Nei giorni scorsi un questionario proposto, e poi ritirato, dai comuni di Nettuno e di Roma per valutare la situazione di stress delle persone che assistono familiari con disabilità è stato discusso e criticato da attivisti e associazioni del settore. Le critiche sono sorte per alcune domande come “quanto risentimento provi nei confronti di tuo figlio disabile?” o “quanto ti vergogni del tuo familiare?”, che sembrano ricondurre lo stress a una situazione personale interna invece che al contesto difficile, anche legato allo scarso sostegno istituzionale, in cui si ritrovano le famiglie.
È vero che se non si misura un fenomeno non è possibile conoscerlo e promuovere soluzioni per far fronte a eventuali problemi, ma anche il modo in cui si raccolgono i dati è importante e può definire il tipo di risposta che la politica dà alle esigenze delle famiglie e della comunità.
Come ha ben spiegato Simona Lancioni su Informare un’h, il magazine online del centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli, le domande si basavano su scale di misura del carico assistenziale create nell’ambito dell’assistenza agli anziani negli anni ottanta e su un modello medico di disabilità, che la considera un problema fisico, mentale o sensoriale del singolo individuo, superato oggi da un modello bio-psico-sociale. Quest’ultimo non considera più “la disabilità come una faccenda individuale e privata, ma responsabilità delle società”.
Al di là del caso discusso in questi giorni, è necessario colmare su tutti i livelli la lacuna di dati sulla disabilità in Italia, come denunciato da Francesca Fedeli, della fondazione Fight the stroke, nell’ambito della campagna Disabled data. Fedeli ha avviato, insieme ad altre associazioni, una mappatura dei dati sulla disabilità in Italia, che risultano incompleti, non aggiornati e di difficile accesso. Per conoscere con esattezza il numero di disabili nel nostro paese, o scoprire come è stato calcolato il numero di 3,15 milioni di persone che si trova nelle fonti online, oggi bisogna fare “un viaggio da 85 click” tra tabelle che non si aprono e siti che risultano non più accessibili. Senza dati, “è difficile dar voce alle battaglie di rivendicazione dei diritti di una comunità ancora oggi marginalizzata o mal raccontata”, si legge sul sito della campagna. In più, il tipo di dati che raccogliamo su un fenomeno o una situazione influenza il modo in cui lo raccontiamo: per superare gli stereotipi è necessario fare e farsi le domande giuste.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it