Questo articolo è uscito il 19 marzo 2022 a pagina 4 del numero 19 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.
La Loriblu è una delle aziende principali del polo calzaturiero di Porto Sant’Elpidio, il più importante d’Italia per giro d’affari e numero di addetti. Ha un centinaio di dipendenti, fattura 25 milioni di euro all’anno ed è un simbolo di come l’economia di questa cittadina di 26mila abitanti, affacciata sul mare Adriatico, si sia retta per trent’anni sulle esportazioni, soprattutto verso la Russia, ma anche l’Ucraina.
Fino a un mese fa, da qui partivano camion diretti verso l’Europa dell’est, pieni di scarpe da donna con cristalli incastonati e stivali in pelle con la zeppa. Nell’outlet annesso allo stabilimento, nella zona industriale del paese, i clienti russi erano i più numerosi. “Facevamo incassi molto importanti”, dicono nel negozio, “grazie ad acquirenti singoli e a influencer attivi sui social network, che acquistavano le scarpe a prezzo di magazzino per poi rivenderle attraverso internet”. Gli ordini minimi non andavano al di sotto dei 10mila euro. Ora non si vede più nessuno.
Gli ultimi affari
Dal 24 febbraio tutto è cambiato. Quel giorno negli 11mila metri quadrati del Krasnaja Presnya Expocenter di Mosca era in corso l’ultima giornata dell’esposizione Italian Fashion. Alla fiera, definita dagli organizzatori un “fondamentale momento di incontro per i buyer e gli operatori specializzati russi” interessati alle novità della moda italiana, erano presenti 128 marchi dell’abbigliamento e delle calzature italiani. Nove di questi venivano dalle Marche, invitati dall’Ente moda italiana e dalla Camera di commercio di Fermo per provare a risollevare il settore dopo un’annata poco felice.
Secondo i dati forniti dal centro studi di Confindustria moda, nel 2021 a causa della pandemia lungo la costa adriatica tra Fermo e Macerata hanno chiuso 114 calzaturifici e sono andati persi 1.269 posti di lavoro. L’ultima crisi è esplosa agli inizi di febbraio, quando L’Autre Chose, un’azienda di abbigliamento e scarpe per donna nata nel 1959 a Porto Sant’Elpidio e al 95 per cento di proprietà del fondo Sator del finanziere Matteo Arpe, ha presentato una richiesta di concordato preventivo perché i ricavi sono crollati dai 15 milioni dell’era pre covid-19 ai 3 dei primi nove mesi del 2021.
Ci sono aziende che esportano per l’80 per cento in Russia. C’è il rischio che si fermi tutto
Quella mattina, mentre il presidente russo Vladimir Putin annunciava in televisione l’inizio di una “operazione militare speciale” in Ucraina, nello stand FOG64 i rappresentanti della Loriblu concludevano gli ultimi affari prima di rientrare in Italia. “Avevamo invitato i clienti russi che non erano riusciti a venire da noi in Italia perché il vaccino russo, lo Sputnik, non è riconosciuto nell’Unione europea”, racconta Claudia Cuccù, che con il fratello, le due sorelle e la madre Annarita Pilotti gestisce il calzaturificio.
Hanno mostrato loro la collezione del prossimo autunno-inverno e preso accordi per le forniture, con rincari tra il 20 e il 30 per cento a causa dell’aumento dei costi dell’energia e dei trasporti. Una volta rientrati in Italia, sabato 26 febbraio con uno degli ultimi voli prima che fosse chiuso lo spazio aereo, i proprietari della Loriblu si sono però resi conto che gli accordi stipulati in Russia sarebbero ben presto diventati impossibili da rispettare.
