“Il luogo dell’uomo è l’orizzonte”, dice un vecchio proverbio tuareg. La retta che corre tra la terra e il cielo e da sola evoca vaste libertà e popoli in movimento, le praterie o il deserto. Sembra una linea d’orizzonte la strada pedemontana che corre per chilometri nel Friuli occidentale, a nord di Pordenone. Tra campi di pannocchie e prati di gramigna, dove d’estate atterrano i deltaplani. Come fosse tracciata con squadra e righello, attraversa distese piatte e vuote. Il cielo ha la luce dei giorni di aprile dopo la pioggia, l’aria è di cristallo, e si potrebbe essere in una provincia del Texas: il filo spinato a bordo strada protegge la pista d’atterraggio della base statunitense di Aviano da cui hanno ripreso a decollare con una certa continuità gli F16 da combattimento, ricordo delle guerre balcaniche. La bandiera a stelle e strisce sventola con success

In questo deserto domestico si trova la sede dell’Associazione culturale islamica, che è anche la moschea di riferimento per le comunità musulmane di Pordenone. L’unica strada che interseca questa lunga retta di pianura termina in un dedalo di parcheggi vuoti e capannoni dai colori improbabili, giallo zucca e nero piombo. Uno ospita una pista di go-kart, un altro un locale di lap dance. Dall’altra parte della strada c’è un lungo edificio a due piani circondato da una cancellata dipinta di verde e decorata con volute bianche orientaleggianti che, insieme alla siepe molto curata, contribuiscono a rendere grazioso lo spazio. Uno striscione in plastica appeso al muro dice “Centro culturale islamico”, in arabo e italiano.

Sono le dieci del mattino di un giorno di Ramadan e la moschea è deserta. Nel grande stanzone, tra le colonne circondate da legno chiaro e la moquette turchese, si respira un silenzio sereno. Nel fine settimana sarà interrotto da decine di persone in preghiera: gli uomini con in capo i pakol, i turbanti, i kufi, e le donne con i vestiti colorati e le casseruole colme di cous cous alla menta, carne e riso, polenta di miglio e salsa verde.

Secondo i dati più recenti dell’Istat, del 2020, a Pordenone quasi l’11 per cento della popolazione è straniera. Una percentuale tra le più alte in Friuli Venezia Giulia, che trova ragione nel tessuto industriale della città e in una tradizione politica di integrazione, entrambi oggi in declino. Negli anni novanta è stata proprio la facilità nel trovare lavoro e i bassi costi degli affitti ad attirare a Pordenone i primi tuareg dal Sahara. Nel tempo, tra ricongiungimenti e nuovi arrivi, hanno formato la comunità più grande d’Italia, con otto famiglie e quasi cinquanta persone.
“Pordenone è la capitale tuareg”, dice Haddo Oubana, uno degli esponenti più attivi della comunità, nel suo appartamento poco fuori dal centro cittadino. Ad aprire la porta è una delle figlie, non c’è traccia di adulti in casa. Una ragazzina al tavolo del salotto fa i compiti, una bimbetta si aggira socievolissima. La madre non si vedrà mai. In salotto ci sono un tappeto arancione e nero, due divani e un mega televisore acceso a volume silenziato. Passa un po’ di tempo prima che compaiano Oubana e poi, alla spicciolata, alcuni amici. Mohamed Abety, silenziosissimo ed elegante, nella sua bianca tagelmust, la fascia di cotone che forma il turbante e copre il volto lasciando liberi solo gli occhi, e Amadede Bachona, tra i primi ad arrivare a Pordenone.

