Èsempre estate alla Biennale d’Arte di Venezia. È sempre il ritrovo di un’umanità in magliette a righe e borracce, arrivata in vaporetto per risparmiare le gambe. Alle 11 del mattino, quando aprono i cancelli, c’è già una lunga coda: chi sta aspettando di comprare il biglietto sul posto e chi ha già provveduto online, con i secondi che filano verso l’entrata un po’ vergognosi per aver superato tutti d’un balzo.
Se l’esposizione all’Arsenale dà una direzione chiara della visita, i Giardini pongono subito l’interrogativo: da dove comincio? Quale ordine seguo? Una domanda che ha in sé uno dei sensi della mostra di quest’anno, che di centri e gerarchie non ne vuole sapere. Ci si può perdere tra i padiglioni gironzolando guidati dal caso o da una mappa interiore. Io decido di partire dal padiglione Biennale.
L’ingresso obbligato è dalla sala Chini, uno spazio circolare altissimo affrescato in blu e oro che sembrava in attesa dell’opera di quest’anno, l’enorme elefante di Katharina Fritsch, Leone d’oro alla carriera, che ci osserva da un piedistallo. È iperrealistico e fantastico allo stesso tempo, apocalittico e onirico. Evoca una memoria di tempi ancestrali, di migrazioni per la sopravvivenza, di cattività. L’epidermide verde scuro, quasi bronzo, dà all’animale una presenza museale e spinge a un cortocircuito con la nitidezza del dettaglio anatomico: organico o inorganico, vivente o artificiale, siamo già nel pieno della mostra.
Ma la parte più suggestiva, e perturbante, del padiglione è la Culla delle streghe, naturalmente nei sotterranei. È qui il cuore della Biennale. La visione della curatrice Cecilia Alemani, nitida e rivoluzionaria, diventa un orizzonte comune a tutti gli artisti e trasmette l’idea che il futuro sia anomalia e differenze, ma sia un futuro comune. I diversi padiglioni hanno una coerenza naturale che consente anche al visitatore più distratto di cogliere rimandi e fili di connessione.
Nella Culla delle streghe si trovano le opere di artiste della prima metà nel novecento provenienti da varie parti del mondo: sono accomunate dall’aver messo in discussione, nei loro lavori e nelle loro vite, non solo il mito dell’io cartesiano (maschile), ma ogni dualismo. Le sculture, i disegni, le fotografie spingono verso una realtà ibrida, la metamorfosi diventa politica, saltano le distinzioni tra immaginario e reale, naturale e fantasmatico. La libertà qui non ha niente di dichiarativo, parla con un’inevitabilità da cui abbiamo molto da imparare. In queste sale si trovano anche i disegni di Leonora Carrington, che con la sua idea di creature in continua metamorfosi tra animale, vegetale e fantastico, è l’ispiratrice del tema della Biennale Il latte dei sogni.
L’intuizione di quest’anno è semplice e sconvolgente: postumano e mondo naturale altro non sono che facce diverse della stessa medaglia, nate dalla necessità di mettere in questione l’antropocentrismo. E a chi solleva il dubbio che questa messa in discussione sia tutto sommato umanissima, la mostra suggerisce che la posta in gioco sia un rovesciamento dello sguardo.
Non si tratta di togliere dal centro l’uomo per metterci le piante o i cyborg, quanto piuttosto di andare verso un’idea unica di vita che non contenga primati di dominio, ma solo manifestazioni orizzontali di una metamorfosi perenne. Le creature si fanno ibride, disobbedienti, generano nuove armonie e disarmonie.
Ne è un esempio l’esposizione della Danimarca. Una famiglia di centauri còlta in un momento drammatico. I soggetti sono sculture iperrealistiche immerse in una situazione di tensione: a colpirci, più della loro identità ibrida, è la loro storia, la percezione di qualcosa che è accaduto in un’atmosfera di angoscia bergmaniana.
