“Quando riapre ’a maternità?”. Per molto tempo camminando per Danisinni, rione popolare abitato da circa duemila persone ai confini del centro storico di Palermo, Francesco Di Giovanni si è sentito rivolgere questa domanda dai residenti. Chiedevano della riapertura dell’asilo nido Galante, polo per l’infanzia e insieme consultorio familiare sorto negli anni sessanta, da sempre chiamato dagli abitanti ’a maternità. L’edificio che lo ospitava si trova esattamente al centro di piazza Danisinni, tagliando in due il rione sorto su una depressione naturale un tempo letto del fiume Papireto, a poche centinaia di metri dalla costruzione arabo normanna del castello della Zisa, da piazza Indipendenza e dal palazzo dei Normanni.
Dopo trentacinque anni di vicende alterne, dal 2007 la struttura è rimasta chiusa e in stato di crescente abbandono, in balia di furti, atti vandalici e rifiuti. “Fino a sette-otto mesi fa sembrava un edificio bombardato”, spiega Di Giovanni, che nel 1988 ha fondato il centro Tau, con sede nella vicina via Cipressi, che accoglie bambini, adolescenti e giovani dai cinque ai 25 anni e combatte la povertà educativa e la dispersione scolastica.
Oggi il plesso dell’asilo è circondato da ponteggi, e dal 2024 potrebbe tornare in attività grazie al lavoro incessante di un comitato territoriale di cui fanno parte il centro Tau e la vicina parrocchia Sant’Agnese. Di Giovanni, in particolare, ha fatto della riapertura dell’asilo di Danisinni e dell’opposizione a un suo possibile abbattimento una battaglia che ha occupato buona parte del suo tempo: “Perdere l’asilo sarebbe stato emblema del più atroce disinteresse nei confronti del nostro territorio. Il contrasto alla povertà educativa deve partire dal primo gradino dell’infanzia”.
Senza un progetto
Fin dalla sua realizzazione, all’inizio degli anni sessanta, la gestione dell’asilo di Danisinni è passata sotto diverse mani. Inizialmente affidata all’Opera nazionale maternità e infanzia, è poi andata al comune di Palermo e successivamente a una cooperativa, per poi tornare nuovamente al comune. La struttura, che originariamente si chiamava Casa della madre e del bambino, integrava anche un consultorio familiare e ospitava sessanta bambini fino ai tre anni.
“All’interno c’era un’ostetrica e, a giorni alterni, veniva anche un’infermiera. Era un presidio importante, anche perché le mamme del territorio spesso non avevano gli strumenti per seguire i bambini, anche da un punto di vista sanitario”, ricorda Di Giovanni, che insieme al comitato territoriale ha raccolto negli anni testimonianze di persone passate dal polo infanzia di Danisinni. Tra queste, quella di una signora che abita ancora in una casa che affaccia sulla piazza: “Avevo 16 anni quando sono entrata qua. Ero incinta, e mi davano da mangiare, era troppo bello, la tavola tutta conzata (imbandita ndr), eravamo felici, tranquille. Una povertà che nemmeno potevamo mangiare, però stavamo bene”. Un altro residente, invece, è stato all’asilo da bambino: “Davano il pranzo, le merendine. Tutte cose che allora per noi erano una prelibatezza”.
Negli anni ottanta e novanta cominciano le aperture a singhiozzo. Fino al 2007, quando, in seguito alla comparsa di una macchia sul tetto dovuta a un’infiltrazione d’acqua, le porte vengono chiuse definitivamente. “Al tempo ci fu detto che in pochi mesi la struttura sarebbe stata riaperta, andava fatto un adeguamento dal punto di vista sismico. E invece sono passati anni di inedia, incuria, disattenzione, abbandono. E continui confronti con l’amministrazione”, afferma Di Giovanni.
Nel 2018 il comune propone l’abbattimento dell’asilo, sostenendo l’inadeguatezza delle fondamenta e della struttura, nonché l’assenza di tecnici in grado di progettare gli interventi di ristrutturazione, rinunciando anche a un finanziamento del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr).
