Per alcune settimane hanno dormito nella loro auto, una station wagon abbastanza capiente ma non per ospitare padre, madre, una figlia di 31 anni, la seconda di 14 e un figlio di 8. La famiglia Omerovic ogni notte si ferma in una periferia diversa, dove trova un posto appartato e poco illuminato, per non dare indizi a chi potrebbe cercarli. Gli Omerovic sono soli e hanno paura. Da quando il primogenito, Hasib, è volato dalla finestra della loro abitazione dopo una perquisizione senza mandato della polizia, al piano rialzato di una casa popolare a Primavalle, un quartiere di 56mila abitanti nella periferia nordovest di Roma, sospettano di tutto e di tutti. Credono che qualcuno, nel quartiere, li abbia presi di mira e per questo non vogliono tornarci. Preferiscono dormire per strada. I ragazzi non vanno a scuola e i genitori non vanno a guadagnarsi la giornata come facevano di solito vendendo merce di seconda mano al mercato.
“Come potremmo dormire tranquilli la notte dopo quello che ci hanno fatto?”, dice Mehmedalija, il padre. Quello che è accaduto gli ricorda i tempi del conflitto nella ex Jugoslavia, quando abitava nel villaggio a 80 chilometri da Sarajevo dal quale è dovuto scappare nel 1992. È stanco, ha il volto emaciato e gli occhi cerchiati per la mancanza di sonno. Parla un italiano incerto, dice che è a causa della stanchezza, che gli fa perdere lucidità. “Mi sento in guerra come allora”, dice.
Tutto è successo proprio quando sembrava che gli anni più duri fossero alle spalle: dopo la fuga dalle persecuzioni in Bosnia e 27 anni trascorsi in tre diversi campi rom della capitale, gli Omerovic vivevano finalmente in una casa popolare assegnata dal comune.
La mattina del 25 luglio, verso le 12.30, Sonita Omerovic sente squillare il citofono. Con lei in casa c’è solo suo fratello Hasib, che è sordo dalla nascita e per questo non si accorge che qualcuno sta bussando. Va ad aprire e si trova davanti quattro persone, tre uomini e una donna. Dicono di essere agenti di polizia e di essere lì per un “controllo dei documenti”. Sonita, 31 anni, che ha una disabilità intellettiva, non sa opporsi e li fa entrare. Le foto scattate da uno dei poliziotti la ritraggono seduta sul divano vicino al fratello. Appaiono tranquilli, l’immagine non lascia presagire nulla di ciò che accadrà di lì a poco.
Hasib ha 36 anni ed è l’unico dei quattro tra fratelli e sorelle a essere nato in Bosnia prima che la famiglia, di etnia rom, fuggisse dal paese a causa della guerra. È arrivato a Roma nel 1992 ma non ha la cittadinanza italiana. Sua sorella Sonita è nata proprio in quel periodo. Anche lei non è cittadina italiana, pur essendo nata in Italia.
I due consegnano i documenti senza protestare. Poi succede qualcosa, di sicuro c’è una colluttazione. Sonita non riesce a spiegare nei dettagli cos’è accaduto. Per giorni continua a piangere, in stato di shock, prima di cominciare a parlare, aiutata da Patrizia Allaria, l’amministratrice di sostegno nominata dal giudice tutelare. Il suo racconto è semplice e chiaro. “Hasib è caduto e hanno iniziato a dargli i calci, poi è scappato in camera e loro hanno rotto la porta, gli hanno dato pugni e calci”. La porta della stanza è stata ritrovata sfondata e la serratura divelta. All’interno c’erano una maglietta di Hasib intrisa di sangue, una scopa con il manico spezzato, un ventilatore rotto e il tubo esterno di un termosifone semidivelto. Pure le lenzuola del letto erano sporche di sangue. I documenti sono rimasti aperti sul tavolo del soggiorno.
Un problema con tuo figlio
Sonita dice di essere rimasta in soggiorno durante il pestaggio, controllata dalla poliziotta, ma di aver sentito e visto tutto. A un certo punto, racconta, gli agenti hanno tirato su l’avvolgibile, “hanno preso Hasib per i piedi e lo hanno buttato giù”. Secondo i poliziotti, sarebbe stato invece Hasib a sollevare all’improvviso la tapparella e a lanciarsi nel vuoto, in un tentativo di suicidio o forse per sfuggire agli agenti. Quando la procura di Roma ha aperto un’inchiesta indagando i quattro poliziotti, uno di loro ha sostenuto di avere un video che dimostra come Hasib si è “buttato di sotto”. La finestra affaccia sul retro del palazzo, il dislivello è di nove metri e non c’è alcun appiglio.
