“Non ci sono dati, nessuno li ha. I primi a cui mi sono rivolto sono stati i tribunali dei minori, che sono gli unici ad avere tutte le informazioni. Quando una donna viene uccisa in ambito familiare e lascia dei figli orfani i servizi sociali avvisano il tribunale, loro aprono il fascicolo, ma non distinguono questa tipologia di bambini rispetto ad altri rimasti orfani di genitori non per femminicidio”.
A pronunciare queste parole è Fedele Salvatore, presidente dell’associazione Irene ’95, che con il progetto Respiro è tra i soggetti attuatori del bando A braccia aperte dedicato agli orfani di femminicidio, avviato dall’impresa sociale Con i bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, nato da un’intesa tra le fondazioni di origine bancaria, rappresentate da Acri, il Forum nazionale del terzo settore e il governo, gestito dall’impresa sociale Con i bambini. Tra gli obiettivi c’è anche quello di realizzare un osservatorio dal basso, ma permanente e nazionale. I dati hanno già cominciato a raccoglierli e nell’autunno di quest’anno usciranno i primi report dopo due anni di lavoro.
Invisibili e senza sostegno
Conoscere la situazione in cui vivono o hanno vissuto bambini e bambine rimasti orfani della madre uccisa dal padre e che sono accuditi da altri familiari, avendo nella grande maggioranza il padre in carcere, è fondamentale per capire che tipo di assistenza garantire e quali risorse devono essere messe a disposizione dai fondi pubblici.
“Quando mio padre è entrato in carcere è stato subito seguito da uno psicologo, pagato dallo stato. Io ho potuto permettermelo solo vent’anni dopo, grazie al mio lavoro. All’epoca dell’omicidio di mia mamma non esisteva nemmeno il termine femminicidio e noi orfani non avevamo nessuna tutela, ma purtroppo non è cambiato molto da allora”. Le parole di Giuseppe Delmonte, figlio di Olga Granà, uccisa dal marito nel 1997, sono quelle di chi dopo più di venticinque anni ha rielaborato il trauma ma non ha dimenticato il dolore, che oggi mette al servizio per una battaglia di riconoscimento dei diritti degli orfani di femminicidio.
All’epoca Giuseppe aveva 18 anni, il fratello e la sorella erano più grandi e già fuori casa, e lui è rimasto completamente solo. Invisibile allo stato, anche perché maggiorenne, e senza aiuti economici o un sostegno psicologico. “Un sostegno che deve essere garantito subito, immediatamente, con una presa in carico da parte dello stato, non su richiesta”, sostiene.
Il problema dell’individuare chi è orfano di femminicidio, anche per sostenerlo, è legato al determinare che la donna è stata vittima di questo reato
In realtà dal punto di vista legislativo un passo avanti è stato fatto: nel 2018 l’Italia ha adottato una legge che garantisce tutele processuali ed economiche per i figli delle donne vittime di crimini domestici, in cui per la prima volta si procede al sequestro dei beni dell’indagato per il risarcimento dei danni civili subiti dai figli della donna uccisa. Un automatismo assente prima di questa legge e che aveva portato a diverse battaglie condotte dalle famiglie delle vittime. Prima del 2018, infatti, era in carico ai figli e alle persone rimaste aprire una procedura per riottenere i beni che finivano nelle mani del coniuge della donna, al quale spettava anche la pensione di reversibilità, come è successo a Delmonte e ai suoi fratelli per riottenere la casa dei nonni, ereditata dal padre in carcere.
La legge 4 del 2018 ha anche portato all’apertura per la prima volta dell’istituzione di un fondo economico destinato a chi è rimasto orfano “a causa di crimini domestici”, come definito dal testo di legge, che prevede l’erogazione di borse di studio e per il rimborso delle spese sanitarie, compresa l’assistenza medico-psicologica. È stato necessario però aspettare fino al 2020 per vederne l’attuazione e secondo le associazioni che si occupano del tema e le stesse famiglie il fondo è insufficiente. “Hanno creato il fondo senza nemmeno sapere quante sono le persone a cui destinarlo”, sostiene Delmonte. Si tratta di 300 euro mensili per ogni minore presente nella famiglia affidataria, da chiedere allo stato e non erogato in modo automatico. Secondo Delmonte lasciare questo carico alle famiglie affidatarie, che magari non sono nemmeno a conoscenza della legge, equivale ad abbandonarle al loro destino.