L’ipotesi genera una protesta nel quartiere, e nel 2019 viene costituito il comitato Pa’ maternità che offre di farsi carico dei costi di progettazione per la ristrutturazione. E il comune accetta. I volontari cominciano ad acquisire gli atti e le relazioni tecniche, chiedono pareri, fanno ricerche, rintracciano i progetti originali. Da queste verifiche emerge che l’edificio è in buone condizioni e che l’adeguamento sismico è possibile.
Il comitato decide di commissionare a sue spese a una squadra di tecnici la redazione di un progetto. “Quando l’abbiamo fatto, sapevamo di non avere sufficiente denaro. Abbiamo messo delle quote noi e la parrocchia Sant’Agnese, sperando di essere sorpresi dai fatti”, racconta il coordinatore del centro Tau. La somma viene raggiunta attraverso una campagna di fundraising, alla quale partecipano Fondazione con il sud, Save the children Italia, la fondazione Peppino Vismara, la fondazione Sicilia e la fondazione Pianoterra.
Nell’estate del 2021 il progetto viene consegnato al comune di Palermo, che si aggiudica un finanziamento di tre milioni di euro, anche questa volta provenienti dalla politica di coesione europea (Po Fesr). Nel 2022 cominciano i lavori, che si concluderanno auspicabilmente il prossimo anno.
L’inizio delle disuguaglianze
Per Pina Lipari, pedagogista del centro Tau, “puntare sull’asilo nido significa guardare alla comunità fin dal suo inizio, dalla nascita e i primi anni di vita dei suoi abitanti”. Se non vanno all’asilo, i bambini “restano a casa con le nonne o con le madri che non lavorano”. Quest’ultima circostanza, diffusa nel quartiere, riduce sensibilmente le richieste delle donne di iscrivere i figli all’asilo.
I primi mille giorni di vita sono fondamentali nello sviluppo dei minori. Secondo un rapporto di Save the children del 2019, le disuguaglianze legate alle condizioni socioeconomiche delle famiglie affiorano già nei primi anni di vita: la frequenza di un nido d’infanzia rappresenta un fattore determinante per lo sviluppo dei bambini in condizione di svantaggio economico, che già all’età di quattro anni possono accumulare un ritardo nell’acquisizione di competenze matematiche, di lettura, di scrittura, motorie e socioemozionali.
“Sappiamo ormai da tonnellate di studi che quello dei primi anni di vita, fino all’ingresso alla scuola primaria, è un periodo sensibile, dove si sviluppano aspetti importanti per il futuro dei bambini. E dove appaiono le prime disuguaglianze, destinate poi ad allargarsi nel percorso scolastico. Non è detto che non si possano recuperare, ma sarebbe meglio farlo prima”, afferma Christian Morabito, ricercatore per Save the children Italia.
Un asilo nido di qualità, aggiunge, “può fare la differenza. Significa anche creare un contatto tra il bambino e la famiglia, una continuità anche a casa, un’esperienza educativa. Oltre al fatto che permette di ridurre anche le disuguaglianze di genere in termini di lavoro, reddito, libertà di scegliere. Quella del nido è una politica potente”.
Secondo i dati dell’Istat elaborati da Openpolis e Con i bambini, nel nostro paese sono disponibili 27,2 posti in asili nido ogni 100 bambini. La percentuale, seppur in crescita, è lontana dagli obiettivi fissati dall’Unione europea del 33 per cento – recentemente innalzata a 45 – di minori da zero a tre anni che dovrebbero poter accedere a sistemi di educazione e cura per la prima infanzia.
