C’è un borgo nell’entroterra lucano dove il vino, da sempre, viene prodotto nei palmenti, antiche strutture sotterranee, uniche nell’architettura rurale italica. Siamo a Pietragalla, in provincia di Potenza, il cui centro storico è abitato da 119 persone. Il paese, a 840 metri sul livello del mare, domina la valle attraversata dal fiume Cancellara e si sviluppa tra chjazz e chjazzòdd (vicoli e vicoletti) selciati in pietra. Come lo sono anche le facciate delle case, i campanili, le chiese e il palazzo Ducale, che ancora oggi è abitato dai nipoti del fattore dell’ultima famiglia nobiliare del luogo, gli Acquaviva.
La diffusa devozione a san Rocco è evidente dal nome degli anziani e anche di qualche giovane: Rocco e Rocchina sono le due guide che ci accompagnano alla scoperta di Pietragalla.
Scavati nel fianco meridionale della collina su cui sorge il borgo, i palmenti sono grotte di tufo risalenti all’inizio dell’ottocento, che oggi conservano un carattere quasi fiabesco. “L’etimologia della parola palmento deriverebbe dal latino pavimentum, per il piano dove si pigiavano le uve”, racconta Rocchina D’Amico, membro della pro loco di Pietragalla e fondatrice, insieme ad altre donne del posto, della cooperativa Pietragalla experience.
L’interno di ogni grotta presenta due o tre vasche. L’uva, trasportata sugli asini dai vigneti circostanti, era versata nella vasca più piccola e pigiata a piedi nudi, poi il mosto confluiva attraverso un foro nella vasca sottostante. Dopo venti giorni di fermentazione, il vino spillato veniva messo in botti di legno e trasportato nelle rutt, delle grotte per la conservazione concentrate nella parte opposta del paese e dismesse dagli anni sessanta in poi.
Dei duecento palmenti ancora integri, sessanta sono gestiti dal comune e sono aperti al pubblico, ma solo uno è ancora attivo nella sua funzione originale. È il palmento di Antonio Nolè, trentatreenne di Pietragalla laureato in scienze agrarie, che produce venti quintali di vino all’anno. “L’ho ereditato da mio nonno, da cui ho imparato tutti i segreti del mestiere”, racconta.
Le ultime vendemmie nei palmenti risalgono al 1986, Antonio è rimasto l’unico a portare avanti il mestiere di famiglia, sostituendo la pigiatura con i piedi con quella meccanica.
Le donne più minute del paese s’infilavano nude nelle botti per pulirle dalla posa del vecchio vino
La vita di Pietragalla ha sempre ruotato intorno al vino, al punto da dettarne anche la conformazione urbana: il borgo, che si sviluppa in tre anelli concentrici, è tagliato dalla cosiddetta “via del vino”, una scorciatoia che permetteva di spostarsi in modo più rapido tra i palmenti e le rutt.
“Le abitazioni, le strade, il modo di vivere, le relazioni familiari, i comportamenti: tutto qui parla in modo contadino”, scrive Rocco Manzella, storico di Pietragalla, nel suo libro Pietragalla ieri e oggi (Teodosio Pisani Edizioni 2019). Oggi il borgo conserva ancora quell’atmosfera grazie alle storie dei suoi abitanti.
Tra i più noti c’è la famiglia Z’cchin. La porta d’ingresso della sua rutt è formata da due lastre di legno legate insieme da fil di ferro: entrarci dentro è come andare indietro nel tempo. Bisogna scendere una decina di gradoni di pietra, di cui solo i primi vengono illuminati dalla luce esterna, poi serve la torcia.
Alla fine delle scale il suolo è umido e dissestato; qui, d’estate e d’inverno la temperatura resta costante sui sedici gradi, anche grazie alla scelta di costruire le rutt sul versante nord del paese. Proseguendo fino in fondo alla grotta si trovano le botti, sistemate in due file.
Sulle tracce dei templari
Ogni rutt aveva più proprietari, che si assicuravano il “posto botte”. “Ogni ottobre, prima dell’inizio della vendemmia, le donne più minute del paese s’infilavano nude nelle botti per pulirle dalla posa del vecchio vino, grattando le superfici interne con cenere e pungitopo. Entravano da una fessura molto stretta e ci rimanevano dentro per ore”, racconta Manzella, spiegando come intorno al vino fossero nati mestieri di ogni tipo. Un altro era quello del vastas, il mediatore che accompagnava a Pietragalla possibili acquirenti dalle regioni limitrofe, per fargli assaggiare il vino.
