“Un pacco di pasta vale tre punti, un pezzo di parmigiano quattro, una bottiglia di olio sei. La mia famiglia ha diritto a sessanta punti al mese: a settembre in cinque giorni li avevamo già finiti. Non sempre trovi quello che ti serve, a volte gli scaffali sono quasi vuoti: le persone che hanno bisogno sono tante”. Quando ha cominciato a frequentare l’emporio della solidarietà nel quartiere Niguarda di Milano, Antonio aveva da poco perso il lavoro in un’azienda di pulizie, che con la pandemia era fallita. In parrocchia gli hanno proposto di fare la tessera per accedere a uno dei sedici empori della solidarietà gestiti nella diocesi di Milano dalla Caritas ambrosiana.
La tessera, ricaricata con dei punti che cambiano in base alla composizione del nucleo familiare e alle condizioni economiche, permette di comprare quello di cui si ha bisogno. Gli empori sono aperti solo alcuni giorni della settimana e sono gestiti da volontari. “Ogni tanto arrivano gli affettati o la mozzarella, ma finiscono subito”, racconta Antonio. Originario di Taranto, Antonio ha 56 anni e vive in una casa popolare nella periferia nord di Milano insieme a sua moglie, i tre figli e la nipotina di nove mesi. “A volte andiamo a fare la spesa al discount per comprare quello che non troviamo negli empori: scegliamo sempre le cose che costano meno”.
Dopo la pandemia le richieste d’aiuto delle famiglie sono aumentate. “Non riusciamo a soddisfare tutte le domande”, dice Andrea Fanzago, responsabile degli empori solidali della Caritas Ambrosiana. Nel 2022 l’organizzazione ha aiutato 21mila persone, per un totale di 1.537 tonnellate di cibo distribuito. “Da quando i supermercati hanno creato le aree in cui vendono i prodotti in scadenza a prezzi molto bassi gli sprechi si sono ridotti: è un fatto molto positivo, ma così quello che arriva agli empori solidali diminuisce. Difficilmente riusciamo ad avere la carne o il pesce, il formaggio è poco, e per far durare di più la verdura la laviamo, la tagliamo e la congeliamo. Facciamo di tutto per rispettare la dignità e la libertà di scelta delle persone”.
Il problema oltre le polemiche
Alla fine di agosto, al Meeting di Rimini di Comunione e liberazione il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida ha dichiarato che in Italia chi è più povero mangia meglio “perché compra dal produttore e a basso costo prodotti di qualità”. Le sue parole hanno riacceso il dibattito sulla povertà alimentare, cioè l’impossibilità di consumare quantità sufficienti di cibo, o pasti adeguati e dignitosi. Dopo la pandemia il problema è peggiorato: secondo i dati Eurostat riferiti al 2021, in Europa il 7,3 per cento delle persone non riesce a mangiare almeno una volta ogni due giorni un pasto completo dal punto di vista nutrizionale. La percentuale sale al 7,9 per cento in Italia, e supera il 17 per cento se si considerano le persone a rischio di povertà.
“L’affermazione del ministro sembra riferita a quarant’anni fa”, afferma Chiara Cadeddu, ricercatrice dell’università Cattolica del sacro cuore di Roma, tra i coordinatori scientifici dell’Italian institute for planetary health, centro di ricerca che si occupa di salute e sostenibilità alimentare. “I prodotti alimentari di qualità migliore hanno prezzi mediamente più alti: nei mercati locali costano più di quelli che si trovano nei grandi supermercati, e nei fast food si spende meno che nelle trattorie. Molti studi dimostrano che chi ha un reddito e un livello d’istruzione più basso mangia peggio”.
I fattori socioeconomici influenzano in modo determinante l’alimentazione, tanto che negli ultimi anni si parla di food social gap, una formula usata per indicare che è il reddito a imporre al consumatore cosa può mangiare. Secondo i dati dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, solo il 18,8 per cento degli italiani ha un’alimentazione adeguata e la povertà è una delle cause di questa situazione. Nel frattempo, secondo gli ultimi dati disponibili, sta crescendo la povertà assoluta: dal 2005 a oggi in Italia il numero di persone che si trovano in questa condizione è quasi triplicato, passando da 1,9 milioni nel 2005 a 5,6 milioni nel 2021. Tra loro, 1,4 milioni sono minori. La crescita più consistente si registra nel sud, dove nel 2019 le persone in povertà assoluta erano il 10 per cento, mentre nel 2021 il 12 per cento.
“Compriamo meno pesce fresco. In pizzeria o in rosticceria non ci andiamo più, mangiamo spesso riso o pasta con le verdure. Quando ero ufficiale della marina ero abituato a un menù diverso”. Giulio, quarant’anni, di Reggio Calabria, nella sua vita ha cambiato lavoro molte volte: la possibilità di rimanere disoccupato sembrava lontana, ma poi è arrivata la pandemia. Nonostante abbia tre figli piccoli e una moglie casalinga, per un errore nella richiesta non è riuscito a ottenere il reddito di cittadinanza. Così è andato avanti con gli assegni familiari e qualche lavoro in nero. “Per arrotondare”, dice. “Arriviamo a stento alla fine del mese. Per fortuna viviamo in casa dei miei, perché se ci fossero stati anche l’affitto o il mutuo da pagare saremmo finiti per strada”. Da due anni, ogni mese Giulio va a ritirare il pacco del Banco alimentare: pasta, riso, caffè, zucchero, farina, olio e altri prodotti di prima necessità che possono servire alla famiglia. “Prendiamo quello che c’è”, sorride. “Certo, con il pacco non ti sfami, ma comunque ti permette di risparmiare”.
