Quando lo scorso novembre Marco (il nome è di fantasia), studente trans del liceo scientifico Cavour di Roma, a pochi passi dal Colosseo, ha ritirato il compito in classe di arte corretto dal professore, ha trovato il suo nome cancellato da un tratto di penna. Non si trattava del nome anagrafico presente sul suo documento d’identità, ma di quello scelto dal ragazzo nel suo percorso di affermazione di genere. A consentirgli questa possibilità è un regolamento adottato dall’istituto: si chiama carriera alias, e permette a studenti trans di usare in ambito scolastico (o universitario) il proprio nome di elezione.
Marco ha chiesto spiegazioni al docente. Gli è stato detto che non aveva “nessun diritto a utilizzare un altro nome” e che il regolamento della scuola non aveva importanza. Tutto davanti ai compagni e all’insegnante di sostegno presente in classe.
Il caso del liceo Cavour ha provocato proteste da parte degli studenti, dell’istituto e non solo, che hanno condannato l’episodio parlando di transfobia. A schierarsi apertamente dalla parte del professore, invece, è stata l’associazione Provita e famiglia, da anni impegnata contro la “ideologia gender”. Una battaglia che da diverso tempo coinvolge in primo luogo il mondo della scuola e che vede un bersaglio nella carriera alias.
Accordo di riservatezza
Il 6 dicembre l’associazione ha lanciato “la più vasta campagna legale contro l’ideologia del gender in Italia”, notificando una diffida a 150 istituti che hanno adottato il regolamento, intimandone l’annullamento e chiedendo l’intervento del ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara. Secondo Provita, “assegnare un nome diverso a uno studente in base a una mera auto-percezione di genere”, non solo è una “procedura dannosa per la sua sana maturazione psicofisica”, ma è “in aperto contrasto con le normative vigenti in campo amministrativo, civile e potenzialmente anche penale”, poiché “l’amministrazione scolastica non ha alcun potere di modificare il nome anagrafico e l’identità legale di un individuo”.
Qualche giorno dopo, le associazioni CitizenGo Italia e Non si tocca la famiglia sono state ricevute al ministero, dove hanno consegnato alla sottosegretaria Paola Frassinetti la petizione “Stop gender nelle scuole” che, tra le altre cose, si scaglia anche contro la carriera alias. Il 30 dicembre, invece, Jacopo Coghe, portavoce di Provita e famiglia, ha incontrato il ministro Valditara, a cui ha portato, tra le altre cose, un dossier “con le centinaia di iniziative ideologiche nelle scuole di tutta Italia”, una “dettagliata analisi giuridica sull’illegittimità della carriera alias” e una copia delle diffide.
Nonostante Provita e famiglia parli di “identità legale”, la carriera alias non incide in alcun modo sui documenti anagrafici, la cui eventuale rettifica segue tutt’altra procedura, peraltro spesso lunga e tortuosa. Si tratta piuttosto di un profilo burocratico, un accordo di riservatezza che consente a studenti in un percorso di affermazione di genere di usare, esclusivamente a scuola e all’università, il nome di elezione corrispondente alla propria identità.
“È un accordo che garantisce la possibilità di essere visti e conosciuti dagli altri con il proprio nome di elezione, senza dover fare un coming out obbligatorio o continuo davanti a compagni o insegnanti”, spiega Fiorenzo Gimelli, presidente di Agedo, associazione di genitori, parenti e amici di persone lgbtq+. “Resta fermo che il nome anagrafico è usato in tutti i documenti che hanno valore legale verso l’esterno. Sono due percorsi distinti. L’unica finalità della carriera alias è tutelare il benessere delle persone”.
Il 43 per cento delle persone trans tra i 12 e i 18 anni lascia la scuola prima di aver terminato gli studi
Il regolamento è nato anche grazie alla riflessione di associazioni e genitori. Il senso è quello di rendere effettivo il diritto allo studio delle persone trans. “L’Italia è un paese fortemente arretrato rispetto a questa realtà, troppo spesso negata e invisibilizzata. E l’invisibilità porta a violenza. Sono persone che, se non supportate e incoraggiate a potersi esprimere per ciò che sono, sono costrette a una vita che non è la loro, ma quella che la società e la famiglia si aspetta”, dice Elisabetta Ferrari, presidente di GenderLens. L’associazione, nata con l’obiettivo di tutelare l’infanzia e l’adolescenza trans e le loro famiglie, è firmataria insieme ad Agedo e altre realtà, di un documento in cui si respinge l’attacco di Provita e famiglia, definito “privo di fondamento giuridico” e “lesivo dei diritti”.
