“Il mio ex compagno non voleva che andassi a lavorare e che avessi soldi miei, poi ha cominciato a togliermi il bancomat: era il suo modo di controllarmi. Non sapevo più come pagare le spese, così una notte me ne sono andata: con le mie tre figlie mi sono trasferita a casa dei miei genitori anziani, non avevo altra scelta. Adesso viviamo in sei in un appartamento: mancano lo spazio e la privacy, il rapporto tra noi si è complicato sempre di più”.
Roberta (il nome è di fantasia, come quello delle altre donne citate in questo articolo che hanno cercato una via d’uscita da una relazione violenta) ha quasi 50 anni e viene dalla periferia di Roma. Dopo essersi rivolta a un centro antiviolenza, ha fatto domanda per il contributo di libertà della regione Lazio per le donne che si trovano in una situazione simile e ha ricevuto cinquemila euro come sostegno al reddito. “Con quei soldi avrei voluto affittare una casa, ma non ci sono riuscita perché non ho una busta paga né altre garanzie”, racconta. “Ora mi trovo in un limbo: che tutele ci sono per donne che trovano il coraggio di denunciare? Lo stato dove sta quando abbiamo bisogno di una casa e un lavoro per ricominciare?”.
Secondo l’Istat, il 38 per cento delle donne inserite in un percorso di uscita dalla violenza ha subìto anche quella economica. Si tratta di una forma di abuso poco riconosciuta: un’indagine realizzata dall’associazione Differenza donna su un campione di 284 donne mostra che solo il 20 per cento racconta già nel primo colloquio di averla subita, mentre durante i successivi incontri il dato sale all’80 per cento.
“L’abuso finanziario è spesso mascherato come forma di cura e preoccupazione da parte del partner”, spiega Simona Lanzoni, vicepresidente della fondazione Pangea e coordinatrice della rete nazionale antiviolenza Reama, che ha aperto lo sportello Mia Economia sulla violenza economica. “L’uomo si offre di gestire le finanze della donna in quanto ‘più esperto’, oppure le suggerisce di lasciare il lavoro per non farla ‘faticare’ o per permetterle di prendersi cura della famiglia. Nel tempo, si crea una situazione di totale dipendenza e infantilizzazione”.
Nell’audizione alla commissione lavoro della camera dell’8 febbraio 2022, Linda Laura Sabbadini, della direzione dell’Istat, ha spiegato che “la mancanza di indipendenza economica sembra costringere le donne a subire la violenza per periodi più lunghi”. Il 60 per cento delle donne inserite in percorsi protetti non ha autonomia finanziaria, quota che sale al 69 per cento se si considera la fascia tra i 18 e i 29 anni. “Molte non hanno un lavoro né un posto dove andare”, racconta Lanzoni. “Gli aiuti previsti dallo stato sono legali, psicologici, e solo in ultimo economici. Eppure è fondamentale supportarle in un percorso di autonomia fin dall’inizio: senza un impiego e un conto in banca, come possono ricominciare a vivere?”.
“Non sono state adottate linee guida nazionali per valutare lo stato di bisogno delle richiedenti”, spiega Mariangela Zanni
L’indagine Diritti in bilico di ActionAid mostra che dal 2015 al 2022 l’Italia ha speso circa 157 milioni di euro per supportare percorsi di uscita dalla violenza, di cui circa 20 milioni in misure di sostegno al reddito, 124 milioni in progetti di inserimento lavorativo e 12 milioni per favorire l’autonomia abitativa. Eppure gli strumenti adottati sono considerati frammentari e inadeguati. “Le istituzioni nazionali e regionali continuano a finanziare singoli progetti e non politiche strutturali”, spiega Isabella Orfano, coordinatrice dell’indagine di ActionAid. “Si va dalle attività di orientamento al lavoro ai tirocini malpagati, dal microcredito per avere prestiti a tasso agevolato ai voucher per il parziale pagamento di affitti o caparre. La scelta di delegare questi interventi alle regioni rischia di ampliare i divari territoriali: mancano linee guida comuni sui servizi minimi da garantire alle donne. E questo perpetua le disparità di accesso”.