Meglio fare due passi per respirare. Tra i viali, l’occhio è attratto dal padiglione degli Stati Uniti, una costruzione in acciaio, legno e paglia che sembra un palazzo dell’Africa occidentale negli anni trenta. L’allestimento è opera della stessa artista a cui è dedicato lo spazio, Simone Leigh, vincitrice del Leone d’oro come miglior artista e prima donna nera a rappresentare gli Stati Uniti. Le sue statue, spesso di grandi dimensioni, lavorano contro gli stereotipi della cultura coloniale e contro quelli della rappresentazione del corpo femminile: alcune sono dettagliatissime e altre di un minimalismo totemico, ma in tutti i casi sprigionano una forza prorompente. Come nel caso di Brick house, esposto inizialmente nel mezzo della High line di New York e ora all’entrata dell’Arsenale. Un busto monumentale dove il collo di donna continua in una gonna che ricorda una casa d’argilla, il volto è cieco, lunghe trecce ai lati del viso: la sua possanza s’impone sulla sala e riporta alla mente l’esortazione di Toni Morrison: “Dicci cosa significa essere una donna, così potremo sapere cosa significa essere un uomo”.
Il lavoro di Leigh appare insieme personale e politico. Prendere una donna africana dal corpo enorme e metterla in mezzo al traffico della capitale d’occidente mostra come quello che un po’ retoricamente chiamiamo “necessità del gesto artistico” altro non sia che la rara e benedetta situazione in cui un’incandescente questione personale viene resa, grazie all’arte, universale. Vale la pena di rivedere Brick house nel silenzio e nel vuoto, magari facendo il percorso dell’Arsenale al contrario, verso l’ora di chiusura.
Una fascinazione simile a quella delle opere di Leigh la producono le sculture dell’argentino Gabriel Chaile, nella prima sala dell’Arsenale. Enormi forni d’argilla che compongono una genealogia familiare: figure tonde o slanciate, tra l’animale, l’umano e l’inanimato. Contenitori cavi che generano nutrimento. Se la scrittrice Ursula K. Le Guin, musa ispiratrice di questa Biennale, esortava a raccontare la storia non solo attraverso lance e bastoni, oggetti lunghi e duri di dominio, ma anche guardando i recipienti che accolgono e creano, perché quella è una storia nuova, allora nelle opere di Chaile sembra di vedere un altro modo non solo di raccontare il passato ma anche d’immaginare il futuro.
Giochi di bambini
Uscendo dal padiglione statunitense basta attraversare il viale per trovare una tregua di spensieratezza entrando in quello del Belgio, dedicato a The nature of the game: l’ansia di senso ci abbandona, veniamo catturati da una composizione di video che riproducono giochi di bambini. Una palla di neve rotola fino a diventare immensa; ragazzini giocano a “ce l’hai” in tempi di covid o alla guerra tra case abbandonate, usando come arma schegge di specchio che rifrangono la luce trasformandola in proiettile; altri bambini trovano la tonalità sonora che attira le zanzare e la intonano coprendo il cielo azzurro sopra di loro. Il gioco ci prende, toglie peso, porta altrove, annulla il tempo.
Giocoso è anche padiglione francese, con un omaggio al cinema che ricorda un po’ Midnight in Paris di Woody Allen, con la ricostruzione dettagliata dei set. Una mise en abyme nel cinema tra Francia e Algeria, in una questione coloniale mai chiusa del tutto ma che resta sospesa con grazia sopra le teste dei visitatori che si godono la sfavillante consistenza della finzione.
Forse meno lieve ma ugualmente coinvolgente lo spazio della Svizzera, dove l’artista di origine marocchina Latifa Echakhch ricrea l’esperienza di un concerto facendoci attraversare una percezione di luci e suoni in crescendo: dal chiaro al buio, dal leggero scricchiolio della ghiaia sotto i passi alla musica che attraversa una stanza nell’oscurità, dove raggi arancioni illuminano grandi costruzioni in materiali organici che ricordano le installazioni carnevalesche del raduno del Burning man, nel deserto del Nevada. Un un processo di distruzione e rinascita ben accordato all’ispirazione della mostra.
Uscendo dal padiglione svizzero e andando verso est si passa davanti al padiglione russo. All’indomani dell’invasione dell’Ucraina, il curatore e gli artisti hanno fatto sapere che non avrebbero partecipato: “Non c’è spazio per l’arte quando i civili muoiono sotto il fuoco dei missili” ha scritto uno di loro, Kirill Savchenkov, su Instagram. Il cuore del loro progetto era una citazione dal Poema senza eroe di Anna Achmatova, “Come matura nel passato il futuro / Così nel futuro il passato marcisce”, un progetto che si concentrava sull’eterno ritorno della dittatura e oggi suona sinistro. Il padiglione è sorvegliato da una guardia: probabilmente si teme qualche atto dimostrativo che non arriva, il silenzio degli artisti basta ad ammutolire e chiude la gola.