Secondo i dati dell’agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (Fra), in ambito scolastico il 56 per cento delle persone lgbtq+ dichiara di nascondere sempre la propria identità. La percentuale sale al 77 per cento per adolescenti trans o non conformi al genere assegnato alla nascita. Studi e ricerche citati da GenderLens, individuano la scuola come luogo dove ci sono più spesso episodi di violenza e bullismo contro le persone lgbtq+, con conseguenze sulla salute mentale e sul rendimento scolastico. In questo contesto, le persone trans hanno il più alto tasso di abbandono, con il 43 per cento degli adolescenti tra i 12 e i 18 anni che lascia la scuola prima di aver terminato gli studi. “Non si può ignorare questa situazione”, dice Ferrari.
Da alcuni anni la carriera alias è entrata in diversi atenei e circa 160 istituti scolastici, basandosi sulla normativa sull’autonomia e sulle linee guida su bullismo e discriminazioni, e grazie ad accordi con studenti, famiglie e associazioni. Al momento non esistono previsioni ministeriali, il che significa da un lato che l’adozione del regolamento è a discrezione della direzione scolastica, e dall’altro che i modelli di applicazione possono essere diversi.
A spingere per l’adozione della carriera alias negli istituti sono anche le associazioni studentesche, come la Rete degli studenti medi, che ha sostenuto le proteste del liceo Cavour e seguito diversi casi in altre scuole, non senza difficoltà. “Le resistenze sono quelle note. C’è un problema culturale grosso, anche senza che ci sia malafede: professori o genitori che vedono la carriera alias come una cosa difficile. E poi ci sono le opposizioni strumentali di associazioni come Provita e famiglia, che però sono più pericolose”, dice Michele Sicca della Rete degli studenti medi.
Queste opposizioni intimidiscono i presidi e spesso interrompono il processo per l’adozione della carriera alias, oppure lo rendono lungo e difficoltoso. “Ci sono scuole in cui il regolamento non riesce a essere discusso dai rappresentanti da anni. Basta un solo genitore o parente vicino o in contatto con questi gruppi e arrivano lettere di sette, dieci, quindici pagine che spiegano perché la carriera alias è immorale e illegale. Cosa non vera”.
Una mobilitazione più ampia
Secondo Massimo Prearo, ricercatore ed esperto di studi di genere che da anni segue i movimenti chiamati “no gender”, da tempo questi gruppi tengono sotto stretto controllo tutto quello che succede nella scuola e che riguarda questioni come l’educazione di genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere. “Era naturale che si scagliassero contro la carriera alias, perché è un tema attuale, che necessita di una certa urgenza”, spiega il ricercatore. “Hanno osservato il lavoro fatto con le scuole da associazioni come Agedo o GenderLens e si sono mossi di conseguenza. Attraverso la battaglia contro la carriera alias vogliono ottenere una posizione da interlocutori con il ministero. Con il nuovo governo al potere sanno che il momento è propizio”.
A ridosso delle elezioni, la galassia delle associazioni di cui fa parte Provita e famiglia si era subito pronunciata per chiedere alla coalizione di destra la scelta di un ministro dell’istruzione “schierato con le famiglie e contro il gender nelle scuole”, che “difenda la libertà educativa dei genitori”. Già nel 2018 le associazioni del Family day avevano incontrato l’allora ministro dell’istruzione Marco Bussetti, della Lega.
Agire sulla scuola, secondo Prearo, permette anche alla politica che accoglie le istanze di queste associazioni di schivare l’accusa di voler retrocedere sui diritti: “È percepito come un intervento di tipo culturale, sul ruolo della scuola e il rapporto con le famiglie, senza incorniciarlo nella questione dei diritti”.