Una vicina di casa sente il tonfo e si affaccia. Racconta che Hasib ha cercato di alzarsi e si è spostato di un metro prima di perdere coscienza. Scatta una foto dall’alto che lo ritrae accasciato, a torso nudo e coperto di sangue, con le spalle poggiate alla ringhiera che separa la striscia di cemento che circonda il palazzo dal cortile del condominio di fronte. Indossa un paio scarpe nere con le calze dello stesso colore e dei pantaloncini mimetici.
Alle 13.15, Mehmedalija Omerovic si trova da un meccanico, dove ha portato a riparare la sua auto. Insieme a lui ci sono la moglie Fatima e la figlia Erika, 14 anni, che si è appena iscritta a una scuola di formazione professionale per estetiste, sempre a Primavalle. A chiamarlo è la signora Francesca, la sua vicina di pianerottolo. “Torna a casa, c ‘è un problema con tuo figlio Hasib”, gli dice. La donna non fa in tempo a finire di parlare che un poliziotto le toglie di mano il telefono. Aggiunge che il giovane “è ferito, sta bene e si trova in ospedale”. Un quarto d’ora dopo tutta la famiglia è davanti all’abitazione, al civico 24 di via Aleandro.
Il complesso di edifici, di proprietà dell’Azienda territoriale per l’edilizia pubblica (Ater), l’ente pubblico che gestisce 11mila case popolari nella capitale, avrebbe bisogno di una ristrutturazione. Il parco di fronte – intitolato ad Annarella Bracci, una ragazzina di 12 anni che viveva da queste parti scomparsa il 18 febbraio 1950 e ritrovata in fondo a un pozzo, un caso che scosse l’Italia del dopoguerra e che nel quartiere pure i più giovani conoscono rivelando, sotto voce, il nome dell’assassino che non sarà mai scoperto – è abbandonato all’incuria. Ma l’appartamento è dignitoso e la famiglia ci vive bene.
All’ingresso della scala M gli Omerovic trovano i quattro agenti in borghese, che ribadiscono che Hasib “sta bene, ha solo un braccio rotto”. Sonita piange, è in stato di shock. Racconterà quello che ha visto e sentito solo qualche giorno dopo. Tutti insieme vanno al Policlinico Gemelli, dove il loro familiare è stato portato in ambulanza. Solo lì scoprono che Hasib è ricoverato in rianimazione con fratture multiple e la milza spappolata. È in coma e non si sa se sopravviverà.
Il giorno dopo vanno al commissariato di Primavalle per chiedere spiegazioni. Hanno saputo da un agente che non aveva partecipato al blitz che Hasib è accusato di molestie, che si è buttato da solo e che la polizia ha già fatto tutti i rilievi, una cosa che invece non è mai avvenuta. L’avvocata Susanna Zorzi, che difende la famiglia, spiega che al commissariato “informalmente, senza riceverli, sull’uscio”, due poliziotti ammettono di “essere andati quella mattina per un controllo di documenti e, per dimostrare ai genitori che Hasib era rimasto tranquillo fino al momento di lanciarsi dalla finestra, mostrano le foto che avevano scattato a lui e a Sonita, seduti sul divano di casa”.
La denuncia
La notizia non finisce neppure sulle cronache locali di giornali e tg. Gli Omerovic sono soli e la vicenda sembra chiusa. Ma loro non si rassegnano. Si rivolgono all’Associazione 21 luglio, “che supporta gruppi e individui in condizione di segregazione estrema e di discriminazione, tutelandone i diritti e promuovendo il benessere delle bambine e dei bambini”, come si legge sul sito. La ong è un punto di riferimento per i rom della capitale, che vi si rivolgono per i problemi più disparati, a cominciare da quello della casa.
Il portavoce Carlo Stasolla si fa raccontare tutto, è incredulo e vuole assicurarsi che la notizia sia vera. Prepara un dossier con le prove raccolte e il 10 agosto, quando gli è chiara la gravità del fatto, porta la famiglia a denunciare l’accaduto alla procura della repubblica di Roma. “Sulle prime, quando ci hanno raccontato questa storia sconvolgente, abbiamo stentato a crederci, ci siamo convinti che fosse vera solo dopo vari sopralluoghi, dopo aver visto e confrontato foto e aver ascoltato testimoni, che però per paura non vogliono comparire”, dice.