Pochi fondi per molte domande
Per rispondere ai nuovi bisogni nati con l’emergenza sanitaria, nel maggio 2020 il decreto rilancio ha istituito il reddito di libertà: per la prima volta, il governo ha introdotto un sostegno economico su base nazionale destinato alle donne che cercano di uscire da una situazione di violenza e si trovano in condizione di povertà, per favorirne l’indipendenza economica e i percorsi di autonomia. Si tratta di un contributo di 400 euro al mese per un massimo di dodici mesi: diventato operativo solo nel novembre 2021, è stato reso strutturale dalla legge di bilancio approvata il 30 dicembre 2021. Per il periodo tra il 2020 e il 2022 la misura è stata finanziata con 12 milioni di euro, di cui possono beneficiare al massimo 2.500 donne: un numero ridotto, se si considera che secondo l’Istat ogni anno sarebbero circa 21mila le persone inserite in percorsi di uscita dalla violenza che avrebbero i requisiti per accedervi.
I dati raccolti dall’Inps mostrano che nel solo 2020 sono arrivate 3.283 richieste e che i contributi erogati sono stati appena 600. Le regioni con il più alto numero di domande accolte in termini assoluti sono la Lombardia (101), la Campania (70) e la Sicilia (57), mentre in percentuale i territori con più richieste inevase rispetto al totale sono stati Umbria e Puglia (88 per cento), Emilia-Romagna (87 per cento) e Piemonte (86 per cento). In nessuna regione, comunque, i contributi sono bastati a soddisfare le domande ricevute.
“Non sono state adottate linee guida nazionali per valutare lo stato di bisogno delle richiedenti”, spiega Mariangela Zanni, presidente del Centro Veneto Progetti Donna e consigliera dell’associazione nazionale Donne in rete contro la violenza (D.i.Re), che in Italia raccoglie più di cento centri antiviolenza e più di 50 case rifugio. “Oggi vige il principio del ‘chi prima arriva meglio alloggia’: le donne possono fare domanda e risultare idonee, ma una volta finiti i fondi non otterranno comunque il contributo. E anche per le poche che ce la fanno, la cifra non è sufficiente per pagare un affitto, le utenze e le spese quotidiane, oltre al fatto che dodici mesi non sono abbastanza per ricostruirsi una vita”.
Chi può, fa ricorso anche ad altre misure di supporto alle famiglie, come i bonus per l’affitto o per le bollette, o di contrasto alla povertà, come il reddito di cittadinanza, che dal 2024 sarà abolito e sostituito con un nuovo sussidio: soluzioni che però non sempre sono percorribili, anche a causa dei requisiti di accesso. Tra questi c’è l’Isee, un indicatore poco affidabile perché fa riferimento all’anno precedente: molte donne uscite da poco da una relazione violenta non riescono a produrre una dichiarazione separata da quella del maltrattante, e per questo non hanno accesso ad alcuni servizi di assistenza sociale.
È successo a Caterina, che alcuni mesi fa ha lasciato il compagno violento, si è licenziata e dal nord si è trasferita a Roma insieme alle due figlie. Per ricominciare vorrebbe chiedere il reddito di cittadinanza, ma il suo Isee risulta troppo alto, perciò oggi non ha accesso a misure di sostegno e deve pagare per intero la mensa della bambina che frequenta la scuola elementare. Per il momento vive insieme alla sorella e alle figlie in un edificio occupato, e ha trovato un lavoro in nero come donna delle pulizie. Nel frattempo ha fatto domanda per il reddito di libertà, ma ancora non ha ricevuto risposta.