Esistono gruppi specializzati nella produzione di documenti con una parvenza di valore scientifico
Ridurre l’opposizione alla carriera alias ai gruppi del Family day, però, non restituisce tutto quello che oggi si muove contro la “teoria del gender” e, in sostanza, i diritti delle persone trans. Come sottolinea Prearo, la vicenda evidenzia l’emergere di una mobilitazione più ampia, che non coinvolge più solo i movimenti neocattolici e che in Italia si è cementata durante la discussione sul ddl Zan. Il disegno di legge, mai approvato, aveva l’obiettivo di estendere la normativa sui reati d’odio ad attacchi e comportamenti dovuti all’orientamento sessuale, al genere e all’identità di genere.
Le istanze contro la transizione di genere nascono soprattutto da una serie di gruppi, importati perlopiù dal mondo anglofono, specializzati nella produzione di documenti con una parvenza di valore scientifico sulla questione. “Si tratta di ricerche basate su alcuni studi molto problematici e criticati, spesso invalidati dalla comunità scientifica stessa”, spiega Prearo. “L’idea di fondo è che ci sia un’esplosione delle diagnosi di disforia di genere, addirittura che ci sia una fabbrica di bambini trans dovuta a dinamiche di ‘contagio sociale’. C’è una produzione enorme di materiale sul tema: brochure, depliant, rapporti”.
Queste idee contengono anche alcuni elementi di quello che si definisce femminismo gender critical – che vede cioè una corrispondenza tra sesso biologico e genere e in generale critico dell’esperienza trans – e sono arrivate in Italia in parte tramite il gruppo Genitori De Gender. I movimenti “no gender” le hanno poi riprese e usate per ottenere visibilità mediatica e politica.
Necessità e bisogni
Nel documento in cui respingono le diffide presentate contro gli istituti che hanno adottato la carriera alias, GenderLens e altre associazioni accusano Provita e famiglia di millantare “dati statistici e scientifici inesistenti”, e di aver messo in piedi un’operazione “mirata unicamente a diffondere panico morale verso le famiglie, le scuole e nella pubblica opinione”.
Gli istituti sono stati invitati a non dar seguito alla diffida. Nel frattempo le associazioni lavorano per migliorare i regolamenti. “I processi che riguardano le persone trans sono in evoluzione continua. Due anni fa abbiamo costruito un modello di carriera alias con una serie di caratteristiche che adesso però andrebbero riviste”, dice Sicca della Rete degli studenti medi. “Stiamo pensando a un percorso insieme al Gay center per rimetterle in discussione, per esempio sulla parte della medicalizzazione. Legare un percorso di affermazione di genere a una diagnosi di disforia di genere, come fa in questo momento la carriera alias, è molto limitante”.
Il criterio della diagnosi di disforia di genere è previsto anche nella legge 164 del 1982 che regola il procedimento per ottenere la rettifica anagrafica del nome e del genere. Per Ferrari di GenderLens, si tratta di “una legge obsoleta e fortemente punitiva, che costringe le persone a passare attraverso percorsi lunghi, faticosi e valutazioni mediche che costano moltissimo”.
Tra gli ambiti in cui è impegnata GenderLens, c’è anche la rivendicazione della depatologizzazione dell’esperienza trans. “Non parliamo di malattia. La stessa organizzazione mondiale della sanità ha tolto la transessualità dall’elenco delle malattie mentali”, dice Ferrari aggiungendo che “se tutte le procedure fossero più semplici, senza passare da relazioni mediche e sentenze di tribunali, come succede in altri paesi, anche la carriera alias potrebbe avere meno importanza”.
Quello che per le associazioni resta fondamentale e urgente, nonostante l’apertura del ministero alle istanze “no gender”, è che sia emanata una base normativa per la carriera alias da applicare in tutti gli istituti. Per arrivare a questo, secondo Gimelli di Agedo, andrebbe ribaltata la narrazione: “Non c’entra nulla l’ideologia. Abbiamo riscontrato che i nostri figli hanno delle necessità, dei bisogni, e chiediamo che le istituzioni vi facciano fronte”.
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