo
Per permettere alle donne di segnalare gli abusi, l’Osservatorio italiano sulla violenza ostetrica Italia ha chiesto di potenziare i meccanismi di segnalazione interni agli ospedali e istituire sistemi di feedback. “In Italia le strutture sanitarie non sono aperte nei confronti delle associazioni e dei gruppi di donne”, spiega Elena Skoko. “Servono spazi di dialogo e di confronto, per andare insieme verso l’obiettivo comune del benessere della persona”. Denunciare la violenza ostetrica è ancora molto complesso, e in poche intraprendono questa strada. Le donne potrebbero procedere in sede penale o con un’azione civile per chiedere un risarcimento del danno, oppure con una lettera di segnalazione formale alla direzione sanitaria dell’ospedale.
“Una causa va supportata da documentazione e perizie, e questo comporta dei costi. Per le donne è un percorso molto faticoso e doloroso”, spiega Alessandra Battisti. “In più, espressioni verbali denigratorie o offensive sono quasi impossibili da dimostrare, perché quasi sempre non ci sono le prove. I danni sul corpo della donna causati da interventi inappropriati vengono giustificati con la necessità di tutelare la vita del bambino. In Italia c’è ancora l’idea che la donna che partorisce debba soffrire, come se la maternità fosse naturalmente un percorso di dolore: manca la consapevolezza al diritto di vivere il parto come un’esperienza positiva”.
È quello che è successo a Clara, che ha partorito nel 2005 a Roma: la sua bambina era molto grande e l’uscita è stata faticosa. “Ricordo che il ginecologo mi disse: ‘Voi volete fare i figli e poi non sapete partorirli’”, racconta. “La spinta finale mi ha provocato una lacerazione da 40 punti tra interni ed esterni. L’ostetrica mi stava facendo ricucire da una specializzanda, che sbagliava in continuazione e mi faceva male. Mi sono lamentata e alla fine è stata redarguita e allontanata dalla sala parto”. Il giorno dopo, Clara aveva un problema di emorroidi ed è arrivata ad aiutarla la stessa ostetrica. “Per vendicarsi , mi ha infilato le mani nella vagina che era già lacerata, non posso descrivere quello che ho provato”, racconta. “Ho avuto solo la forza di dire a denti stretti: ‘Mi fa male dietro, non davanti’. L’ho vissuto come uno stupro. Diciassette anni dopo, ancora ricordo il nome e la faccia di quell’ostetrica, ma non ho mai pensato di denunciare: come dimostro quello che mi ha fatto? È la mia parola contro la sua”.
A fronte dell’indagine svolta dall’Osservatorio italiano sulla violenza ostetrica Italia, l’Associazione degli ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi) ha risposto esprimendo perplessità rispetto alle fonti utilizzate. La responsabilità comunque non è solo degli operatori sanitari: le condizioni di lavoro stressanti, la mancanza di formazione e le scarse risorse del sistema sanitario peggiorano il problema. Inoltre, la mancanza di supporto e di supervisione contribuiscono alle attitudini negative del personale.
“La violenza ostetrica è un problema di sistema”, spiega Niccolò Giovannini, ginecologo della clinica Mangiagalli di Milano. “L’aziendalizzazione degli ospedali ha portato un mestiere come quello medico, che prima era un’arte, all’interno di un sistema di produttività. L’attenzione è tutta concentrata sull’evitare il caso avverso: la donna incinta è vista come un luogo dove potenzialmente può avvenire un delitto”. I sanitari allora fanno di tutto per proteggersi da eventuali cause legali, il che porta a un’eccessiva medicalizzazione del parto. Questo meccanismo finisce per provocare complicanze, perché spesso inceppa i meccanismi biologici della donna. “L’unica soluzione è quella di uscire da un modello di produttività corporativa e passare a un modello di attenzione verso il singolo”, dice Giovannini. “Solo così la donna tornerebbe a essere considerata come un essere umano unico, da ascoltare e da rispettare”.
Per fortuna qualcosa sta lentamente cambiando. Nel sistema sanitario nazionale, a seguire le donne con gravidanze a basso rischio oggi sono le ostetriche e non più i ginecologi, e solo se subentra una qualche patologia viene coinvolto un medico. Anche l’approccio del personale è sempre più attento alla sfera emotiva e psicologica e non solo a quella fisica. “Trent’anni fa la formazione delle ostetriche era molto più pragmatica”, spiega Gloria Ceccherini, ostetrica che ha lavorato in sala parto e che oggi si occupa di gruppi di donne nella Scuola elementale di arte ostetrica Rise di Firenze e nel centro maternità e nascita Melograno di Bologna.
“Oggi, anche dopo la laurea, le ostetriche continuano a formarsi attraverso corsi integrativi e di aggiornamento, che vanno sempre più verso un approccio attento alla natura e alla fisiologia”. Anche alcuni ospedali si stanno adattando: c’è chi ha allestito spazi dove si usano tecniche di medicina cinese, posizioni antalgiche, massaggio e digitopressione. Altri danno la possibilità di partorire in acqua in una vasca riscaldata, per attenuare il dolore e favorire la dilatazione. È in crescita anche il parto in casa o nelle case maternità, strutture extraospedaliere affidate a ostetriche: a Torino, Reggio Emilia e Modena, per il parto a domicilio è prevista l’assistenza gratuita del personale sanitario. “Quello dell’ostetrica è un mestiere antico, che custodisce saperi che stiamo recuperando”, conclude Ceccherini. “È uno stare nella medicina in maniera meno aggressiva e più femminile: il nostro obiettivo deve restare quello di accompagnare la donna nel suo viaggio verso il bambino, con capacità di ascolto e di accoglienza”.
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