“Nascere con genitali maschili non significa essere uomini: c’è un lavoro di educazione al genere che comincia fin dai primi giorni di vita, a partire dal fiocco celeste o rosa”. Giuseppe Burgio insegna pedagogia all’università di Enna Kore ed è l’autore di Fuori binario. Bisessualità maschile e identità virile (Mimesis 2021).
“Fin da piccoli ci si rivolge ai maschi in modo diverso dalle femmine: si tende a essere più duri e a usare un linguaggio più diretto. Anche i giochi per bambini, come le armi finte o le macchinine, sono pensati per rafforzare i tratti di virilità e aggressività che appartengono all’immagine tradizionale dell’uomo”.
Se le donne già dagli anni settanta, grazie ai gruppi femministi, hanno avviato una riflessione sugli stereotipi e hanno creato narrazioni alternative sulla femminilità, gli uomini fanno ancora fatica a discutere di maschilità plurali e a trovare modelli che scardinino i tradizionali cliché. Qualcuno però ci sta provando: in tutta Italia diversi gruppi di autocoscienza maschile creano spazi dove praticare la condivisione e l’autoriflessione, al di fuori di ogni giudizio.
“Chi di noi non si è mai sentito dire la famosa frase ‘non piangere che sembri una femminuccia’?”, si chiede Marco Forlani, uno dei fondatori del Gruppo nonviolento di autocoscienza maschile (Gnam) di Milano. “L’ho sempre percepito come un ingabbiamento: dietro quella frase c’è la convinzione che se sei un vero uomo devi controllare le tue emozioni e tenere per te i sentimenti. Ecco perché ho sentito il bisogno di parlare con altri uomini, condividendo quello che sento, bello o brutto che sia”.
Lo Gnam è nato all’inizio degli anni novanta dall’iniziativa di un gruppo di amici che si erano conosciuti all’interno dei movimenti pacifisti e che non si riconoscevano nel modello dell’uomo forte. “Ci trovavamo intorno a un tavolo, mangiavamo e dopo cena ognuno di noi raccontava qualcosa di sé”, continua Forlani. “A distanza di trent’anni gli incontri funzionano ancora così: si tratta di uno spazio sicuro, dove possiamo esprimerci in massima libertà”.
Se una ragazzina gioca a calcio è vivace, se un ragazzino fa danza c’è qualche problema
Quella delle emozioni è una questione centrale quando si parla di ruoli di genere: l’università olandese di Tilburg ha fatto uno studio sul pianto, considerato nella nostra società il simbolo della vulnerabilità femminile. La ricerca ha coinvolto più di cinquemila persone di 37 paesi e ha mostrato che le donne piangono in media dalle 30 alle 64 volte all’anno, mentre per gli uomini il numero scende tra 6 e 17.
Lo psicologo americano Ronald Levant ha avanzato l’ipotesi dell’alessitimia normativa maschile, una condizione non patologica per cui gli uomini sarebbero mediamente meno in grado di identificare le proprie emozioni, perché incoerenti con il proprio ruolo di genere.
“Nella fase della pubertà, d’un tratto i ragazzini passano da un modello educativo prevalentemente materno, empatico e accudente, a quello paterno”, spiega Giuseppe Burgio. “Improvvisamente si pretende che non esprimano più paura, incertezza o tristezza, che si sappiano difendere da soli con i compagni, che non stiano più in cucina con la mamma a preparare da mangiare: da una certa età in poi, i comportamenti considerati femminili producono il timore dell’omosessualità. Se una ragazzina gioca a calcio è vivace, se un ragazzino fa danza c’è qualche problema”.
Omofobia interiorizzata
Dagli anni novanta a oggi l’omofobia in occidente è calata costantemente, in particolare tra le nuove generazioni. Eppure esistono ancora forti resistenze, e anche gli uomini con posizioni molto progressiste possono conservare automatismi e retaggi di una cultura omofoba. “Ricordo un giorno in cui ho visto mio figlio che giocava con le bambole: nonostante fossero anni che frequentavo il gruppo Gnam, ci sono rimasto male”, racconta Marco Forlani. “E poi ho sempre evitato il rosa: quest’anno, per reazione, ho comprato un’agenda proprio di quel colore”.
