Un ristorante di prossima apertura nella zona dei Navigli a Milano offre un contratto a tempo determinato e uno stipendio da 1.150 euro netti al mese per assemblare panini, pokè bowl e tacos, e per tenere pulite le cucine. È richiesta esperienza nel campo della ristorazione, disponibilità a lavorare sei giorni su sette, anche nei fine settimana, e flessibilità oraria per coprire turni spezzati tra il pranzo e la cena. Vuol dire cominciare a lavorare in tarda mattinata e finire a mezzanotte e mezza, con una pausa pomeridiana di qualche ora. Sul piano personale sono richieste umiltà, dedizione e disponibilità, si legge nell’annuncio di selezione del personale. E poi capacità di gestire lo stress, spirito di iniziativa, collaborazione e un atteggiamento positivo, orientato al risultato.
Il ristorante non ha una sala. È una dark kitchen, una cucina nascosta, dove si preparano piatti per le consegne a domicilio, un mercato che in Italia vale due miliardi di euro all’anno. Si tratta di un modello nato durante la pandemia di covid per far fronte all’aumento degli ordini online, 39 milioni nel solo 2020. Lo hanno adottato dapprima i ristoranti tradizionali, che hanno destinato una parte delle cucine ai piatti da consegnare. Poi sono nati degli spazi che non hanno bisogno della tradizionale sala: le ghost kitchen (cucine fantasma), laboratori utilizzati da più marchi per risparmiare sull’affitto, e le cloud kitchen (cucine in rete) una sorta di coworking gastronomico dove i ristoratori noleggiano delle postazioni e condividono i servizi offerti dal gestore dello spazio, a cominciare dal food delivery, la consegna a domicilio affidata ai rider. In un paio d’anni le dark, le ghost e le cloud kitchen sono diventate la nuova frontiera del business gastronomico e dello sfruttamento lavorativo.
“Le piattaforme del food delivery stanno creando una filiera nascosta di cui i rider sono solo la punta visibile”, afferma Francesco Melis, un sindacalista del Nidil-Cgil che si occupa dei lavoratori precari. Dietro le piattaforme ci sono i veri “invisibili”: cuochi, lavapiatti, addetti alle casse e alle pulizie impiegati nelle cucine nascoste, “luoghi non sempre visibili dalla strada e inaccessibili al pubblico, dove c’è molta competizione e la manodopera cambia in continuazione”, spiega Melis.
Per questo non è facile trovare qualcuno disposto a parlare. Marco, un ragazzo di origini filippine addetto alla gestione degli ordini in una dark kitchen milanese che promette cibo di qualità senza passare per il ristorante, parla solo a patto che non si riveli il suo vero nome. “Lavoro dalle 11 del mattino alle 3 del pomeriggio e poi dalle 6 alle 11.30 della sera, ho due giorni di riposo alla settimana e guadagno 1.200 euro al mese”, racconta. Due suoi colleghi si sono licenziati perché i turni serali erano troppo frenetici e non gli lasciavano tempo libero.
Fuori busta
Non sono gli unici. Fare il cuoco, il cameriere o il lavapiatti per cinque o sei giorni alla settimana, sabato e domenica inclusi, e con turni di lavoro massacranti che spesso durano fino a tarda notte, non è una prospettiva di lavoro attraente, specie se i contratti non superano i sei mesi, come accade di solito. Nemmeno gli stipendi lo sono. Vanno dagli 800 ai 1.100 euro al mese, al di sotto del contratto nazionale del turismo. Per questo in molti abbandonano. Secondo le stime della Confcommercio, nel 2021 dai bar e ristoranti di Roma si sono dimessi più di 20mila lavoratori.
“Il mancato accesso al welfare, i salari da fame, la politica dei bonus una tantum e un futuro ancora più nebuloso hanno incentivato questo esodo”, spiega Emanuele De Luca, coordinatore delle Camere del lavoro autonomo e precario (Clap), un sindacato nato nel 2014 nella capitale per rispondere alle esigenze dei lavoratori “insindacalizzabili”. Anche De Luca ha lasciato il lavoro nella ristorazione, dopo diversi anni di prestazioni in nero, “35 euro per 9 ore di turno”, o con contratti “fittizi, in grigio, o assunto da una cooperativa a cui era stato esternalizzato il servizio, ma anche con contratti regolari”. L’ultima volta era stato assunto con un “falso contratto, attraverso una cooperativa, e le giornate di lavoro registrate erano inferiori a quelle effettive”. Ma “la goccia che ha fatto traboccare il vaso sono stati i 287 euro per due mesi di cassa integrazione durante il lockdown, una cifra umiliante”, spiega.