Nei giorni seguenti i corrieri hanno sospeso le spedizioni. Alcuni acquirenti russi hanno mandato propri camion a ritirare la merce prima che chiudessero le frontiere, ma non si sa se è arrivata a destinazione e quando sarà pagata, a causa del blocco del sistema di pagamenti bancario internazionale Swift e della svalutazione del rublo che aumenta a dismisura i costi per i russi. Un solo cliente è riuscito a pagare 500mila euro prima che le sanzioni entrassero in vigore, mentre un altro, racconta Cuccù, “è venuto di persona dalla Russia a ritirare un ordine di 500 scarpe, per un valore di circa 100mila euro”.
Le spedizioni per l’Ucraina invece si sono fermate per la chiusura dei negozi a causa dei bombardamenti. Hanno rallentato pure gli acquisti nei negozi di piazza di Spagna a Roma e via Manzoni a Milano, mentre le navette dello shopping da Milano all’outlet di Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria – 20 euro andata e ritorno incluso il fashion passport per avere sconti del 10 per cento, e altri 20 per avere la tessera vip – hanno perso all’improvviso i turisti russi che le affollavano. Nel giro di poche ore sono state cancellate le fiere in programma ad Almaty in Kazakistan a marzo, a Mosca agli inizi di aprile e a Kiev alla metà dello stesso mese.
La “fine del sogno russo”, come più di uno lo definisce da queste parti, rischia di far precipitare le Marche in una pesante recessione. Il presidente della Confederazione nazionale artigiani (Cna) marchigiana Paolo Silenzi teme addirittura un “default di tutta la filiera per mancanza di liquidità”. Fino al giorno dell’invasione, una scarpa su tre importata in Ucraina proveniva da queste zone e la provincia di Fermo era la principale esportatrice di scarpe in Russia.
Nel 2021 le esportazioni verso quel paese del settore calzaturiero marchigiano hanno superato gli 80 milioni di euro, quelle verso l’Ucraina hanno toccato gli 11,4 milioni. Il prezzo medio di un paio di scarpe era 68 euro, ma molti calzaturifici puntavano a una fascia di clienti più alta. Le scarpe Loriblu, nei negozi di Mosca, si vendono fino a mille euro al paio. Numeri che fanno delle Marche la principale esportatrice italiana verso la Russia e l’Ucraina, e che quest’anno si azzereranno.
Il segretario della Cgil di Fermo Alessandro De Grazia la definisce “una situazione esplosiva”. “L’economia di quest’area”, spiega, “ruota tutta attorno alle calzature: ci sono aziende che esportano per l’80 per cento in Russia. C’è il rischio che si fermi tutto”. Il settore delle calzature impiega più di 22mila persone nel raggio di poche decine di chilometri, e alla camera del lavoro temono un’ondata di stati di crisi e licenziamenti. Per scongiurarla, chiedono al governo di concedere una cassa integrazione straordinaria, com’era avvenuto durante la pandemia. Gli industriali invece chiedono una riduzione delle tasse e ristori economici per le perdite subite a causa della guerra.
La fine del sogno
Il 15 marzo è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale un nuovo elenco di merci che non possono essere esportate in Russia, per un mercato che la Sace – la società pubblica partecipata dalla Cassa depositi e prestiti che garantisce i crediti nelle esportazioni – quantifica in 7,1 miliardi di euro. Insieme a spumante, sigari e profumi, ci sono le “calzature di vari tipi e fogge”. Così, migliaia di scarpe destinate a una clientela medio-alta sono rimaste in magazzino e rischiano di rimanere invendute perché non si adattano ai gusti della moda occidentale.
Il danno per Loriblu è contenuto perché la produzione per la prossima stagione invernale non era ancora cominciata. “Avevamo solo fatto degli acquisti preventivi di materiali a dicembre”, spiega Cuccù, “perché temevamo un aumento dei prezzi, e ora dovremo cercare di assorbirli”. I timori riguardano soprattutto il futuro.
“Al momento gli effetti per le aziende sono che le scarpe spedite non si sa se verranno pagate, ci sono giacenze nei magazzini di calzature che si potrebbero spedire ma non si sa dove andrebbero a finire, e ordini già fatti che potrebbero diventare carta straccia”, ha detto il presidente di Assocalzaturifici Siro Badon a margine di un incontro al salone internazionale delle calzature Micam, che si è svolto a Milano alla metà di marzo.