Confische, donazioni e prepagate
Lo scorso anno più di 1,7 milioni di persone si sono rivolte alla fondazione Banco alimentare per ricevere questo aiuto, duecentomila in più rispetto al 2018. I prodotti distribuiti arrivano soprattutto dal recupero delle eccedenze dell’industria agroalimentare, dalla grande distribuzione, dai ristoranti e anche dalle confische di pesce di grossa taglia.
Poi ci sono le donazioni, come quelle della colletta alimentare, e gli alimenti dell’agenzia governativa per le erogazioni in agricoltura (Agea), finanziati dal fondo di aiuti europei per le persone povere e da quello nazionale di contrasto alla povertà. “Sono 7.600 le strutture convenzionate con il Banco: le richieste crescono ogni anno”, spiega Giovanni Bruno, presidente della fondazione. “Ci sono tante persone che avevano un lavoro precario o in nero, che durante la pandemia si sono trovate senza alcun tipo di salario. Oggi hanno ricominciato a lavorare, ma lo stipendio non basta: con l’aumento delle bollette, delle spese condominiali e delle rate del mutuo, le prime cose su cui le famiglie tendono a risparmiare sono i prodotti alimentari e le spese sanitarie”.
Con la legge di bilancio del 2023, il governo Meloni ha introdotto la carta Dedicata a te, una prepagata di 382,5 euro data una tantum alle famiglie con Isee sotto i 15mila euro per comprare beni di prima necessità. Chi già riceve il reddito di cittadinanza o altri sussidi, come l’indennità di disoccupazione e la cassa integrazione, non può accedervi. In alternativa c’è la carta acquisti di ottanta euro ogni due mesi, che può essere richiesta da chi ha più di 65 anni o almeno tre figli a carico.
Questi aiuti, anche se importanti, sono sempre meno efficaci a causa dell’aumento dell’inflazione, che ha ridotto ulteriormente il potere d’acquisto delle famiglie già in difficoltà: da gennaio ad agosto del 2023 in Italia i prezzi dei prodotti alimentari sono cresciuti del 9,8 per cento. Nell’ultima legge di bilancio è stato inserito anche il cosiddetto reddito alimentare, un progetto sperimentale che durerà tre anni e che si affianca al Piano nazionale per la lotta alla povertà 2021-2027: diverse associazioni consegneranno pacchi alimentari a circa tre milioni di persone in povertà assoluta. I prodotti arriveranno dai supermercati e saranno distribuiti in dieci città.
Mangiare poco, mangiare male
“Erano due giorni che non mangiavo, così mi sono detto: dev’esserci qualche centro che ti aiuta a trovare cibo o fare qualche lavoretto, magari una chiesa, non so”, ha raccontato M., che durante la pandemia viveva da solo con suo figlio nella periferia di Milano. “Saltavo pasti soprattutto durante il periodo del covid”, ha detto P., padre di due figli. “Abbiamo avuto difficoltà, poi non lavoravo, e io purtroppo lavoro alla giornata, se sono presente fisicamente mi pagano, altrimenti no”. Sono alcune delle testimonianze contenute nell’indagine di ActionAid La fame non raccontata, realizzata intervistando 53 famiglie che durante l’emergenza sanitaria hanno ricevuto aiuti alimentari nell’area metropolitana di Milano.
Il covid-19 ha avuto ricadute gravi sulla povertà alimentare, tanto che alcune persone hanno dovuto saltare diversi pasti a settimana. Tra i più colpiti ci sono gli stranieri, che rappresentano quasi il 60 per cento del campione, e le donne. Racconta N.: “L’importante è che faccio mangiare mio figlio, se avanza qualcosa mangio anche io. La verità è che io mangio solo gli avanzi”.
Superata l’emergenza legata alla pandemia, secondo l’Istat l’insicurezza alimentare è in calo, ma allo stesso tempo si è allargato il divario tra nord e sud. Quando si parla d’insicurezza alimentare, comunque, bisogna distinguere tra food insecurity, che indica la difficoltà di accesso ai prodotti alimentari, e food safety, che tiene conto di quanto certi pasti possano far male alla salute. “Si tende a pensare che chi è povero mangia poco, ma in realtà il problema è che chi è povero mangia male, almeno in contesti come quello italiano”, spiega Chiara Cadeddu. “Anche le persone senza dimora riescono sempre ad avere un pasto caldo, ma la qualità è spesso pessima. Chi chiede l’elemosina per strada ha con sé i simboli di un’alimentazione sbagliata: bibite, patatine, biscotti. Tutti cibi consolatori, che costano poco e sono pieni di zuccheri, ma dannosi da un punto di vista nutrizionale”.