Come in una tenda

In questo appartamento in muratura nell’operosa provincia del nordest valgono le regole degli accampamenti nel deserto. “Non servono chiavi, le porte per noi non delimitano nessun confine”, racconta Oubana. “Questa è casa di chiunque voglia entrare”. Nel deserto è raro trovare una tenda isolata, ha spiegato l’africanista Barbara Fiore nel libro Tuareg (2011). È convinzione che i luoghi vuoti siano dominio dei kel tènere, gli esseri della solitudine che generano la follia malinconica.
Riuniti in salotto, i corpi si dispongono con naturalezza come in una tenda, a gambe incrociate sul divano, più a proprio agio sul tappeto che in poltrona. Oubana e i suoi amici sono arrivati dal Niger all’inizio del 2000, nessuno di loro voleva emigrare, ma anni di siccità avevano ucciso il bestiame e reso impossibile continuare una vita nomade. “Il nomadismo ti facilita quando sei costretto a diventare stanziale”, dice Oubana, pulendosi gli occhiali sulla felpa. “Ti insegna che nella vita quotidiana è fondamentale mescolare le culture, la tua e quella del luogo in cui arrivi, così diventa facile vivere in posti nuovi senza dimenticare la tua identità”.
Il nomadismo della vita si trasferisce alla cultura dei tuareg. “La cosa più importante per noi è il dovere dell’ospitalità”, dice Mohamed Abety, che parla con la voce bassa di chi è abituato a ottenere il silenzio. “Anche se sei povero, non puoi mai rifiutare l’accoglienza a chi arriva in mezzo al deserto, perché nel deserto si può morire. Anche se hai una sola capra e a mezzanotte arriva uno straniero, accendi il fuoco e la condividi. Quando lasciamo il nostro paese cerchiamo di non perdere questa tradizione che ci definisce, anche se non sempre è facile”.

I tuareg non hanno leggi scritte ma hanno un codice di condotta, l’achak. “Lo puoi tradurre come il pudore di fare cose sbagliate o disonorevoli”, spiegano. L’achak si incarna in uno strumento musicale, l’imzad, un violino costruito con pelle di capra, legno e crine di cavallo che viene suonato la sera quando ci si ritrova. Il suono dell’imzad è pieno di significato perché infonde coraggio, dignità e l’orgoglio di essere persone libere. Essere “ascoltatori di imzad” significa rispettare l’achak, ossia “dare protezione a donne e bambini indipendentemente dalla loro etnia, rispettare gli anziani, avere cura dell’ambiente, comportarsi in modo dignitoso rispetto alle fatiche che il deserto impone”.

L’achak più che una legge è un’attitudine interiore che non viene mai abbandonata. Come il nomadismo. Anche se vivono da molti anni in un territorio fondato sul culto della casa, i tuareg di Pordenone non sono proprietari. “Preferiamo non avere vincoli che ci leghino, cambiamo spesso quartiere. Vogliamo rimanere con le spalle leggere”, dice Oubana, indicando con un gesto i mobili della stanza, che hanno l’aria di essere oggetti che gli è capitato di trovare e che potrebbe abbandonare in qualsiasi momento. Alla domanda se pensano di ritornare un giorno in Niger le voci si abbassano, gli sguardi si fanno più seri: ci sono i figli, loro vanno ancora a scuola, però sì, tutti pensano un giorno di tornare.

“Il deserto ti manca per sempre”, confessa Ibrahim Kane Annour, uno dei pochi tuareg a non lavorare nelle fabbriche, ma ad aver mantenuto un lavoro in Niger, organizzando viaggi turistici. È quasi il tramonto e le stanze della sua casa sono abitate dal tramestio dei preparativi per la fine del digiuno giornaliero. “Il deserto è qualcosa che non puoi dimenticare se ci sei stato. Il deserto ti indebolisce. Ti rinforza attraverso la debolezza, dandoti il dono raro della profondità”, precisa cercando di descrivere una dimensione dell’animo più che uno spazio fisico. Arrivare in Italia è stato per quasi tutti l’incontro con un’idea del tempo radicalmente diversa. “Qui sono tutti schiavi del tempo, noi invece siamo maestri del tempo”, dice Ibrahim Kane Annour con fierezza. “Qui le giornate sono programmate, da noi invece le cose si fanno quando si possono fare, lasciando che ognuna prenda il tempo necessario. Solo per salutarsi ci vuole mezz’ora e per fare il tè ci vogliono tempo, amici e un fuoco di braci. Qui ci si dà appuntamento, nel deserto ci si trova”.