Interrogativi urgenti
Nel 2023, fino alla data dell’ultimo aggiornamento dell’8 agosto, sono 69 le vittime di femminicidi, lesbicidi e transcidi contate dall’osservatorio nazionale di Non una di meno (Nudm): di queste, cinque avevano figli minori. Quello della rete Nudm è l’unico luogo in cui è possibile monitorare pubblicamente questo tipo di dato. E sebbene sia un lavoro puntuale e ben organizzato non si tratta di una statistica ufficiale: i dati sono reperiti nelle cronache nazionali e locali, sono aggiornati all’inizio di ogni mese e, a seconda del grado di giudizio in cui sono coinvolti i presunti colpevoli e delle indagini in corso, le statistiche possono cambiare nel tempo. Sul sito del ministero dell’interno nell’ultimo bollettino, del 14 agosto, sono riportati 74 omicidi di donne, di cui 59 uccise in ambito familiare o affettivo e tra queste 36 per mano del partner o ex partner, ma senza riferimento a eventuali figli.
Da qualche anno, per parlare di orfani di femminicidio si fa riferimento alla prima indagine nazionale sul fenomeno, avviata tra il 2000 e il 2014 in Italia grazie al progetto europeo Switch-off e in collaborazione con DiRe (Donne in rete). Gli aggiornamenti dell’indagine propongono però solo una stima e parlano di “oltre duemila” casi di bambini e bambini che hanno perso la madre perché uccisa dal padre”. All’epoca Anna Costanza Baldry, criminologa e docente di psicologia sociale all’università della Campania Luigi Vanvitelli e scomparsa prematuramente nel 2019, li aveva definiti orfani “speciali”.
Nell’introduzione al volume in cui sono stati presentati i risultati nel 2018 (edizioni Franco Angeli), si poneva domande che prima di allora nessuno aveva preso in considerazione: “Che fine fanno, cosa sappiamo di loro, con chi sono andati a vivere, come stanno dopo due, cinque, dieci o più anni dall’assassinio della madre? Ho cercato e non ho trovato alcun dato, alcuna informazione, nessuno ne aveva mai parlato in Italia, pochissimi studi all’estero. Erano orfani inesistenti. Eppure le loro vite avranno preso delle strade, mi sono detta, ma quali? Chi si è occupato di loro? E soprattutto, come stanno adesso?”.
L’urgenza di questi interrogativi ha mosso tutto il lavoro della ricercatrice, che stimò allora circa 1.600 orfani “speciali” in Italia e l’esistenza di altrettanti 80mila in tutta Europa, su cui c’erano pochissimi studi e ricerche, rendendo impossibile l’attuazione di politiche adeguate a sostenerli. Baldry scriveva che gli orfani speciali “sono una parte della popolazione dimenticata, sottaciuta, emarginata che pare non meritarsi politiche di intervento e di protezione”.
Purtroppo Baldry oggi non c’è più e non è a lei che possiamo chiedere come aggiornare le statistiche. Ma tutte le persone che lavorano nel settore sono concordi nel dire che sono molti di più, che è difficile quantificarli perché è difficile capire esattamente cosa stiamo contando.
Superare il pregiudizio
Il problema dell’individuare chi è orfano di femminicidio, anche per sostenerlo, è legato al determinare che la donna è stata vittima di questo reato: tuttavia è impossibile farlo immediatamente e nel nostro ordinamento giuridico non esiste una denominazione specifica. “Visto che non abbiamo ancora numeri ufficiali sui femminicidi, è difficile avere numeri sugli orfani”, ammette Valeria Valente, senatrice del Partito democratico, ex presidente della prima commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, istituita nel 2017.
