Sulla lavagna al centro del soggiorno ci sono ancora i segni dell’esercizio fatto insieme sulla sillabazione: ma, me, mi, mo, mu. Giulia, sette anni, indica a Milana, di due anni più piccola, la corretta pronuncia delle parole. Poi a turno fanno un giro nel salotto a bordo del monopattino. La convivenza in casa è cominciata da appena un mese.

Svetlana Liamina è arrivata nella casa di Andrea e Celeste, insieme a sua figlia, dopo un periodo passato in uno degli hotel di Roma messi a disposizione dalla Protezione civile per l’accoglienza immediata dei profughi ucraini. “Quando è scoppiata la guerra, il mio ex marito e papà di Milana mi ha chiamato subito dicendo di preparare le valigie, ci avrebbe portato in salvo il più lontano possibile. Così siamo partiti dalla nostra città, Zhytomyr, verso il confine. Ci ha lasciato a pochi passi dalla frontiera con la Romania. Non sapevo cosa fare, ho accettato un passaggio da alcuni volontari verso l’Italia. Siamo arrivati prima a Milano, poi a Roma. Abbiamo viaggiato per quattro giorni e quattro notti. Non ho mai dormito, è stato il viaggio più lungo, doloroso e difficile per la mia vita”.

Trentacinque anni, designer di mobili, Liamina sta provando a riavviare la sua attività online da questo appartamento a pochi passi da piazza Bologna, messo a disposizione da una famiglia italiana.

Per ora funziona

“Durante il giorno ognuno gestisce il suo tempo come vuole. Io e mio marito lavoriamo, le bambine vanno a scuola. Svetlana lavora in smart working da casa. Abbiamo una sola regola: la sera ci ritroviamo insieme per la cena e ci raccontiamo la giornata”, spiega Celeste Soldo, 40 anni. “Abbiamo offerto ospitalità in casa nostra perché non riuscivamo a stare senza far niente dopo aver visto in tv le immagini provenienti dall’Ucraina. In passato abbiamo spesso fatto donazioni ad associazioni oppure ong, questa volta volevamo fare qualcosa di concreto. Abbiamo una casa grande, ci è sembrata semplicemente una cosa giusta. Milana ha più o meno la stessa età di Giulia, ma anche per l’altra nostra figlia, Lidia, che ha 12 anni, è un’esperienza importante, formativa”.

“Non abbiamo discusso tanto: il posto c’era, volevamo provare”, aggiunge Andrea Moraschinelli. “Già a marzo abbiamo dato disponibilità per l’accoglienza in famiglia. Ci hanno risposto dopo mesi, mentre ci stavamo preparando ad andare in ferie, ma non ci siamo tirati indietro. E a settembre abbiamo cominciato questa convivenza. Il progetto dura sei mesi, è prorogabile, vedremo. Milana parla italiano, Svetlana sta imparando, nel frattempo ci stiamo conoscendo provando a fare attività insieme nel fine settimana. Abbiamo anche terminato un puzzle da mille pezzi, insomma per ora funziona”.

Per affrontare questo numero straordinario di arrivi l’Italia ha provato a sperimentare un modello nuovo di accoglienza

L’istituzionalizzazione dell’accoglienza in famiglia è una delle novità introdotte in Italia per l’ospitalità dei rifugiati ucraini anche per rispondere alla tante richieste arrivate dai cittadini che volevano mobilitarsi per aiutarli.

Dal 24 febbraio al 27 settembre 2022, secondo i dati forniti dal ministero dell’interno sono 171.546 le persone ucraine entrate nel paese. Per la maggior parte donne (91.288) e bambini (49.172). Un flusso massiccio di ingressi che in pochi mesi sono diventati il doppio degli arrivi annuali registrati alle frontiere marittime e terrestri, ma che non ha avuto un impatto consistente sul sistema di accoglienza italiano. Questo in forza di alcune norme straordinarie applicate per la prima volta al livello europeo e nazionale.

Il 28 marzo, con un decreto del presidente del consiglio, l’Italia ha applicato la decisione dell’Unione europea di attivare per la prima volta la direttiva 55 del 2001 sulla “concessione della protezione temporanea” ai profughi: le persone che risultano residenti, che hanno un permesso di lungo soggiorno o un permesso di protezione internazionale in Ucraina possono ricevere subito accoglienza; possono, inoltre, cominciare a lavorare e a usufruire dei servizi socioassistenziali. I rifugiati sono liberi di muoversi tra i confini europei senza sottostare alle norme del regolamento Dublino. Molti hanno oltrepassato più volte le frontiere tra gli stati per raggiungere amici e parenti o per tornare a casa.