La sera del 30 aprile gli attivisti delle Clap sono scesi in strada a Trastevere, a Roma, per denunciare le condizioni di lavoro nei bar e nei ristoranti. Tra le rivendicazioni elencate nel volantino a forma di menù distribuito nei locali spiccavano un “salario minimo orario pari a 10 euro netti”, “il diritto alle ferie” e quello “alla maternità e alla paternità”. “Paga al di sotto dei minimi tabellari, lavoro gratuito mascherato da formazione (con stage e tirocini), orari insostenibili, ben al di sopra delle 40 ore settimanali, straordinari non pagati, ambiente cameratesco e punitivo, ecco il segreto della ristorazione”, si leggeva. Una studente fuorisede ha raccontato che negli ultimi tre anni ha lavorato in cinque ristoranti della capitale sempre senza contratto, sostenendo che è una prassi consueta poiché non ci sono molti controlli.
Allo sportello che le Clap hanno aperto all’interno di Esc, un centro sociale nel quartiere romano di San Lorenzo, dicono che il 70 per cento delle denunce arriva da camerieri e baristi. Luisa è una di loro. Lavora in un pub, è stanca e vuole lasciare il posto anche se ha un contratto regolare di tre turni alla settimana, ognuno di otto ore, dalle 18 alle 2 di notte. Gli orari però non vengono rispettati. “Esco sempre un’ora dopo la chiusura e il direttore mi costringe a pulire il locale”, racconta. Il lavoro straordinario non è mai pagato e le richieste “fuori busta” sono accompagnate, a volte, da insulti. Un giorno ha avuto un mancamento per il forte stress. Si è fermata per riprendere fiato, ma il direttore, senza chiedersi cosa stesse succedendo, l’ha spedita per punizione a pulire le mattonelle del bagno. I suoi colleghi sono rimasti in silenzio. “‘Devi ringraziare perché hai un contratto’, mi dicono, come se fosse un privilegio”.
Anche Xenia vorrebbe fuggire dal ristorante in cui lavora per nove ore al giorno, in uno dei quartieri più benestanti di Roma. Il suo contratto prevede 30 ore settimanali, ma ne lavora almeno il doppio. “Prendo 900 euro in busta paga e 200 in nero, comprese le mance”, spiega. I suoi compagni hanno lo stesso trattamento salariale e preferiscono tacere perché, dicono, “qui almeno ci pagano”. Xenia non è italiana. È venuta a Roma per imparare la lingua e approfondire la conoscenza della città. Sapeva che dal punto di vista economico la sua vita non sarebbe cambiata. “I salari nel mio paese sono simili ai vostri, soprattutto nella ristorazione, ma almeno il costo degli affitti e dei beni di prima necessità è molto più basso”, dice. “Qui lavoro per sopravvivere”.
A qualcuno va un po’ meglio dal punto di vista economico, ma l’impegno richiesto è comunque enorme. Lucia ha 38 anni ed è maître in un ristorante di Arezzo. Ha un contratto da 1.400 euro per 40 ore settimanali, ma di fatto ne lavora almeno 70. Sono 120 ore in più al mese per le quali riceve appena 300 euro fuori busta. “Il problema non sono i soldi ma il tempo. Non stacco mai veramente, sono reperibile per fornitori e prenotazioni anche nel giorno libero. Per questo è finita la storia con il padre di mia figlia e da poco ho chiuso anche la mia ultima relazione. Anche lui lavora in un bar e non ci vedevamo mai”.