Al 31 dicembre 2020, in Italia erano attivi 13.542 servizi per la prima infanzia, con più di 350mila posti autorizzati al funzionamento, di cui il 49,1 per cento in strutture pubbliche. L’offerta non è però uguale in tutto il paese, con grosse differenze tra nord e sud e tra città e aree interne. Le sole sei regioni che superano la soglia del 33 per cento si trovano tutte nell’Italia centrosettentrionale: Umbria, Emilia-Romagna, Valle d’Aosta, Toscana, Lazio e Friuli-Venezia Giulia. Il nuovo obiettivo del 45 per cento, invece, oggi sarebbe superato solo in tre province emiliano-romagnole: Ravenna, Bologna e Ferrara (45,5 per cento).
Le richieste di fondi per gli asili nido sono state molto inferiori rispetto alle risorse disponibili. Le maggiori difficoltà a seguire i progetti sono nei comuni del sud
Tre regioni hanno poco più di dieci posti ogni cento bambini: Calabria, Campania (seppur in miglioramento) e Sicilia, dove nel 2018 cinque province non raggiungevano nemmeno la soglia del 10 per cento. Nell’isola il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi d’Italia e quello di abbandono scolastico vanta il primato nazionale, con più di un giovane su cinque che lascia gli studi prima del tempo.
Una delle misure bandiera del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr), con cui l’Italia ha definito gli obiettivi da raggiungere con i fondi del programma Next generation Eu, riguardava proprio l’offerta dei servizi per l’infanzia e il superamento dei divari territoriali, con la previsione di uno stanziamento di 4,6 miliardi, di cui 2,4 per costruzione o ammodernamento di asili nido e 900 milioni per la loro gestione.
Ma il Pnrr non ha allocato direttamente le risorse. Tramite un avviso pubblico i comuni sono stati chiamati a presentare progetti tra cui selezionare quelli da finanziare, con criteri e scadenze precise. Nonostante l’urgenza della misura, le richieste di fondi sono state decisamente inferiori rispetto alle risorse disponibili. Ad avere maggiori difficoltà sono stati comuni del sud, in particolare di Sicilia, Basilicata e Molise. Tra le ragioni, la mancanza di dipendenti per seguire i progetti nei tempi stabiliti.
Il sistema dei bandi competitivi unito alla mancanza di una mappatura iniziale dei bisogni, secondo un recente studio dell’associazione Svimez ha penalizzato le realtà con minore capacità amministrativa. Il risultato è che, finora, le risorse disponibili per colmare i divari sulle infrastrutture scolastiche e per l’infanzia non sono state allocate coerentemente con i reali fabbisogni dei territori. “Sebbene la ‘quota sud’ sia stata rispettata, gli enti territoriali delle tre regioni meridionali più popolose – Sicilia, Campania e Puglia – hanno avuto accesso a risorse pro capite per infrastrutture scolastiche inferiori alla media italiana, nonostante le marcate carenze nelle dotazioni infrastrutturali che le contraddistinguono”, si legge nel rapporto. Secondo l’associazione, il tema andrebbe inserito in una riprogrammazione che “consenta di completare, dopo il 2026, il percorso di riduzione e superamento dei divari territoriali nelle infrastrutture scolastiche: con le risorse europee del Fesr (regionale e nazionale) e con il Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc) 2021-2027”.
“Moltissime aree non hanno tecnici in grado di realizzare questo tipo di progettazione. Anche perché la pubblica amministrazione è stata piuttosto depotenziata. Quindi è chiaro che le regioni o le aree dove questi servizi grosso modo esistevano già, partivano con un certo vantaggio”, spiega Morabito. “Mentre al sud, dove i servizi preesistenti sono meno, c’è stata anche meno domanda”.
“Un numero consistente di comuni con offerta assente o marginale non ha partecipato ai bandi”, e dunque “nonostante le ingenti risorse destinate alla fascia di età 0-3 anni, lo scenario che si delinea mostra che parte delle debolezze strutturali che caratterizzano l’offerta del servizio potrebbero restare irrisolte”, si legge in un report dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) del novembre 2022. Secondo l’analisi, a quella data, l’effettiva realizzazione dei posti stimati avrebbe permesso “a tutte le regioni del centronord di colmare e, spesso, di superare il divario tra i posti attualmente disponibili e quelli necessari” al raggiungimento dell’obiettivo. Campania e Sicilia, invece, “non riuscirebbero a colmare il gap dei posti mancanti”, ma mentre per la prima “sarebbero state necessarie maggiori risorse”, per la Sicilia, il ritardo è imputabile “alla mancata risposta da parte degli enti territoriali”.