Per affrontare questo numero straordinario di arrivi l’Italia ha provato a sperimentare un modello nuovo di accoglienza sostenendo, con un contributo economico, innanzitutto le persone che hanno trovato una sistemazione privata. Inoltre, per la prima volta, le organizzazioni del terzo settore sono state coinvolte direttamente nella gestione attraverso un bando della Protezione civile che prevedeva progetti per la cosiddetta accoglienza diffusa, realizzata attraverso la rete dei comuni o direttamente dalle associazioni. Il tentativo era quello di superare la gestione centralizzata, snellendo le procedure.

I progetti però sono stati avviati con enorme ritardo, vanificando in parte lo slancio iniziale di tante famiglie italiane.

“Alla fine di febbraio siamo stati letteralmente sommersi di chiamate. In tantissimi ci chiedevano come poter aiutare gli ucraini che stavano arrivando”, racconta Fabiana Musicco, presidente di Refugees welcome, l’associazione che promuove da anni l’ospitalità in famiglia dei profughi. “In tanti sono stati ospitati da amici e parenti già presenti in Italia, senza gravare sul sistema di accoglienza. Una parte di loro si è rivolta alle organizzazioni sul territorio ricevendo una straordinaria disponibilità. Noi abbiamo fatto il massimo contando sulle nostre forze e sull’impegno della società civile. Poi il governo ha incaricato la Protezione civile di gestire il programma dell’accoglienza diffusa e noi abbiamo risposto all’avviso di partecipazione. L’abbiamo fatto perché si trattava di un’occasione per il paese di provare a sperimentare un modello nuovo che poggiasse anche sull’attivismo dal basso. Le prime convenzioni, però, le abbiamo firmate dopo quasi sei mesi, ad agosto, quando in tanti erano già in vacanza. Di conseguenza molte famiglie si sono tirate indietro. Un vero peccato. Lo sforzo che stiamo facendo ora è di avere grande cura dei percorsi attivati, per le persone accolte e per chi accoglie. Speriamo in una proroga, altrimenti sarebbe davvero un’occasione sprecata. In Italia si sono rese disponibili con noi e con altre organizzazioni circa 15mila famiglie. Una mobilitazione pazzesca, ma lo stato non è riuscito a gestirla. Passa l’idea che la disponibilità dei singoli non serva. E questo è controproducente, non solo per noi”.

Stando ai dati del dossier Immigrazione, realizzato dal centro studi e ricerche Idos, a settembre solo una minima parte dei profughi ucraini, circa 14mila persone, risultava nella rete ordinaria dei Centri per l’accoglienza straordinaria (Cas) o del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai). Di queste, meno di ottomila sono state accolte temporaneamente nelle strutture alberghiere messe a disposizione dalla Protezione civile. L’accoglienza diffusa, invece, è rimasta impigliata nella lentezza e nella rigidità delle procedure burocratiche.

Per Gianfranco Schiavone, dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ha curato la parte del dossier relativa all’accoglienza degli ucraini, si tratta di un’occasione sprecata. “Se non ci fosse stata la mobilitazione dal basso dei connazionali ucraini, di privati, enti e associazioni italiane, la mancata risposta istituzionale durata per mesi avrebbe assunto risvolti drammatici”, spiega. “Questa esperienza ci dice anche due cose: che l’accoglienza in famiglia ha potenzialità enormi e che se la politica non soffia sul fuoco la società italiana riesce a offrire risposte di solidarietà molto strutturate ed efficienti in tempi brevi e non solo in situazioni di emergenza”.

Un doppio standard di protezione e accoglienza

Marina Antoniu è arrivata in Italia invitata dai suoi colleghi, insegnanti di inglese come lei. La sua prima idea era di proporsi come mediatrice nelle scuole per i bambini ucraini, come aveva raccontato all’Essenziale sul volo umanitario da Varsavia a Roma, operato da Caritas italiana insieme a Open Arms.

Ma una volta in Italia la burocrazia ha fermato il suo slancio di altruismo: “I miei giorni in Toscana sono stati bellissimi, i colleghi mi hanno aiutata con la sistemazione e io mi sono messa a disposizione delle scuole, ma le cose non erano così semplici come credevo. Mi hanno spiegato che c’era un iter da seguire”, spiega. “Non solo, ma ho scoperto che anche per ottenere i documenti di soggiorno i tempi erano lunghi. Ho atteso quasi quattro mesi poi ho deciso di andare via. Faccio parte di una rete internazionale di docenti, ho scelto di andare nel Regno Unito, dove sapevo che anche il mio inserimento lavorativo sarebbe stato più facile”.

Antoniu oggi vive in Scozia dove insegna a studenti provenienti da tutto il mondo, una classe è composta da italiani. Vive in un appartamento con altri profughi ucraini e ha ottenuto i documenti in sole due settimane. “La domenica ci ritroviamo insieme”, racconta. “Continuiamo a insegnare l’ucraino ai bambini per evitare che lontani da casa dimentichino la lingua madre”.