“Con il blocco dei conti correnti, chi pagherà le scarpe ordinate?”, si chiede Valentino Fenni, presidente dei calzaturieri di Confindustria Centro-Adriatico. “Il mercato russo e quello ucraino per il nostro distretto rappresentano l’80 per cento del fatturato, malgrado le sanzioni del 2014 abbiano provocato una riduzione di oltre il 60 per cento del valore delle esportazioni marchigiane verso la Russia”, spiega Alessandro Migliore, responsabile del settore moda della Cna di Fermo e Macerata.
Già da allora nessuna banca italiana era più disposta ad anticipare le fatture dei russi, nonostante l’assicurazione sui crediti della Sace. Loriblu è una di queste. “Fino al 2014 il nostro fatturato dipendeva quasi per intero dalle vendite ai russi”, dice Cuccù. Dopo i primi blocchi seguiti all’annessione della Crimea e alla guerra nel Donbass, hanno deciso di ridimensionarsi e di cercare nuovi mercati per rimanere in piedi, a cominciare dall’Africa. Oggi il fatturato è dimezzato e la dipendenza dal mercato russo è scesa al 60 per cento, quanto basta per non crollare ma troppo poco per non dover cercare nuovi canali di vendita.
Bisogna reinventarsi
Altre aziende hanno invece continuato a puntare quasi solo sui paesi dell’est. Fino al 24 febbraio Marino Fabiani esportava in Russia e Ucraina l’85 per cento delle calzature da donna prodotte nel suo stabilimento a Fermo. “In magazzino”, dice Fabiani, “abbiamo 4.900 paia di scarpe, per un valore di circa 600mila euro, che erano pronte per essere spedite e che ora rischiamo di dover buttare via”.
Anche in questo caso, si tratta di calzature che non possono essere rivendute altrove e che, spiega, “tra tre mesi non avranno più alcun valore”. “A fine febbraio sono riuscito a pagare tutto, compresi gli stipendi dei miei 25 dipendenti, malgrado l’ordine non spedito, ma ora non sono più in grado di far fronte ai pagamenti. Se la guerra prosegue non ci resta che chiudere e dire addio alle nostre aziende”, dice ancora Fabiani.
Nelle stesse condizioni si troverebbero molti altri calzaturifici della zona. Dopo un trentennio che tutti considerano d’oro, è opinione diffusa che le centinaia di “calzolai” – come vengono definiti da queste parti con affettuosa ironia – che si sono trasformati in piccoli imprenditori delle calzature ora dovranno avere la capacità di reinventarsi.
Anche alla Loriblu sanno che dovranno cercare nuove strade, ma affermano che ci vorrà molto tempo e non sarà facile. “Stiamo cercando di sondare nuovi mercati”, dice Cuccù, “e dovremo investire in ricerca e sviluppo, oltre che in marketing”. Per il momento, sulle quattro linee produttive dello stabilimento si lavora in appalto per altri marchi del lusso. Nel frattempo, i titolari hanno accolto il proprietario di un negozio di Charkiv al quale fornivano le scarpe in franchising.
Quando la città ucraina è finita sotto le bombe russe, ha tirato giù la saracinesca ed è scappato verso l’Italia con tutta la famiglia. Sono arrivati a Porto Sant’Elpidio dopo un viaggio in auto durato una settimana e hanno chiesto aiuto ai fornitori di scarpe, che gli hanno trovato un alloggio temporaneo in un’abitazione di loro proprietà. “Non sanno neppure se il negozio sia ancora in piedi, per ora rimarranno qui, stiamo cercando una scuola per i due bambini e un lavoro per loro”, racconta Claudia Cuccù. La giovane imprenditrice delle calzature all’improvviso si è trovata la guerra in casa.
Questo articolo è uscito il 19 marzo 2022 a pagina 4 del numero 19 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.
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