Alfabeto sulla sabbia

L’idea di comunità è forte, ed è quella che ha spinto molti tuareg a trasferirsi a Pordenone, non perché sia il luogo più ospitale d’Italia, ma perché qui c’era già una parte di loro. Tounfana Chaibou ha quarantuno anni, è arrivata vent’anni fa dalla capitale del Niger, Niamey, per seguire suo marito. “È stato un grande cambiamento”, racconta con una vitalità aliena a queste terre spigolose. “Mio marito usciva all’alba per lavorare in fabbrica e tornava al tramonto. Io passavo le giornate a dormire pur di non pensare. Mi mancavano i miei fratelli e sorelle, la casa piena di gente. Poi ho iniziato ad andare a scuola, a imparare l’italiano. E per fortuna c’era l’associazione”.

Mondo tuareg è una onlus nata nel 2006 per favorire lo scambio tra la cultura tuareg e la realtà friulana. Oltre all’aiuto per chi arriva, ha promosso il finanziamento di alcuni progetti in Niger, la costruzione di una scuola e di pozzi per l’acqua. “L’associazione e la moschea sono il cuore della nostra comunità. Lì facciamo le feste, suoniamo la nostra musica e facciamo ballare i figli, indossiamo i vestiti tradizionali. E soprattutto parliamo la nostra lingua, il tamasheq”.

Tutti i tuareg di prima generazione rivendicano il legame con la lingua, anche se ammettono di aver perso il tifinagh, l’alfabeto da molti imparato scrivendo sulla sabbia. I ragazzi più giovani capiscono il tamasheq, ma rispondono in italiano. A un certo punto entra la figlia più piccola di Tounfana Chaibou, si chiama Nadia e ha cinque anni. Ha fame. “Noi rispettiamo il Ramadan, ma non obblighiamo i nostri figli al digiuno”, dice allungando a Nadia un piatto di patatine appena fritte. Lei le prende e si siede davanti all’enorme televisore, che anche qui è sempre acceso senza il volume.

I tuareg sono musulmani osservanti, ma ci tengono a prendere le distanze dall’islam radicale. “Per noi la religione è una questione personale, è un elemento di spiritualità, una credenza interiore non politica”, spiega Abety. La tagelmust gli copre la bocca e dà un tono solenne alle sue parole. “Il problema con l’islam è che in pochi hanno letto il Corano. In tutte le cose, se non c’è la sapienza è facile che prevalgano gli estremismi. Chi non conosce il vero islam non farà mai la pace”. La parola pace riecheggia nelle case tuareg, anche se alcuni di loro portano negli occhi le tracce della guerra da cui sono scappati. Come Kane Annour, che ha lasciato Agadez allo scoppio della rivolta del 2007, sospettato di essere dalla parte dei ribelli che lottavano contro il governo.

“Le multinazionali straniere incidono sulle democrazie del continente”, dice accalorandosi. “L’occidente, la Francia e gli Stati Uniti soprattutto, hanno sempre cercato di destabilizzare le nazioni che iniziavano a crescere”. Il futuro dell’Africa per lui è incerto: “Credo sia ancora presto per arrivare a una democrazia diffusa, perché abbiamo un tasso elevato di analfabetismo, e non puoi costruire la democrazia in un paese analfabeta”. Gli uomini blu del deserto sono spesso raffigurati nei loro vestiti azzurri, con il dromedario e la spada. Un popolo che ha saputo resistere ai colonizzatori ma che ha anche finito per mescolarsi nelle brigate armate di Muammar Gheddafi. Sono quindi un popolo combattente o di pace?

“Siamo combattenti, ma solo nelle guerre di ribellione, quando sono in gioco i diritti di un popolo”, si infervora Amadede Bachona, finora rimasto silenzioso sul tappeto. “Ci sono stati dei brutti episodi dopo la guerra in Libia, quando alcuni tuareg armati sono migrati in Mali e sono stati fotografati sotto la bandiera nera del terrorismo islamico. Quello è stato uno sbaglio, perché il mio popolo non esita a schierarsi accanto agli oppressi, ma ripudia ogni guerra di religione”.

