A metà luglio, mentre il governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi si avvitava in una crisi sempre più incontrollabile, nella zona industriale di San Dorligo della Valle, un paesino di seimila abitanti stretto tra il porto di Trieste e il confine con la Slovenia, è esplosa la più grave crisi industriale del 2022.
Giovedì 14, durante la votazione del cosiddetto decreto aiuti alla camera dei deputati, la multinazionale finlandese Wärtsilä ha comunicato ai sindacati che avrebbe chiuso lo stabilimento triestino e spostato la produzione di motori per le navi in Finlandia, licenziando 451 lavoratori su un totale di 973. I lavoratori si sono subito mobilitati e hanno organizzato un presidio fisso davanti alla fabbrica, per evitare che i macchinari e i motori all’interno venissero smontati e portati via. Nelle stesse ore a Roma il decreto aiuti veniva approvato senza il voto del Movimento 5 stelle, Draghi apriva la crisi di governo e nessuno si preoccupava di ciò che stava accadendo nella lontana città adriatica.
Sabato 16 luglio i lavoratori della Wärtsilä hanno manifestato in piazza Unità a Trieste. A solidarizzare con loro c’era uno schieramento molto variegato: il sindaco di centrodestra Roberto Di Piazza e l’arcivescovo Gianpaolo Crepaldi, i portuali contrari al green pass e associazioni cattoliche come le Acli, i sindacati confederali e quelli di base. A Trieste sono a rischio 1.200 posti di lavoro, tra la chiusura della multinazionale finlandese, quella dell’ex prosciuttificio Principe prevista per la fine di settembre e la crisi della Flextronics. Quest’ultima ha 500 dipendenti, produce componenti in particolare per la Nokia, ha bloccato la produzione per la difficoltà di far arrivare i componenti dei microchip dall’estremo oriente a causa dei blocchi dovuti alle misure anti-covid e per l’aumento dei prezzi delle materie prime, e ora vorrebbe delocalizzare in Romania.
Il presidente della regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, della Lega, ha convocato i dirigenti italiani della Wärtsilä per provare a farli tornare sui loro passi, ma invano. Da più parti è arrivata la richiesta al ministro dello sviluppo economico (Mise) Giancarlo Giorgetti di nazionalizzare la fabbrica, utilizzando come modello quello sperimentato per salvare la Corneliani, uno storico marchio di abbigliamento di Mantova. In quel caso il Mise, attraverso la società controllata Invitalia, ha investito 6,5 milioni di euro nel capitale di una nuova società costituita per rilevare la precedente.
“Mi auguro che sia un segnale positivo anche per altre realtà che possono vedere in quello che ormai è conosciuto come metodo Corneliani la possibilità di un futuro per tanti lavoratori e per aziende di eccellenza che non devono chiudere o trasferirsi”, ha commentato Giorgetti il 31 novembre 2021, subito dopo la conclusione dell’accordo per il salvataggio. Da allora, il cosiddetto metodo Corneliani non è stato più utilizzato. Non è stato proposto in nessuno dei 69 tavoli di crisi tuttora aperti al Mise, il più importante dei quali – e tuttora irrisolto - è quello che riguarda la Gkn, la fabbrica di componenti per auto di proprietà di una multinazionale britannica che a luglio 2021 ha chiuso licenziando 422 lavoratori.
L’ultimo tavolo di crisi si è svolto il 22 luglio, il giorno dopo le dimissioni del governo
Il governo ha sempre adottato soluzioni di mercato. E a causa della competizione tra il ministro Giorgetti e la sua vice Alessandra Todde, del Movimento 5 stelle, agli incontri con i rappresentanti dei sindacati e con i vertici delle aziende era quasi sempre presente la seconda, ma con le armi spuntate.
Anche nel caso della Wärtsilä, la proposta di nazionalizzazione è tramontata nel giro di pochi giorni. Il 21 luglio a Trieste era prevista una visita della commissione industria del senato, ma “è stata rinviata a data da definirsi” per via della crisi politica. Era il giorno in cui il presidente della repubblica ha sciolto le camere. Al ministero dello sviluppo economico è tutto fermo: gli incontri con i rappresentanti delle aziende e le organizzazioni sindacali sono stati affidati ai tecnici, in attesa che s’insedi un nuovo governo per affrontare un autunno che lo stesso Draghi ha definito “difficile”.
L’ultimo tavolo di crisi si è svolto il 22 luglio, il giorno dopo le dimissioni del governo, rimasto in carica solo per gli “affari correnti”. Riguardava proprio la ex Gkn, che dalla fine di luglio dovrebbe passare a una nuova proprietà, la Qf guidata dall’imprenditore Francesco Borgomeo, con l’obiettivo di rilanciare l’impianto producendo macchinari per l’industria farmaceutica e salvando 390 posti di lavoro su 422. In ballo c’era anche l’integrazione con il progetto presentato dagli ex lavoratori e da un collettivo di studiosi, che prevede una riconversione dello stabilimento nell’ambito di un piano pubblico per la mobilità sostenibile. All’incontro, coordinato da Luca Annibaletti, responsabile della struttura creata dal ministero per affrontare le crisi d’impresa, non c’era nessun rappresentante del governo dimissionario.
Il 27 luglio i rappresentanti della Wärtsilä hanno confermato al ministro Giorgetti l’intenzione di chiudere. Ora il caso passerà al nuovo governo, ma nel frattempo l’azienda potrebbe già aver abbandonato Trieste. Il 23 luglio, in gran segreto, approfittando della disattenzione di politici e mezzi d’informazione, la multinazionale ha già svuotato lo stabilimento, come ha rivelato il quotidiano Il Piccolo. Gli operai in presidio se ne sono accorti e sono riusciti a impedire che fossero portati via motori per 60 milioni di euro.
Intanto la multinazionale potrebbe ricevere 34 milioni di euro dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), dopo aver ricevuto quasi 90 milioni di euro di contributi regionali o del ministero dello sviluppo economico. Per la Fiom-Cgil “questo caso dimostra ancora una volta l’inefficacia della legislazione italiana nel contrastare lo strapotere delle multinazionali e fermare le delocalizzazioni produttive”.
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