Valente è anche la prima firmataria della legge 53 del 2022, che finalmente potrebbe consentire di fotografare correttamente la violenza di genere attraverso una raccolta dati periodica, triennale, coinvolgendo l’Istat, i centri antiviolenza, le strutture sanitarie e di primo soccorso, con un’attenzione alla violenza fisica, ma anche a quella economica e psicologica. “Abbiamo elencato 27 fattispecie di reato, dallo stalking al maltrattamento, ma anche reati come il danneggiamento dell’automobile: vogliamo monitorare il crescendo di violenza prima che si arrivi al femminicidio”, spiega Valente. “La raccolta dati ti costringe a superare il pregiudizio, ma non abbiamo ancora statistiche ufficiali sui femminicidi, quindi non abbiamo statistiche aggiornate sugli orfani”. E non è previsto un osservatorio ufficiale.
Ma la struttura della raccolta dati che si ritrova nella prima indagine avviata dalla commissione sui femminicidi avvenuti negli anni 2017 e 2018 potrebbe aiutare ad aggiungere queste informazioni al momento della rilevazione del crimine: l’indagine ha infatti contato 169 orfani, di cui 67 minorenni. È indicato anche che il 46,7 per cento dei figli sopravvissuti (79 su 169) aveva assistito alle precedenti violenze del padre sulla madre e, di questi, la maggioranza era minorenne (43 su 79). Inoltre, il 17,2 per cento era presente al femminicidio, e il 30 per cento aveva trovato il corpo della madre.
Quest’anno, nel mese di febbraio, è stata poi approvata anche all’unanimità dal parlamento una commissione bicamerale con il compito di “svolgere indagini sulle reali dimensioni, condizioni, qualità e cause del femminicidio”, definito nel documento come “l’uccisione di una donna fondata sul genere”.
L’Italia sembra così avvicinarsi all’idea di monitoraggio della violenza di genere che esiste in Spagna dal 2004 e che è stata aggiornata nel 2022 con l’istituzione di un osservatorio sul femminicidio in cui si contano non solo gli omicidi commessi da partner o ex partner della vittima ma anche tutti quelli che hanno una componente di genere.
“Quando c’è un femminicidio l’attenzione è tutta sul crimine, sulle indagini, sul casino mediatico: i bambini scompaiono, nessuno si prende cura di loro, soprattutto nelle prime ore, nei primi giorni, nelle prime settimane, quando ci sarebbe bisogno di persone competenti che possano occuparsi di loro”, spiega Fedele Salvatore.
Il progetto da lui coordinato per l’associazione Irene 95, in partenariato con altre organizzazioni italiane che si occupano di tutela dell’infanzia, è concentrato nelle regioni meridionali e nelle isole. Prevede, oltre al primo intervento nei nuovi casi, anche la presa in carico di orfani di femminicidio fino a 21 anni con l’avvicinamento a percorsi terapeutici sul trauma e l’elaborazione del lutto, percorsi di sostegno sulla genitorialità per i parenti affidatari e l’erogazione di borse scolastiche o di “doti economiche” per la partecipazione ad attività sul territorio. Al momento sono 80 i bambini e le bambine coinvolti, ma a partire dall’avvio del progetto nel 2021 ne hanno contati 230.
“Degli orfani storici di dieci anni fa in molti casi nessuno si era mai occupato, neanche gli assistenti sociali, non avevano mai avuto aiuto psicologico, sostegno sociale, ma ora abbiamo avviato anche per loro queste iniziative”, racconta ancora Salvatore. “La difficoltà più grande però è essere riconosciuti ed essere ascoltati: non siamo un ente pubblico, non abbiamo ruolo ufficiale. Abbiamo avviato un dialogo con il ministero dell’interno e lo faremo con il garante dell’infanzia”.
Giuseppe Delmonte è uno degli orfani “storici” contattato dal progetto Respiro, grazie al quale ha potuto raccontare la sua storia in un podcast realizzato per sensibilizzare le famiglie coinvolte, ma anche le istituzioni pubbliche, su un tema che è rimasto per troppo tempo sullo sfondo dei casi di cronaca che magari per giorni e giorni hanno occupato le pagine dei giornali. “Per vent’anni io ho rimosso quello che mi era successo. Lo tenevo da parte, per andare avanti con la mia vita. Poi, grazie alla psicoterapia, è venuto fuori tutto. Ho cominciato a parlarne in pubblico, e da quando a un convegno in Sicilia una rappresentante del governo mi ha detto che le avevo ‘aperto un mondo’ non mi sono più fermato. Per fare leggi sul tema serve ascoltare le nostre voci”.
E raccogliere dati puntuali.
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