Senza frontiere

I tuareg hanno scontato sulla loro pelle non solo le recenti mire dell’islam radicale, ma anche gli effetti più antichi della colonizzazione francesce che a inizio novecento segnò la prima mappa dei confini tra Mali, Algeria e Niger, frammentando il popolo nomade. Amadede è rassegnato, i tuareg non avranno mai un proprio paese. D’altra parte la nozione di frontiera, spiega, è estranea all’Africa, è stata portata dai colonizzatori europei. “Noi siamo un popolo che si identifica per la lingua e la cultura. Il fondamento che potrebbe accomunare un’ideale nazione tuareg è la pace. Sogniamo un passaporto che ci permetta di andare liberamente là dove c’è il nostro popolo”. Come accade quando i tuareg si spostano nel deserto e seguono le vie dei dromedari, allora non servono documenti, bastano il turbante e i vestiti, e questo popolo di nomadi liberi riesce ancora a muoversi senza bisogno di identificazione. Solo tra paesi in pace, specificano.

Il sole sta tramontando e dalla cucina di casa di Ibrahim Kane Annour si sente crescere l’eccitazione dei preparativi. Tounfana Chaibou spiega che ogni tuareg quando fa da mangiare calcola dosi doppie perché non si sa mai quanti ospiti busseranno alla porta. Dalla cucina esce un vassoio di samosa ancora caldi, la moglie di Kane Annour ne prepara un pacchetto da regalare. Le donne nella cultura tuareg non portano il velo, sono rispettate come il fondamento di una cultura matriarcale. A Pordenone alcune di loro lavorano fuori casa e sono ben inserite nel territorio.

Spesso, però, l’emancipazione si scontra con la conoscenza della lingua. Le ragazze studiano, ma non sempre per loro è stato facile. La figlia di Kane Annour è stata bocciata due volte perché all’inizio conosceva poco l’italiano: “Aveva iniziato il liceo linguistico, il pomeriggio andava a scuola per recuperare insieme a una ragazza americana, la professoressa le disse chiaramente che avrebbe aiutato l’altra ma non lei. Poi cambiò scuola e andò meglio. Adesso fa l’università”, racconta. “A Pordenone il razzismo è nascosto, ma c’è. Anche a sinistra”. Poi precisa: “Per me non è razzista chi per strada mi dice ‘Ibrahim sei nero’. Razzista è chi ci toglie i diritti. Mia figlia studia qui da quattordici anni e deve rinnovare il permesso di soggiorno ogni anno. Razzista è l’insegnante dei miei figli che quando gli chiedo un consiglio per farli studiare mi suggerisce di mandarli all’istituto tecnico, oppure a imparare un mestiere”.

“Le cose sono peggiorate negli ultimi anni”, dice alla fine, quasi a non voler lasciare troppo spazio a questo tipo di discorsi. La politica è peggiorata. Nelle strade ci sono cartelli che vietano ai cittadini di fare la carità, le associazioni non ricevono fondi, si sradicano gli alberi, i mondi diversi dal nostro ci interessano sempre meno. “Però le giunte politiche se ne vanno, mentre le città restano”, sorride Kane Annour. Risuonano le parole di Gilles Deleuze, il filosofo che amava i popoli migranti e gli accampamenti rizomatici, cioè quelli che si sviluppano senza un centro o direzioni fisse, diceva che “i nomadi non hanno passato né avvenire, ma solamente delle pluralità di divenire”. E se il tempo dei popoli globalizzati sta finendo, è al desiderio di infinito del nomade, al suo orizzonte sempre aperto, che bisogna guardare, immaginando una vita che si riconcili con il nostro tempo e con l’idea di pace.

Da sapere
Il popolo blu

I tuareg sono una popolazione nomade di circa due milioni di persone, che vive nell’area del Sahara, principalmente nei territori di Mali, Niger, Ciad, Libia e Algeria. Sono chiamati “il popolo blu” per il colore dei loro abiti tradizionali. Praticano l’islam, parlano il tamasheq, una lingua berbera, e per secoli hanno vissuto nel deserto, sostenendosi con l’allevamento e i commerci. Nella comunità ci sono gruppi che rivendicano uno stato tuareg: tra loro, il Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad, che nel 2012 si è alleato con i combattenti jihadisti per occupare temporaneamente il nord del Mali.


Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it