In Italia circa 13mila rom abitano in 122 insediamenti istituzionali. Sono, invece, tra i 17mila e i 21mila i braccianti stranieri che vivono nei cosiddetti ghetti agricoli. Rom e braccianti condividono un’esperienza abitativa frutto di processi segregativi che, innescati da dinamiche sociali e migratorie diverse, hanno dato vita a modelli di esclusione in cui si combinano, in maniera ambivalente, presenza e assenza di interventi pubblici.
La nascita dei campi rom è il risultato di decisioni politiche prese a partire dagli anni ottanta dalle amministrazioni comunali per dare una risposta al problema dell’accesso alla casa per rom e sinti. Gli interventi realizzati erano pensati per un gruppo di cittadini considerati, a torto, nomadi e con caratteristiche culturali omogenee.
Anche i cosiddetti ghetti agricoli sorgono a partire dagli anni ottanta ma, a differenza dei primi, sono luoghi informali, creati dagli stessi lavoratori nella totale invisibilità pubblica e nella disattenzione istituzionale verso il fenomeno della migrazione, che proprio in quegli anni inizia ad assumere dimensioni significative. Si tratta di baraccopoli che puntellano le traiettorie del lavoro agricolo stagionale e che rispondono all’esigenza, tutt’altro che secondaria, di garantire manodopera deprivata di diritti, funzionale alla domanda di lavoro a basso costo espressa dalle articolate filiere della produzione e distribuzione dei prodotti agricoli del paese.
Negli ultimi decenni le dinamiche di esclusione create da questi luoghi sono state denunciate dagli attivisti e messe in luce da numerosi studi. La necessità e l’urgenza di superarle è divenuta una consapevolezza diffusa. Ma se per i rom almeno una quarantina di amministrazioni comunali hanno avviato processi che mirano a portare gli abitanti degli insediamenti monoetnici in alloggi convenzionali (per approfondire: www.ilpaesedeicampi.it), per quanto riguarda i ghetti agricoli, gli interventi messi in atto sono andati raramente oltre l’allestimento di precarie foresterie, distese di container in aperta campagna spesso prive di collegamenti con i centri urbani.
A ben guardare, la scelta di destinare spazi isolati e lontani dai centri urbani, gestiti direttamente dalle autorità pubbliche spesso in collaborazione con organizzazioni del terzo settore, ripropone oggi per i braccianti lo stesso approccio escludente che in passato è stato usato per le popolazioni rom e che portò all’istituzione dei campi. Anche per i braccianti il tema dell’accesso a una sistemazione abitativa è ricondotto a un unico modello, che in questo caso è pensato per una popolazione concepita aprioristicamente come omogenea e accomunata da bisogni simili e in qualche modo speciali. Si tratta di un approccio che – come insegna la storia dei campi rom gestiti dalle istituzioni – non può che produrre esclusione, sospendendo la vita dei soggetti in uno stato di eterna provvisorietà.
Oggi è necessario un radicale cambio di paradigma, anche in considerazione dell’attuale congiuntura storica, visto che il Pnrr ha stanziato 200 milioni di euro per il superamento dei ghetti agricoli. È una cifra considerevole che sarà messa a disposizione dei comuni italiani che dovranno quindi fare molta attenzione a non ripetere gli errori del passato. Avranno il non semplice compito di costruire percorsi di inclusione sociale che per essere efficaci non potranno che partire dai bisogni e dalle aspettative di chi oggi è costretto a vivere nei ghetti. ◆
Antonio Ciniero insegna sociologia delle migrazioni all’Università del Salento.
A. Ciniero, Modelli politici e processi di istituzionalizzazione come vettori di esclusione e marginalità sociale: il caso dei campi rom e dei ghetti agricoli, Sociologia urbana e rurale (2021)
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