La tradizione enologica non è l’unica che caratterizza questo borgo. Anche se non esistono fonti scritte, testimonianze orali tramandate per secoli legano Pietragalla al passaggio dei cavalieri dell’ordine religioso dei templari, diretti in Terra Santa all’epoca delle crociate.
I santi venerati – come Cataldo, Teodosio, Giorgio – e quelli a cui sono intitolate le cappelle di campagna portano il nome di cavalieri templari. Inoltre passeggiando per i vicoli di Pietragalla ci si imbatte più volte in croci templari, come quella che sovrasta un ingresso laterale, oggi murato, della chiesa madre di San Nicola di Bari.
Le tracce di questa leggenda sono ancora più visibili nelle architetture della vicina Acerenza, il centro principale della cosiddetta “valle dei cavalieri”, e in particolare in alcuni dettagli della sua cattedrale, dedicata a santa Maria Assunta e a san Canio vescovo. Una piccola finestra murata nella cripta viene indicata dalla tradizione come il luogo in cui, da secoli, sarebbe conservato il santo Graal.
Un’altra leggenda riguarda il vescovo Canio: arrestato in Africa nel terzo secolo e condannato alla decapitazione perché cristiano, si salvò solo grazie a degli eventi climatici inspiegabili che spaventarono il boia prima dell’esecuzione. Il corpo del vescovo è sepolto in questa chiesa insieme ad alcune reliquie e, secondo una radicata credenza popolare, il suo bastone, quando viene esposto, si muove da solo.
La presenza di uno strano stemma di un drago alato sulla facciata ha spinto alcuni a ipotizzare che nella cattedrale sia sepolta la figlia del principe Vlad III di Valacchia, l’uomo intorno a cui è nata la leggenda del conte Dracula. Il drago alato era infatti il simbolo araldico del principe e i mostri scolpiti accanto al drago sembrano fare un ulteriore riferimento alla famiglia della Transilvania. Che siano solo leggende o no, tutti questi racconti ormai fanno parte dell’identità culturale degli abitanti del posto e oggi sono un biglietto da visita che attira i turisti.
Longobardi e bizantini
Acerenza è un borgo molto antico. Già nel quinto secolo dC era indicato tra i più ricchi dell’Italia meridionale, tanto da essere scelto, il secolo successivo, dall’imperatore Giustiniano come presidio militare. Conteso per anni da longobardi e bizantini, il suo declino è cominciato con il saccheggio voluto dall’imperatore Enrico VI, padre di Federico II. Da quel momento il borgo si è avviato a una lenta decadenza a causa del passaggio di mano in mano.
Oggi Acerenza è un tipico paese di campagna lucano, con un centro storico molto ben curato. Spettacolare è la sala degli stemmi del palazzo vescovile: un salone affrescato nel 1709 con decine di stemmi araldici e vedute paesaggistiche di una Basilicata primitiva e selvaggia.
Nei dintorni del paese ci sono delle bellezze naturali tutte da scoprire. Il lago di Acerenza, per esempio, è un grande bacino artificiale nato dallo sbarramento del fiume Bradano. Per gli amanti degli sport all’aperto ci sono a pochi passi l’appennino lucano e le colline d’argilla dalle formazioni spettacolari.
E poi ad Acerenza passano diversi sentieri per passeggiate e trekking. Tra i più caratteristici c’è il percorso che conduce alla Murgia della Madonna: un grande sperone roccioso che spunta dall’area boschiva limitrofa e che deve il nome alla sua forma che ricorda una Madonna in preghiera.
Acerenza infine può essere l’inizio di un viaggio più grande: per chi vuole seguire le leggende dei templari il percorso continua verso i borghi di Venosa, Castelmezzano, Oppido Lucano e Banzi.
La saittera
A Pietragalla, un’antica rutt adattata a ristorante che propone vera cucina lucana.
Le masserie del falco
Ad Acerenza, cucina contemporanea in un agriturismo di campagna
Ristorante al Duomo
Ad Acerenza, ristorante gourmet con piatti regionali in un palazzo ottocentesco
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