Sono espressioni di un’omofobia interiorizzata, di cui non sempre ci si accorge e che deriva dal contesto culturale in cui si è cresciuti. “Quando ho scoperto di essere omosessuale non l’ho detto subito al gruppo, perché avevo paura di essere discriminato”, racconta Giorgio Volpe, che ha fatto parte dello Gnam per quattro anni. “Io stesso, influenzato dalla cultura cattolica tradizionalista dei miei genitori, ero molto infastidito dall’omosessualità, che consideravo un disturbo mentale o una perversione”.
Il gruppo di autocoscienza maschile più diffuso sul territorio italiano è Maschile plurale, presente in venti città con circoli di consapevolezza e attività di sensibilizzazione e di educazione nelle scuole. “Io venivo dal mondo lgbt+ e vedevo l’eterosessualità come tossica”, racconta Sandro Casanova, che fa parte del gruppo bolognese dal 2006. “Quando ho scoperto Maschile plurale, ho messo in discussione i miei pregiudizi: ho capito che ci può essere una mascolinità divergente anche nell’eterosessualità”.
Gli incontri con gli altri uomini hanno permesso a Sandro di riflettere sui suoi privilegi, e anche sui meccanismi di paternalismo interiorizzato, che derivano da una cultura machista. “Oggi lavoro come bibliotecario”, dice. “Se arriva un utente e si rivolge alla mia collega, a volte intervengo o rispondo prima di lei, quando invece sarebbe capacissima di farlo da sola. È più forte di me. Prevarico, poi mi osservo e me ne rendo conto: non si smette mai di imparare”.
Nel 2019 l’Istat ha diffuso la prima ricerca sugli stereotipi di genere in Italia. Il più comune è quello secondo cui per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro, un’affermazione considerata vera da un italiano su tre. C’è poi l’idea che gli uomini siano meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche e che l’uomo debba provvedere alle necessità economiche della famiglia. Questi preconcetti sono più radicati nel meridione e nelle isole, e risultano più diffusi tra le persone più anziane e meno istruite.
“Nella nostra associazione discutiamo spesso del paternalismo, una modalità molto sottile per svalutare la donna e considerarla inferiore”, dice Domenico Matarozzo del Cerchio degli uomini di Torino, associazione che da 23 anni organizza gruppi di consapevolezza maschile, cerchi di riflessione per padri, interventi sociali e incontri nelle scuole.
“Questo atteggiamento è talmente diffuso a livello sociale, culturale e politico, che sembra quasi positivo, come se fosse sinonimo di galanteria: si parte dall’aprire la porta alla propria compagna e si arriva al non accettare che abbia un punto di vista diverso dal nostro. Ecco che il paternalismo può sfociare in competizione, una gara a chi alza di più la voce, fino alla prevaricazione e alla violenza, quando la donna si ribella al potere che le si impone”.
Il corpo maschile è narrato come una macchina perfetta che non può permettersi intoppi
Il Cerchio degli uomini di Torino ha attivato anche un centro d’ascolto per uomini maltrattanti, con percorsi di sostegno per uscire da comportamenti prevaricatori e violenti. Gelosia, possessività e controllo sono però atteggiamenti che, a livello sociale, hanno ancora una legittimazione: secondo i dati Istat, il 18 per cento degli italiani ritiene accettabile che un uomo controlli abitualmente il cellulare o l’attività sui social network della compagna, il sette per cento accetta che un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha flirtato con un altro uomo e il sei per cento che in una coppia scappi uno schiaffo ogni tanto.