Gennaro, 30 anni, napoletano, fa invece il cameriere ai battesimi, alle prime comunioni e ai matrimoni nella sua città. Spiega che i grandi ristoranti che organizzano ricevimenti hanno una parte dell’organico assunto a tempo indeterminato e un’altra parte che lavora in nero, a chiamata. In questi casi la paga si aggira intorno ai 70 euro per una giornata di lavoro che comincia alle 10 del mattino e finisce anche alle 2 di notte. “Per un matrimonio difficilmente si lavora meno di dodici ore, ma si può arrivare anche a 14. Per questa stessa giornata lavorativa, le donne vengono pagate solo 50 euro, con la scusa che il loro lavoro – il vino, l’aperitivo o l’accoglienza – è meno faticoso”. Lui guadagna 1.300 euro al mese, da aprile a ottobre. “Con il sussidio di disoccupazione, quando mi scade il contratto, riesco a tirare avanti fino a gennaio, poi per i primi mesi dell’anno devo arrangiarmi”, spiega.
Il 64,5 per cento dei lavoratori nei ristoranti guadagna meno di 11.500 euro all’anno
Capro espiatorio
La Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe) stima che il settore della ristorazione avrebbe bisogno di 120mila lavoratori in più. Alla fine di aprile il cuoco e conduttore televisivo Alessandro Borghese ha detto che non riesce a trovare personale perché “ragazzi e ragazze vogliono tenersi stretti i weekend” e diversi chef stellati hanno condiviso le sue parole. Il cantante Al Bano ha detto di non trovare personale da impiegare nella sua tenuta a Cellino San Marco, in Puglia, dove produce olio e vino e ha un ristorante e un albergo, a causa del reddito di cittadinanza. In un’intervista al Corriere della Sera, Flavio Briatore ha chiesto di sospendere il reddito di cittadinanza nel periodo estivo, per spingere i giovani ad accettare i lavori stagionali. E il ministro del turismo, Massimo Garavaglia (Lega), parlando all’assemblea di primavera di Federalberghi a Parma, ne ha proposto “un’uscita graduale”.
A smentirli è stata la sociologa Chiara Saraceno, che come presidente del comitato scientifico di valutazione del reddito di cittadinanza alla fine del 2021 ha presentato una relazione al parlamento con alcune proposte di modifica. A suo parere, il sussidio non ha avuto alcun ruolo nella fuga dal lavoro di cuochi e camerieri poiché è una misura di sostegno alla povertà minima – appena 550 euro in media per nucleo familiare – della quale beneficia una fascia della popolazione che non ha altro modo di sostenersi. “Il reddito di cittadinanza è solo un capro espiatorio, quei lavori non sono appetibili perché sono pagati poco e in nero”, ha detto a Radio24.
I dati forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro confortano la sua tesi. Nel solo 2020, le violazioni dei diritti dei lavoratori accertate sono state 10.472. Il 70 per cento riguardavano la ristorazione. Di queste, il 46 per cento il lavoro nero e un altro 12 per cento gli orari. La commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, nella relazione “intermedia” depositata in senato il 21 aprile, cita proprio la ristorazione tra i settori in cui c’è maggiore sfruttamento. Un rapporto del gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia rivela che il 64,5 per cento dei lavoratori nei ristoranti guadagna meno di 11.500 euro all’anno. Secondo una proiezione fatta dalla Restworld, una start up torinese che ha creato una piattaforma per far incontrare i professionisti della ristorazione e chi cerca lavoro, in questo comparto più di mezzo milione di persone lavora in maniera irregolare.
È il caso di Dinesh, 38 anni, srilanchese. Dal martedì alla domenica fa il lavapiatti in una trattoria per turisti nel centro storico di Napoli. “Il mio turno comincia alle quattro e finisce all’una o alle due di notte, per un totale di dieci ore al giorno, tutti i giorni tranne il lunedì”, anche se “nella busta paga c’è scritto che lavoro solo sedici ore alla settimana, quindi due giorni”, racconta. Lo stipendio è di 900 euro, “quasi tutti al nero”. Come se non bastasse, “sei l’ultimo ad andare via, ti chiedono di scaricare in deposito, buttare l’immondizia, pulire i bagni e non puoi dire di no”. Non pensa di rimanere a lungo a fare questo lavoro. Il suo sogno è tornarsene in Sri Lanka.
Con Maurizio Franco, Filippo Menci e Riccardo Rosa.
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