Perché il caso esploda bisogna aspettare un altro mese, quando l’associazione convoca una conferenza stampa alla camera dei deputati insieme agli avvocati Zorzi e Arturo Salerni. Lo stesso giorno il parlamentare Riccardo Magi, di +Europa, presenta un’interrogazione alla ministra dell’interno Luciana Lamorgese per chiedere un’indagine interna alla polizia, da affiancare a quella giudiziaria. I quattro agenti vengono indagati per tentato omicidio in concorso e falso ideologico, poiché avrebbero omesso nelle relazioni di servizio alcune informazioni importanti.
Dai primi accertamenti, si viene a sapere che l’intervento è avvenuto senza un mandato di perquisizione. Il capo della polizia Lamberto Giannini annuncia che seguirà “in prima persona gli accertamenti che la Questura di Roma sta effettuando per far luce su quanto accaduto con la massima trasparenza” e il dipartimento di pubblica sicurezza sostituisce la dirigente del commissariato di Primavalle e il suo vice.
Nessuno spiega perché gli agenti siano andati a bussare al citofono degli Omerovic, la mattina del 25 luglio. La famiglia bosniaca vive nella casa popolare di Primavalle dal 2019, dopo aver peregrinato per 27 anni nelle baraccopoli della capitale, prima a Tor di Valle, poi dal 1996 a Tor de’ Cenci, infine dal 2012 alla Barbuta, in uno dei campi rom voluti dall’allora sindaco Gianni Alemanno. Hanno iscritto Erika alla scuola media e il più piccolo alla scuola elementare, hanno una regolare licenza di venditori ambulanti. Hanno buoni rapporti con i vicini di casa, che parlano di loro come di “una famiglia tranquilla” e di Hasib come di “un bravo ragazzo”.
Via di Primavalle
Tutto sarebbe nato da un post comparso una settimana prima sul gruppo Facebook Primavalle, che ha un centinaio di iscritti. Una signora del posto ha pubblicato una foto di Hasib che trascina un carrello della spesa, scrivendo “fate attenzione a questa specie di essere perché importuna le ragazze, bisogna prendere provvedimenti”. Uno degli agenti intervenuti la mattina del 25 luglio ha confermato al quotidiano Il Messaggero che il blitz nel condominio di via Aleandro era stato deciso “per quel post su Facebook e per alcune segnalazioni arrivate in commissariato”.
Paolo Soldani, titolare del bar Er barone – “non nel senso di ‘barone’ ma di grande bar”, spiega – insegna verde a caratteri cubitali e veranda che prende un intero marciapiede della centrale piazza Pio IX, ha confermato al Corriere della Sera le voci che circolavano su Hasib. Ha detto che proprio quella sera sarebbe dovuto andare a parlare con lui per dirgli di “farla finita una volta per tutte, di smetterla con i suoi atteggiamenti molesti verso le donne del quartiere, prima che a un branco di quindicenni potesse venire l’idea di accoltellarlo per strada”. Un’altra ipotesi circolata sui giornali è che il giovane avrebbe importunato la nipote di un poliziotto e che per dargli una lezione gli agenti avrebbero organizzato una sorta di spedizione punitiva non autorizzata.
A due mesi dal fatto, Hasib è ancora ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma e non è in grado di comunicare. Ha subìto tre interventi chirurgici e non è più in pericolo di vita, ma è mantenuto in coma indotto. La casa degli Omerovic non è stata sequestrata e all’Associazione 21 luglio temono che eventuali prove possano essere inquinate. Stasolla lamenta l’apatia della città su una vicenda che, anche se Hasib si fosse buttato dalla finestra di sua volontà, sarebbe comunque inquietante perché coinvolge chi ha il dovere di proteggere i cittadini e non di agire sulla spinta di dicerie di quartiere.
Il 21 settembre gli Omerovic si sono presentati al Campidoglio e il comune gli ha trovato una sistemazione provvisoria in un’altra zona della città, in attesa di un alloggio popolare lontano da Primavalle. “È una vita dura”, conclude Mehmedalija. A 53 anni, dopo la guerra in Bosnia e una vita da zingaro, credeva di aver trovato, insieme alla casa, la tranquillità.
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