“Una notte sono stato violento con la mia compagna, le ho strappato le mutande: volevo farle paura”, racconta Massimo (il nome è di fantasia), che da otto anni segue un percorso al Centro d’ascolto per uomini maltrattanti di Ferrara, uno dei tanti centri per uomini violenti che si trovano in varie città italiane. “Grazie al dialogo con altri uomini, ho imparato a non avere sempre bisogno di replicare e di avere l’ultima parola. Ho imparato ad essere più paziente e ad ascoltare la mia compagna nelle sue esigenze. La questione maschile e quella femminile sono due facce della stessa medaglia”.
Anche l’associazione Lui di Livorno organizza percorsi per chi tiene comportamenti violenti, oltre che gruppi di autocoscienza maschile e per neo o futuri padri, e attività nelle scuole. “Fin dalla scuola, i ragazzi sindacano sul modo di vestirsi della propria fidanzatina”, racconta Gabriele Lessi, tra i fondatori dell’associazione. “Anche nella fase del corteggiamento, molti comportamenti considerati normali dimostrazioni di apprezzamento sono in realtà episodi di stalking, quando la donna dà palesi segnali di rifiuto che vengono ignorati: c’è ancora l’idea che, se la ragazza dice no, non significa che non voglia”.
Ansia da prestazione
Per quanto riguarda la sfera della sessualità, persiste il mito dell’uomo costantemente desiderante, con un approccio doveristico nei confronti della donna. Un modello che aumenta l’ansia da prestazione: gli uomini, anche quando sono giovani e non hanno patologie, fanno sempre più uso di farmaci e parafarmaci, visti come garanzia di una performance impeccabile.
“Dopo la fine di una lunga relazione ho iniziato ad avere rapporti occasionali ed è cresciuta in me l’ansia di non riuscire a mantenere l’erezione”, racconta Roberto (il nome è di fantasia). “Noi uomini siamo visti come macchine che devono avere un continuo appetito sessuale e la capacità di portarlo a termine. Ne ho parlato con il mio psicologo, che mi ha prescritto un farmaco: avevo 34 anni e non avevo disfunzioni fisiche, ma con quelle pillole mi sono sentito sicuro. Le ho nascoste in un cassetto e non ne ho mai parlato con i miei amici, per paura che mi giudicassero”.
Il corpo maschile viene ancora narrato come un corpo sano e forte, una macchina perfetta che non può permettersi intoppi e che non ha bisogno di manutenzione: anche preoccuparsi della propria salute o della propria alimentazione è considerato devirilizzante. “L’incidenza delle malattie infettive, croniche e di infarto è più alta negli uomini che nelle donne, anche per questioni culturali”, spiega Maria Pacilli, professoressa di psicologia sociale all’università di Perugia e autrice del volume Uomini duri. Il lato oscuro della mascolinità (Il Mulino 2020).
“Esistono vari comportamenti su cui si gioca la prova della mascolinità: mangiare in modo sregolato, abusare di tabacco e alcol, correre in auto o praticare sport estremi. Quando poi sorge un problema fisico o psicologico, il fatto di chiedere aiuto è considerato poco virile”.
Parallelamente, oggi si nota un’attenzione sempre maggiore da parte degli uomini nella cura dell’estetica del corpo: abbronzatura, tatuaggi, taglio di capelli, fa tutto parte della costruzione dell’immagine esterna di sé. Una ricerca condotta da Eumetra mostra che il 44 per cento degli italiani si depila, oltre al viso, anche altre zone.
Un sondaggio di Nutrimente, associazione per la prevenzione e la cura dei disturbi alimentari, rileva che il 41 per cento degli uomini desidera avere addominali scolpiti, il 22 per cento predilige gambe e braccia definite, e il 18 per cento vuole più genericamente aumentare la massa muscolare.
“Un tempo la cura del corpo veniva immediatamente associata alla femminilità e all’omosessualità”, dice Stefano Ciccone di Maschile plurale. “Da una parte questo è simbolo di un cambiamento, dall’altra parte si ripropone l’idea del corpo come strumento, come prestazione, come arma”.