Lidia e Milana, Roma, ottobre 2022.

Anche Hilary Ikengown era a bordo dello stesso volo umanitario e anche lui oggi vive in un altro paese, il Portogallo, ma nel suo caso lasciare l’Italia non è stata una scelta. Nigeriano di origine, quando è cominciato il conflitto viveva e studiava medicina a Kiev, e insieme ad altri studenti stranieri ha cercato subito di mettersi in salvo scappando verso il confine polacco.

Arrivato alla frontiera ha scoperto che le regole di protezione non erano le stesse per tutti: la polizia lasciava uscire facilmente le famiglie ucraine, mentre per i ragazzi stranieri la trafila era più lunga. Ha atteso giorni per passare, poi una volta oltreconfine ha preso un treno per Varsavia e qui ha deciso di tentare la via italiana. “Sono stato accolto ad Assisi dalla Caritas, in un convitto con altri profughi. Ho cominciato subito a studiare l’italiano perché l’unica cosa che volevo era riprendere gli studi. Pensavo, e speravo, di potermi iscrivere all’università già a settembre, ma è stato impossibile”, racconta. “Nonostante la mediazione della Caritas, la prefettura ha respinto la mia domanda. Mi hanno detto che non potevano accordarmi la protezione temporanea come agli altri ucraini, anche se ero fuggito dallo stesso conflitto. Mi è sembrata un’ingiustizia. Così ho contattato alcuni amici, mi hanno convinto a venire in Portogallo, a Lisbona. Qui è tutto più semplice: la mia domanda è stata subito presa in considerazione, in poco tempo dovrei essere in regola”.

Nelle linee guida per l’applicazione della direttiva 55/2001 la Commissione europea ha invitato gli stati a valutare anche le situazioni delle persone provenienti da paesi terzi che, come Ikengown, si trovavano in Ucraina quando è scoppiato il conflitto. Ma l’Italia ha deciso di applicare la misura in senso restrittivo. “Anche questo è stato un errore”, aggiunge Schiavone. “La discrezionalità andava applicata in senso ragionevole, invece si è scelto di fare una distinzione che crea uno squilibrio di accoglienza e integrazione tra persone che fuggono dallo stesso conflitto”. Una situazione che per gli esperti sta creando un doppio standard, un sistema binario nel diritto d’asilo, in cui esistono profughi di prima e di seconda classe, non solo tra chi scappa dall’Ucraina ma anche da altri conflitti.

Il governo Meloni alla prova

“La crisi ucraina ci ha dimostrato che si può fare. Si possono accogliere otto milioni di persone in Europa in pochi mesi senza che questo faccia collassare il sistema di accoglienza”, osserva Schiavone. “Concedere libertà di movimento, dare la possibilità alle persone di scegliere il paese dove andare e potersi appoggiare da amici e parenti, conviene alla persone e agli stati. In Italia solo il 10 per cento dei profughi ucraini ha usufruito dei sistemi di accoglienza Cas e Sai. Questo ci fa capire che la solidarietà dal basso va sostenuta e agevolata perché avvantaggia tutti”.

Di recente la Commissione europea ha annunciato l’estensione della direttiva 55/2001 fino al 2024. Ciò comporterà uno sforzo ulteriore di accoglienza per i paesi europei. L’Italia dopo la sperimentazione incerta di questi primi mesi dovrà mettere a sistema quanto fatto finora, superare gli ostacoli burocratici e provare a ridefinire un’accoglienza su basi diverse. Da anni le organizzazioni che si occupano di tutela di migranti, profughi e rifugiati chiedono ai governi di superare il modello basato sui grandi centri di accoglienza, di creare un sistema unico basato sull’accoglienza diffusa e ampliare il Sistema di accoglienza e integrazione.

Ma oggi lo scoglio è rappresentato proprio dal nuovo esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Il ministro dell’interno da lei nominato, Matteo Piantedosi, è stato capo di gabinetto di Matteo Salvini al Viminale e il braccio operativo nell’applicazione dei decreti sicurezza (dl 113/2018) che tra le altre cose hanno ridefinito il sistema di asilo e l’accoglienza in senso restrittivo, smantellando la rete del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), tagliando i servizi e i fondi.

“Noi proveremo a usare questa scelta fatta per l’accoglienza degli ucraini per chiedere al nuovo governo che lo stesso modello valga per tutti. Abbiamo accolto 170 mila persone senza problemi”, afferma Filippo Miraglia, del Tavolo Asilo e immigrazione. “Abbiamo visto che un cambiamento è possibile, che si possono aggiustare le storture del sistema: si può sottrarre centralità al ministero dell’interno e creare un canale diretto con il terzo settore. Nonostante gli errori in questi mesi c’è stata una sperimentazione di certo positiva. Ora bisogna rimuovere i troppi ostacoli burocratici”.

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