Reazioni negative, inasprite dalla battaglia elettorale, sono seguite alla proposta formulata da Enrico Letta.

Il segretario del Partito democratico ha proposto un’imposta di successione fino al 20 per cento per chi eredita più di cinque milioni di euro allo scopo di finanziare una “dote” di diecimila euro per chi compie diciott’anni, sfidando così l’anatema secondo cui parlare di aumentare le tasse è un suicidio elettorale (ci ha messo l’accento tra gli altri, con l’abituale veemenza, Matteo Renzi). Da altri è giudicata “un passo avanti”, “minimale” ma “radicale”, che rilancia i temi dell’investimento sui giovani e della ridistribuzione della ricchezza (Roberta Carlini il 4 agosto su L’Essenziale).

La proposta a me pare invece, anche nella prospettiva di chi la sostiene, estemporanea e poco credibile.

Intanto ritengo sia un errore grave isolarla rispetto al quadro complessivo delle imposte sui redditi e sui patrimoni. Si pensi all’Imu, l’imposta sul possesso di beni immobiliari, oggi palesemente iniqua, da un lato per la mancata riforma del catasto e i milioni di immobili non censiti che sfuggono all’imposizione, e dall’altro per la rivalutazione già largamente avvenuta nelle grandi città, con uno squilibrio rispetto alle aliquote che erano state pensate nella situazione precedente. Non è difficile trovare immobili aventi una rendita addirittura più elevata del loro valore di mercato, con conseguenze vessatorie.

Diciottenni al voto
Serve allora un’analisi più chiara, per evitare l’impressione che tutto si riduca a una strizzata d’occhio ai diciottenni chiamati al primo voto. Che la proposta finisca per ridursi a un espediente demagogico viene denunciato anche da chi, come Tito Boeri e Roberto Perotti su la Repubblica dell’8 agosto, sottoscrive le finalità redistributive della proposta Letta, e anche la razionalità e capacità perequativa dell’imposta sulle successioni, ma giustamente osserva che ci sono migliaia di cose più utili da fare per i giovani e per le famiglie.

Secondo i dati correnti (riportati da Carlini), la platea di contribuenti sarebbe composta da appena 500mila persone (lo 0,8 per cento della popolazione italiana). Quale gettito ne potrebbe derivare? Su un prelievo complessivo di 500 miliardi di euro annui, la “vecchia” imposta di successione (con aliquote fino al 31 per cento e non limitata allo 0,8 per cento della popolazione), abolita nel 2001 e infine reintrodotta nella misura oggi ritenuta troppo esigua, dava un gettito di 700 miliardi di lire (dati 1993).

Una dubbia efficacia
Il gettito attuale (circa un miliardo di euro) deriva, dal canto suo, da imponibili medio-piccoli, specie immobiliari, mentre altre stime parlano di un gettito della proposta Letta che si assesterebbe tra un miliardo e quattro miliardi di lire (è l’ipotesi accennata da Boeri e Perotti). Ma i grandi patrimoni sfuggono all’imposizione successoria e così, lo notava tempo addietro Raffaello Lupi con il consueto humour, finisce per aversi un’imposta “sugli imprevidenti”.

Se pure il prelievo sui redditi e poi sul trasferimento gratuito incide su una ricchezza che modifica la sua natura nella creazione e poi nel trasferimento (e può dirsi, quindi, in linea astratta razionale), la successione resta il frutto di attività economiche già tassate come reddito e poi come patrimonio (Imu per gli immobili, bollo per la ricchezza mobiliare). L’accumulazione del risparmio assume d’altra parte funzione previdenziale per la vecchiaia e la sicurezza dei discendenti, e un maggior prelievo potrebbe disincentivare la propensione al risparmio, che invece è incoraggiato e garantito dalla repubblica (articolo 47 della costituzione). Si tratta di argomenti forse controvertibili ma di cui occorre farsi carico se, in luogo di sortite occasionali, si vuol contribuire credibilmente al discorso pubblico.

Da più parti si dice che interventi redistributivi, la cui crescente necessità è chiara, andrebbero indirizzati alle famiglie, spesso sospinte verso una soglia quasi di povertà. La dote, si dice ancora, è un bonus, mentre bisogna intervenire sul welfare, sull’istruzione, sulla politica dei redditi, se si vogliono proporre iniziative di qualche significato.

Per la proposta Letta, la dote dovrebbe servire alla formazione universitaria, all’avvio di nuove imprese o all’acquisto della casa. Ci si potrebbe chiedere, allora, con quale serietà possano essere proposti argomenti simili, dato il prezzo degli immobili nei centri urbani, o il costo reale di una nuova impresa. Salvo che i nostri diciottenni siano tutti novelli Steve Jobs e Bill Gates.

La proposta, infine, mi pare sbagliata anche nella prospettiva “radicale” che essa intende in qualche modo compiacere. Essa nasce nella cultura anglosassone, assai più individualistica. Il passaggio successivo non finirebbe forse per lasciare l’individuo solo nella responsabilità del suo insuccesso? Non si apre così la via a un classico argomento della destra americana contro la redistribuzione e il welfare? La proposta ha sì “padri nobili” (Anthony Atkinson, Fabrizio Barca) ma, come mi pare risulti evidente, importare, trapiantare idee, metodi e pratiche da paesi dotati di tradizioni, cultura e strutture diverse, non solo in questo campo, va ponderato con estrema attenzione.

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