Congedo paternità
Anche la paternità è un altro terreno di ambiguità tra passato e presente: oggi gli uomini trascorrono molto più tempo con i figli, li accompagnano a scuola, li portano al parco, ma questo nuovo modo di essere padre non trova una sua rappresentazione. “Quando il governo Conte ha provato ad allungare la durata del congedo di paternità, la destra è insorta dicendo: ‘Ci volete trasformare in mammi’”, dice Ciccone.
Da un lato quindi c’è il desiderio degli uomini di vivere la paternità in modo diverso, dall’altro la società non dà spazio a questo cambiamento. “In azienda ho visto reazioni di spaesamento quando ho preso alcuni permessi per stare con mio figlio”, racconta Andrea Santoro, presidente del Cerchio degli uomini di Torino. “In particolare, i problemi maggiori li ho avuti quando ho chiesto il part time: la famiglia non è un elemento che viene preso in considerazione quando si parla di un lavoratore uomo”.
La ricerca Papà, non mammo, realizzata da Ipsos per WeWorld, mostra che l’uso del congedo di paternità – attualmente di massimo dieci giorni – è diffuso soprattutto tra i padri più giovani: sono sei su dieci a farvi ricorso, mentre unpadre lavoratore su quattro dichiara di aver scelto di non usufruirne. Sei padri su dieci oggi pensano che la sua durata sia troppo breve.
“Nella chat della scuola dei miei figli ci sono due padri su 25 bambini, tutte le altre sono mamme”, racconta Gabriele Lessi. “Sono stato io a occuparmi dell’inserimento al nido: ero l’unico uomo in mezzo alle madri. Mi hanno chiesto: ‘Come mai lo fai tu?’. Era vista come una cosa inusuale, che destava curiosità e a volte anche qualche domanda eccessiva”.
Anche nella rappresentazione della paternità al cinema, in tv o nelle serie, solo recentemente sono state messe in scena figure di padri affettivi e accudenti, anche se questo avviene quasi sempre in situazioni eccezionali o in assenza della madre, che se n’è andata, è malata o è morta. “Non ci sono figure compiute di papà in situazioni di quotidianità”, spiega Luisa Stagi, sociologa dell’Università di Genova e autrice di Nel nome del padre. Paternità, conflitti e governo della famiglia neoliberale (Ombre Corte 2015).
“Nei film in cui i padri soli devono crescere il bambino si racconta una parabola di educazione sentimentale che gli uomini devono percorrere per imparare la cura. C’è un susseguirsi di eventi che vanno male e che li portano infine a toccare il fondo: il culmine è segnato dal pianto, che a livello simbolico rompe il confine tra maschile e il femminile. Questa narrazione ci fa capire che la società non è ancora matura per mettere in scena una maschilità di tipo diverso”.
La crisi del modello tradizionale maschile, in assenza di rappresentazioni di tipo diverso, finisce per fomentare le paure degli uomini di perdere il proprio ruolo sociale, e a volte porta a reazioni misogine di ritorno: “I partiti sovranisti parlano dell’importanza della famiglia tradizionale e dell’uomo forte, strumentalizzando le paure degli uomini”, dice Stefano Ciccone.
“Esiste un vittimismo maschile che racconta il femminismo e le battaglie per le pari opportunità come ostili contro gli uomini. I padri separati, che mettono in piazza la propria sofferenza, solitudine e frustrazione, sono il segno di un cambiamento, ma allo stesso tempo le associazioni che li rappresentano incanalano questa sofferenza in spinte revanchiste, misogine e reazionarie”.
E poi c’è la cosiddetta manosphere (letteralmente ‘maschio-sfera’), che comprende tutti quei siti, blog e forum frequentati da uomini (prevalentemente bianchi e eterosessuali), che discutono, a volte in maniera violenta, di relazioni di genere e di problemi legati alla mascolinità. “Oggi il modello patriarcale è in crisi, così come gli uomini che lo seguono”, conclude Ciccone. “La chiave sta nel trovare ciascuno il proprio modo di essere uomo: solo così questa crisi può trasformarsi in una possibilità di reinventare nuovi modelli di maschilità, al plurale”.
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