Due colpi di clacson e la strada sterrata che attraversa il campo rom di Cupa Perillo si riempie di bambini e bambine che corrono e parlano a voce alta. Circondano il piccolo pulmino con cui tre pomeriggi a settimana l’operatrice Susy Mascolo percorre le vie di Scampia, nella periferia nord di Napoli, per raccogliere un gruppo di studenti delle scuole elementari.
“Hai preso lo zaino? Tuo fratello viene? Maria, perché non vuoi venire?”, chiede dal finestrino. Alla fine salgono Teresa e Angelica, dieci anni, amiche da sempre, Michele, sei anni, e, dopo qualche promessa e rassicurazione, Vittorio, che le elementari le ha finite.
Il giro è sempre lo stesso: la prima tappa è il campo, poi il comprensorio del Lotto P – le “case dei puffi” perché, a differenza dei palazzoni che le circondano, sono basse – e, infine, le Vele. Da qui esce Chiara, quasi sette anni, zaino sulle spalle, una grande fascia rosa in testa e una mascherina dello stesso colore. “Il numero è altalenante: dieci, quindici. Alcuni giorni vengono tutti, altri meno”, spiega Mascolo.
La destinazione finale è la scuola popolare dell’associazione Chi rom…e chi no, che si tiene negli spazi del bar sopra l’auditorium di Scampia, chiuso da tempo. Nata come gruppo informale nel 2002 in una baracca all’interno del campo, da anni l’associazione promuove iniziative sociali che coinvolgono tutto il quartiere, senza differenze. Il lunedì, il mercoledì e il venerdì i locali sono aperti e popolati da educatori ed educatrici che aiutano i ragazzi a fare i compiti, scrivere e leggere, tra laboratori creativi e altre attività.
Le esperienze che funzionano sono quelle che si radicano nel territorio e riescono a fare comunità
“Vengono bambini e bambine della scuola primaria, fino agli 11-12 anni, rom e non, che abitano a Scampia e frequentano gli istituti della zona. Ce ne sono anche alcuni che non vanno a scuola o che ci vanno saltuariamente, soprattutto tra i bimbi rom”, dice Barbara Pierro, avvocata del gruppo che ha dato vita a Chi rom…e chi no.
Un fenomeno, quello della “frequenza a singhiozzo”, che, secondo un’indagine del 2018 in alcune scuole primarie di Scampia e dell’ottava municipalità di Napoli, riguarda gli studenti tra i 5 e i 13 anni. Nel territorio la quota di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano arriva al 30 per cento, per la maggior parte appartenenti a famiglie vulnerabili dal punto di vista socioeconomico.
“Spesso devo chiedere alle famiglie di farmi avere i compiti che i bambini devono fare o di mandare i figli a scuola. E quando ce li mandano, i bambini si trovano in difficoltà, perché sono indietro con i programmi e vivono un senso di discriminazione”, spiega Giovanna Mauriello, educatrice del centro.
Per questo la scuola popolare è molto più di un doposcuola: “Per esempio se a un bambino è stato assegnato un compito che lui non è stato in grado di svolgere, non glielo facciamo rifare, ma proviamo ad aiutarlo usando approcci diversi, come i giochi di gruppo”.
Costruire relazioni
Anche chi non ha compiti per l’indomani o non è andato a scuola viene coinvolto. Ad Angelica e Teresa le educatrici hanno chiesto di scriversi reciprocamente una lettera, raccontandosi un ricordo di un’esperienza fatta insieme. A Teresa scrivere piace, ha finito velocemente e ha fatto anche un ritratto dell’amica. “La riconosci perché sotto ha i capelli più biondi”, dice.
“Le esperienze che funzionano sono quelle che si radicano nel territorio e riescono a fare comunità intorno ai ragazzi. Nessuno di noi immagina di astrarli dal contesto in cui vivono e costruire un’oasi felice”, afferma Pierro. L’obiettivo è costruire relazioni con i ragazzi “mettendoli al centro come persone, anche sperimentando linguaggi diversi e coinvolgendo le famiglie”.
Le madri del quartiere vengono coinvolte in laboratori di cucina e a volte rimangono in contatto con l’associazione. Ai ragazzi più grandi vengono offerti corsi di teatro.
Sul sito di Chi rom…e chi no campeggia una frase di Paulo Freire, educatore brasiliano e padre della “pedagogia degli oppressi”: “Nessuno educa nessuno, nessuno educa se stesso, gli uomini si educano l’un l’altro con la mediazione del mondo”. Il pensiero di Freire è un punto di riferimento per molte scuole popolari sorte in Italia, insieme a quello del sociologo ed educatore Danilo Dolci e al lavoro pedagogico da fare insieme alle comunità, “sognando gli altri come ora non sono” perché “ciascuno cresce solo se sognato”, come diceva Dolci.