La conseguenza è un aumento del tasso di obesità, soprattutto nelle fasce più povere: il rapporto Il fardello dell’obesità dell’Ocse mostra come in Europa le donne e gli uomini nella fascia di reddito più bassa abbiano rispettivamente il 90 e il 50 per cento di probabilità in più di essere obesi rispetto alle persone che hanno redditi più alti. “I poveri sono più colpiti da malattie come l’ipercolesterolemia, l’ipertrigliceridemia e l’obesità”, dice Cadeddu. “La maggior parte delle persone sottopeso invece non si trova in difficoltà economiche, ma soffre di disturbi come quelli del comportamento alimentare”.
Avere un’alimentazione sbagliata ha ripercussioni soprattutto sui bambini. Il rapporto 2022 su povertà ed esclusione sociale della Caritas stima che 1,4 milioni di bambini in Italia si trovano in condizioni di povertà assoluta e non hanno accesso a un’alimentazione adeguata. Allo stesso tempo il 37 per cento dei bambini italiani di nove anni è sovrappeso e di questi il 16 per cento è obeso, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. “Chi è stato sovrappeso o obeso da piccolo è più esposto a malattie cardiovascolari e metaboliche”, spiega Cadeddu.
Un andamento a U
In Italia le disuguaglianze alimentari esistono, ma in misura inferiore rispetto ad altri paesi. Lo dimostra una ricerca svolta nel 2021 dall’università di Urbino su un campione di duemila italiani: l’indagine conferma che le famiglie a basso reddito, soprattutto quelle numerose o con un solo genitore presente nel nucleo, hanno una tendenza maggiore a consumare diete sbilanciate. Allo stesso tempo i dati mostrano un andamento a U, per cui situazioni di fragilità più marcate possono coesistere con regimi alimentari in alcuni casi più equilibrati, che probabilmente rispondono più a situazioni di necessità che a scelte consapevoli. Con l’aumento – fino a una certa soglia – del reddito e del livello d’istruzione, si registra un maggiore consumo di prodotti alimentari poco sani, che diminuisce lasciando spazio a diete più bilanciate nelle fasce più ricche della popolazione.
“La nostra cultura del cibo ha origini molto antiche: pensiamo alla dieta mediterranea, ai mercatini rionali, alle botteghe di paese, agli orti di famiglia”, commenta Elisa Lello, sociologa dell’università di Urbino, tra le autrici della ricerca. “Tutto questo permette anche alle fasce più povere di accedere a cibo di qualità. Ma quanto potrà reggere questa situazione in una società in cui le disuguaglianze sono in aumento?”.
Dall’indagine risulta inoltre che a essere attente a una dieta sana, alla sostenibilità ambientale dei prodotti e ai diritti dei lavoratori non sono solo le classi più ricche. “Anche chi è in una situazione di maggiore vulnerabilità socioeconomica fa attenzione a questi aspetti”, spiega Lello. “Non è vero che chi è povero pensa solo ad arrivare alla fine del mese: l’interesse c’è, il problema è che i mercatini dei produttori locali, le botteghe equosolidali e le reti che permettono di accedere a prodotti sani e sostenibili hanno spesso prezzi alti. Dovrebbe allora entrare in campo la politica, con misure che sostengano l’agricoltura contadina e permettano una maggiore accessibilità a questi circuiti”. La stessa ricerca mostra come la crescita di piattaforme online, supermercati e hard discount sia stato favorita dalla pandemia, mentre nello stesso periodo mercati e vendite dirette hanno registrato una crescita modesta. I circuiti dell’economia solidale sono invece rimasti fermi.
“Quando ho bisogno di comprare qualcosa vado sempre al discount: lì trovo tutto, ma spendo meno”. Vanessa, 39 anni, è originaria di un paese di quattromila abitanti nella periferia nord di Reggio Calabria. È disoccupata e insieme al fratello si prende cura della madre che soffre di demenza senile: la sua pensione d’invalidità è l’unico reddito della famiglia. Ogni sera Vanessa va alla mensa dell’associazione Nuova solidarietà e prende la cena per tutta la famiglia. “Dobbiamo comprare molte medicine, alcune sono costosi e non sono passate dalla mutua: i soldi che rimangono non sono molti”, racconta. “Per tanti mesi non ho voluto andarci, non me la sentivo. Poi un giorno ho deciso di provare: mi sono trovata bene, qui tutti sono gentili. Non l’ho detto a nessuno, però, il paese è piccolo, ci sono molti pregiudizi”.
Nuova solidarietà oggi gestisce cinque mense nel territorio di Reggio Calabria. “I poveri mangiano gli avanzi degli altri: quelli dei ristoranti e dei supermercati, o il cibo donato dai cittadini”, conclude Rosa Scopelliti, volontaria dell’associazione. “Nelle nostre mense cuciniamo con quello che abbiamo: gli alimenti sono preparati nel miglior modo possibile, un primo piatto si può trasformare in un secondo e viceversa, e la frutta può diventare un dolce. Serviamo tanto pane e creatività: l’importante è rispettare la dignità delle persone”.
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