Sono stati necessari quattro bandi per assegnare tutti i fondi. E il rischio è che, senza una proroga o una rimodulazione degli interventi, i ritardi mettano gli investimenti in pericolo.
Ricucire il territorio
Francesco Di Giovanni ricorda che nel territorio della Zisa negli ultimi anni sono stati chiusi due asili nido distanti tra loro 700 metri, “per un totale di circa cento posti persi”. E questo “in un’area già parecchio depauperata”.
“La riapertura dell’asilo Galante è un fatto simbolico ma anche molto concreto per il processo di rigenerazione di questo territorio”, spiega fratel Mauro Billetta, parroco della parrocchia Sant’Agnese a Danisinni, parte del comitato Pa’ maternità. Il frate definisce il rione “un microcosmo nel cuore della città di Palermo”: “Siamo in un’area di depressione naturale dovuta al letto del fiume Papireto, su un piano più basso rispetto al resto del quartiere Zisa. Questo ha fatto sì che non si aprissero nuove vie di transito e dagli anni sessanta in poi ha determinato una sempre maggiore esclusione”. Danisinni è stato “piano piano marginalizzato e gradualmente rimosso dall’immaginario collettivo”.
Negli anni la parrocchia di fra’ Mauro è diventata il centro nevralgico del rione, con la creazione di una fattoria sociale con diversi animali, un biostagno, un orto didattico, una biblioteca di quartiere con doposcuola, un circo sociale permanente e altre attività. Uno spazio attraversato dalle famiglie e dai minori, che “crescono in strada, ma qualcuno lo si trova qui nel pomeriggio a studiare. Questo è un territorio che ha un triste primato di dispersione scolastica”.
L’esperimento portato avanti dalla parrocchia è stato quello di cercare di “prendersi cura dello spazio esteriore e di uscire da uno stato emergenziale che chiaramente non possiamo ignorare ma da cui non si può restare schiacciati. Il rischio altrimenti è di perdere la visione, privare di speranza e futuro”, dice fra’ Mauro. “La condizione dell’asilo nido”, aggiunge, “si è riflessa nel quartiere: ai bambini è mancata la fase scolastica nei primi tre anni di vita, le mamme non hanno potuto lavorare”. Secondo il frate la riapertura del polo materno per l’infanzia, inoltre, avrebbe ricadute positive anche sulla salute dei bambini e sulla loro alimentazione.
Per spiegare l’importanza dell’asilo nido nel percorso educativo dei minori, Di Giovanni usa la metafora della scala: “Ci troviamo in un territorio in cui i primi tre gradini sono stati segati, non ci sono. Alcuni bambini provano a superarli attraverso le nonne, attraverso gli amici o il tempo delle mamme, li percorrono pericolanti. Poi ci sono i gradini della scuola elementare e quelli della scuola media. Dopodiché, io dico che la scala si trasforma in una pertica”.
Secondo l’esperienza del centro Tau, la percentuale dei ragazzi che non prosegue gli studi nel quartiere è altissima. “Su questa pertica impossibile da scalre, molti passano per il lavoro nero, qualcuno per la criminalità organizzata. Una scala di questo tipo crea un profondo danno all’intera comunità, anche in termini di legalità, di sicurezza”, aggiunge Di Giovanni, che vede nella riapertura dell’asilo un’occasione per ricucire ulteriormente il territorio. “Nella piazza non ci sono attività commerciali, ci sono solo case. Rimettere l’asilo in movimento significa riorganizzare l’ordine sociale con al centro i bambini”. ◆
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