Princìpi che “di volta in volta si calano nella specifica situazione. Le scuole popolari nascono a seconda dei bisogni del territorio. Anche la scuola pubblica dovrebbe uscire dal suo edificio ed entrare in osmosi con lo spazio circostante”, spiega Elena Zizioli, docente di letteratura per l’infanzia e pedagogia della narrazione all’università Roma Tre.
Un’altra figura di riferimento è don Lorenzo Milani e con lui gli alunni della scuola di Barbiana, a pochi chilometri da Firenze, che nel 1967 scrissero Lettera a una professoressa, una critica della scuola classista che discriminava i figli dei contadini. Un “vademecum di ogni insegnante democratico per lunghi, lunghissimi anni”, l’ha definito la storica Vanessa Roghi, che nel saggio La lettera sovversiva ha ricostruito la storia culturale del libro. Nello stesso periodo in Italia sorsero decine di scuole popolari e progetti di educazione dal basso.
Tra queste, quella romana di don Roberto Sardelli, che nel 1968 si trasferì nell’insediamento di baracche dell’Acquedotto Felice e creò la Scuola 725per i ragazzi e le ragazze dell’insediamento, figli di migranti per lo più provenienti dall’Abruzzo e dal sud dell’Italia che non riuscivano a stare al passo con i compagni e finivano per essere emarginati dall’istruzione pubblica.
La scuola fu attiva fino al 1973, quando gli abitanti delle baracche furono trasferiti a Nuova Ostia. La missione della Scuola 725 non era tanto l’istruzione dei ragazzi e delle ragazze, ma dare vita con le persone a “un percorso che le facesse evolvere dalla condizione di portatrici di bisogni a portatrici di diritti, esigenze, aspirazioni”, scrive Massimiliano Fiorucci, professore di pedagogia sociale all’università Roma Tre, che a don Sardelli ha dedicato un libro.
Essere e sapere
Negli ultimi dieci anni, con l’emersione di nuove e vecchie povertà, nelle città italiane si sono moltiplicate esperienze di scuole popolari. L’occupazione abitativa Spin time labs di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, ospita cinquecento persone provenienti da diverse parti del mondo. Al suo interno è presente una scuola popolare dedicata ai ragazzi che abitano il palazzo.
“Nasciamo nel 2014”, racconta Rosalucia Moccia, assistente sociale e volontaria dell’associazione Icbie Europa. Non tutti gli educatori sono docenti, ognuno mette a disposizione le sue competenze.
“Siamo partiti con venti bambini che facevano elementari e medie e tre o quattro alle superiori. Poi sono raddoppiati”, spiega Moccia. “I primi tempi salivamo per i piani a chiamare i ragazzi, chiacchierando anche con i genitori. Ci radunavamo tutti insieme e poi ci dividevamo in base ai compiti da fare. Abbiamo sempre coinvolto le famiglie, organizzando incontri, anche con un avvocato per le questioni legate alla cittadinanza e ai diritti. L’obiettivo è creare una comunità che si prende cura e si costruisce insieme”.
In una situazione di povertà educativa non bastano le nozioni: è lì che la scuola fallisce
Negli ultimi mesi, tra pandemia e problemi di agibilità di alcuni spazi dell’edificio, le attività hanno rallentato perché ci sono meno volontari. Micaela, 20 anni, da studente vorrebbe passare a volontaria e riprendere a pieno regime le attività della scuola. Abita a Spin time labs dall’inizio, è nata in Bolivia e presto prenderà il diploma in un istituto professionale odontotecnico. Da qualche settimana aiuta un bambino a fare i compiti.
Secondo Cesare Moreno, “maestro di strada” da anni impegnato a Napoli con la sua associazione di educatori contro la dispersione scolastica, “il problema della scuola sono i ragazzi che perde”, ma questo è solo “il sintomo di una malattia diffusa che è la separazione tra l’essere e il sapere”.
Un aspetto rilevante, sottolinea Zizioli, è che questi progetti “non si limitano all’apprendimento, ma offrono attività sociali di vario tipo. Per intervenire su una situazione di povertà educativa non bastano le nozioni: è lì che la scuola fallisce perché non va oltre i confini dei programmi scolastici”.
Le scuole popolari di cinquant’anni fa “erano più oppositive”, si battevano contro un’istituzione che segregava. “Da lì nacquero le riforme negli anni settanta e ottanta , come quella del tempo pieno: si capì che la ‘scuola della mattina’ lasciava indietro chi fuori non aveva un contesto educativo adatto”, riflette la docente, che fa parte di un gruppo di ricerca all’interno di Roma Tre sulle scuole popolari nella capitale. “Oggi invece nelle scuole popolari ci sono educatori militanti a supporto della scuola pubblica”.
L’esigenza però è la stessa: aiutare chi rimane indietro. Scrive Christian Raimo che la dispersione scolastica “non è mai al centro del dibattito pubblico”, ma è “il più grande problema della scuola italiana. L’elefante nella stanza è enorme, ed è faticoso perfino spostarlo di qualche centimetro”.