Le regioni si muovono in ordine sparso
Sulle misure di sostegno al reddito, alcune regioni si erano mosse già prima del governo nazionale: con il “reddito di dignità” la Puglia nel 2016 ha attivato percorsi specifici per le donne in uscita dalla violenza, includendole nelle misure di contrasto alla povertà. Nel 2018, la Sardegna è stata la prima ad adottare un reddito di libertà regionale, che consiste in un sussidio mensile di un minimo di 780 euro per massimo tre anni. Nello stesso anno, il Lazio ha istituito il “contributo di libertà”, destinando alle beneficiarie un massimo di cinquemila euro una tantum. Anche il Molise e il Veneto hanno tentato di andare nella stessa direzione: nel primo caso, è stato depositato un progetto di legge che ancora non è stato approvato, mentre nel secondo la proposta di un reddito di libertà regionale non è stata accolta. Il Veneto, però, come la Puglia, garantisce supporto economico alle donne in uscita dalla violenza attraverso lo strumento di contrasto alla povertà.
Tra le altre regioni, l’Abruzzo assicura un sostegno economico attraverso i servizi sociali territoriali, la Campania ha erogato contributi per un periodo massimo di un anno per coprire le spese necessarie ad allontanarsi dal maltrattante, mentre il Friuli-Venezia Giulia e l’Emilia-Romagna hanno messo a disposizione risorse aggiuntive per potenziare il reddito di libertà nazionale. “Spesso i criteri di accesso tra la misura nazionale e locale sono diversi, escludendo alcune fasce e creando disparità tra territori”, continua Isabella Orfano. “La frammentarietà degli interventi e l’assegnazione dispersiva delle risorse non consentono di valutare l’efficacia di questi strumenti, né di rilevare i reali bisogni nelle singole regioni”.
Ripartire dal lavoro e dalla casa
Per lasciare la casa del maltrattante serve un reddito, eppure nel 2021 solo il 40 per cento delle donne accolte nelle strutture antiviolenza aveva un’occupazione. “Per favorire l’inserimento lavorativo sono proposti tirocini, borse lavoro, corsi di formazione, attività di orientamento e tutoraggio, che spesso però non riescono a soddisfare i bisogni specifici di chi esce da una relazione violenta”, osserva Federica Scrollini, operatrice del centro antiviolenza BeFree di Roma. “Per le mamme sole, per esempio, c’è il problema dell’accesso agli asili nido: laddove le strutture pubbliche non hanno abbastanza posti, è necessario rivolgersi ai privati, che però costano molto. E poi c’è la questione degli spostamenti: tante non possono permettersi un’auto e questo gli impedisce di accettare impieghi nelle aree dove i trasporti pubblici sono carenti”.
Collegato al problema del lavoro c’è quello della casa: le donne che escono da una relazione violenta spesso fanno fatica a pagare una caparra o un affitto, ancor peggio un mutuo. Ecco perché hanno una probabilità quattro volte superiore di vivere situazioni di disagio abitativo: sono costrette a traslochi frequenti, abitano in stanze in nero, subiscono sfratti o si trovano a vivere in alloggi sovraffollati, in alcuni casi insieme ai figli.
Alcune finiscono anche nei dormitori per persone senza dimora: è il caso di Carmela, che a più di 50 anni si è trovata a essere ospitata in una struttura per senzatetto a Roma, dopo essersi allontanata da casa in seguito all’ennesima aggressione del partner. “Quando ci ha contattato, Carmela non aveva un lavoro e non voleva chiedere aiuto ai figli che vivevano lontano”, racconta Federica Scrollini. “Alla fine ha superato la vergogna ed è tornata in Puglia dalla sorella. Chi può si rivolge alla famiglia d’origine, chi non può si affida ai centri antiviolenza, che ripiegano su eventuali prolungamenti della permanenza delle donne in case rifugio, in case di seconda accoglienza o in altre sistemazioni temporanee”.
È quello che ha fatto Fatoumata, che dopo aver lasciato il marito non sapeva dove andare insieme ai suoi tre figli minori. Fatoumata viene dall’Africa, non ha parenti in Italia e non poteva chiedere aiuto alla comunità del suo paese presente in città, per paura di essere rintracciata. L’unica opzione per lei era la casa rifugio. “S’intersecano quasi sempre diverse fragilità”, conclude Scrollini. “I problemi economici si sommano a quelli abitativi, psicologici e sociali. Senza un intervento strutturale, le donne che vogliono uscire da una relazione violenta incontreranno sempre enormi ostacoli per ritrovare la propria autonomia”.
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