Secondo l’Eurostat nel 2021 il 12,7 per cento degli italiani tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente la scuola e si è fermato alla terza media. Una percentuale sopra la media europea, che è del 9,7 per cento. Secondo il report dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (Invalsi) la dispersione scolastica totale, esplicita e implicita (ragazzi che pur avendo un diploma non hanno livelli di competenze sufficienti), supera il 20 per cento.
La stessa analisi restituisce il quadro di una scuola tutt’altro che equa, in cui l’ambiente e lo status sociale di provenienza contano. Il Miur dice che la dispersione scolastica è più consistente al sud, riguarda maggiormente gli italiani di origine straniera, specialmente se nati all’estero, e gli istituti tecnici e professionali.
Apprendimento cooperativo
Di queste scuole s’interessa il progetto di Non uno di meno, associazione fondata nella periferia di Milano da Giansandro Barzaghi, insegnante per quarant’anni con un passato da assessore all’istruzione della provincia lombarda e prima ancora docente nelle scuole operaie negli anni sessanta e settanta.
Non uno di meno non lavora in parallelo alla scuola pubblica, “ma all’interno e a sostegno, con accordi con gli istituti”, spiega. “Il metodo è l’apprendimento cooperativo: i più grandi aiutano i più piccoli, vale il principio del rispecchiamento. E l’obiettivo è occuparci non solo di quello che avviene tra i banchi ma anche della vita che c’è intorno, riuscire a congiungere le due cose. Anche se non è sempre facile”.
La scuola popolare è attiva in una quindicina di istituti in quartieri come Lampugnano, Quarto Oggiaro o Comasina, per lo più tecnici e professionali. “La dispersione scolastica nelle periferie di una metropoli come Milano o nell’hinterland è molto alta. In alcune scuole si arriva a più del 40 per cento”, dice Barzaghi. Durante la pandemia, al liceo Bottoni di Milano alcuni volontari sono riusciti a ripristinare la scuola in presenza dividendo le classi: una parte stava in un’aula con l’insegnante e l’altra metà in un’altra aula con un volontario della scuola popolare.
Esistiamo per non lasciare indietro nessuno, ma è lo stato che dovrebbe creare gli spazi educativi
“Qui vicino c’è Matemù, un’altra scuola popolare. Siamo riusciti a mandare lì gli studenti che avevano meno strumenti tecnologici e meno disponibilità di spazi, perché magari vivevano in dieci in una stanza”, ricorda Moccia di Spin time labs di Roma.
Secondo un’indagine di Save the children su un campione di mille studenti tra i 14 e i 18 anni, il 28 per cento ha detto che almeno un compagno ha smesso di frequentare le lezioni tra marzo 2020 e gennaio 2021. “I ragazzi hanno pagato un prezzo molto alto. Ogni tanto capitava di trovare qualcuno che si era lasciato andare a settanta giorni di assenza”, aggiunge la volontaria.
A Roma le esperienze di scuola popolare hanno creato una rete, riunendo progetti differenti per zone e caratteristiche: oltre a quella di Spin time labs ci sono scuole, tra le altre, a Tor Bella Monaca, San Basilio, Tufello, Garbatella, Ciampino o a Bagheria, in Sicilia, l’unica fuori dal territorio. Uno dei punti della carta comune che hanno elaborato è: “Se il sistema sociale e scolastico funzionasse, le scuole popolari non avrebbero ragione di esistere”.
“Esistiamo per non lasciare nessuno indietro, ma è lo stato che dovrebbe farsi carico di spazi educativi del genere”, dice Sara Pantoni della scuola popolare del quartiere San Basilio, dove secondo i dati di Mapparoma il tasso di non completamento della scuola secondaria di primo grado è al 4 per cento. “Mancano una scuola pubblica aperta tutto il giorno, attività gratuite, sportive e culturali. Mancano ludoteche e centri aggregativi. Ci sono sempre meno fondi nei servizi dedicati all’adolescenza e all’infanzia”.
Secondo Pantoni “la scuola pubblica è bellissima, mira a scardinare dinamiche di classi sociali. Ma quando ci sono servizi educativi di serie A e di serie B, la dispersione scolastica si tramanda di generazione in generazione nei quartieri. O tra i ragazzi e le ragazze di origine straniera, perché mancano i mediatori culturali”. Il senso di mettersi in rete è confrontarsi, “capire come vogliamo la scuola, come trasformarla.”.
Per Barzaghi serve un piano straordinario “a cui possano collaborare anche queste realtà. Ma il volontariato non deve essere inteso come uno scaricabarile per lo stato. Noi facciamo uno sforzo, ma ci rendiamo conto che non può bastare”. Pierro, da Scampia, vorrebbe un giorno “non lavorare più sul bisogno, ma sul desiderio. Non per colmare una lacuna, ma per costruire un orizzonte comune”.
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