Continuando verso est si attraversa il ponte e si raggiunge lo spazio più esterno dei Giardini, dove sono almeno tre i padiglioni che meritano una sosta. Quello della Jugoslavia, con un’audace equivalenza assegnato alla Serbia, ospita la duplice installazione di Vladimir Nikolić: due pannelli video, orizzontale e verticale, mostrano l’acqua di un mare infinitamente replicato e una piscina ripresa da un drone. Si è sopraffatti dall’azzurro: l’occhio della telecamera ci porta altissimi sopra le dieci corsie olimpioniche dove un nuotatore fa vasche a stile libero a ripetizione, l’occhio di quattro proiettori orizzontali replica lo stesso tratto di mare in un’estensione infinita. Ci invade una pace acquatica, mentre la ripetizione davanti a noi non cambia nulla dell’oggetto ripetuto ma fa sì che qualcosa accada in noi che guardiamo.
Il padiglione russo è sorvegliato da una guardia: si teme qualche atto dimostrativo, che non arriva
Una sorpresa è il padiglione polacco dedicato alla cultura rom. Małgorzata Mirga-Tas divide le pareti della sala in tre sezioni orizzontali per tre serie di patchwork sgargianti che riprendono non solo i soggetti ma anche il linguaggio della cultura rom: alla sommità sono rappresentate le migrazioni dei popoli, in basso scene di vita quotidiana di una vivacità commovente, e al centro la raffigurazione dei segni zodiacali (che richiamano quelle di palazzo Schifanoia a Ferrara) accompagnati da figure di donne importanti nella vita dell’artista. Vale la pena di prendersi del tempo nelle comode poltrone sparse nella sala, e lasciarsi trasportare da una suggestione che è insieme di viaggio e di libertà, come se l’artista tracciasse per noi una via di fuga chiassosa e allegra mettendo in questione il nostro concetto di radici e di proprietà.
Spazi fisici e spazi illusori
Di padiglione in padiglione si fa chiara l’intuizione che la messa in crisi di un pensiero binario non riguardi solo l’identità, ma tutti gli elementi che la compongono, anche lo spazio e il tempo, come sembrano alludere, parlandosi in modo inaspettato, il padiglione spagnolo e quello tedesco. Nel primo, lo spazio fisico è ripensato attraverso la creazione di nuove pareti che allineano l’edificio agli altri limitrofi: una rotazione di dieci gradi genera un gioco di muri vecchi e nuovi che s’intersecano e si sdoppiano in un’impercettibile differenza di bianchi. Maria Eichhorn invece, riprendendo la tradizione filologica tedesca, interroga lo spazio sulla linea del tempo, mostrando nelle pareti attuali delle stanze l’ombra della struttura degli anni del nazismo. In entrambi i casi la rottura con la staticità chiara e distinta è totale.
A riassumere lo spirito di questa Biennale sono però per me due lavori video che si trovano all’Arsenale e potrebbero quasi sfuggire, nella colossale sbornia d’arte. Uno ha una propria sala dedicata all’inizio dell’esposizione, s’intitola Songs from the compost ed è dell’artista lituana Eglė Budvytytė; l’altro, in un angolo a metà del percorso, l’ha realizzato LuYang, artista di Shanghai, e s’intitola DOKU. Insieme esplorano un nuovo mondo, postumano o naturale, dove l’umanesimo è finito da un pezzo. Nell’ipnotico video di Budvytytė un gruppo di ragazzi si aggira tra foreste, mare e dune sabbiose. Come sopravvissuti imparano un modo nuovo di esistere sul pianeta: fanno il ponte sulla sabbia, strisciano, avanzano in ginocchio nell’acqua, respirano con la foresta. Le relazioni tra umani e Terra si ridisegnano da zero, quelle tra umani diventano più morbide, sinuose, passano attraverso l’interconnessione con i licheni, la corteccia, l’acqua. Mentre si sente cantare il verso di una canzone che dice “learning by a stone”.
Negli schermi di LuYang pare invece di assistere a un videogioco da cui è impossibile staccarsi, per il suo portato di umanità sconvolgente e intima. L’iconografia degli anime giapponesi si mescola alla mistica e alle paure contemporanee. In tre schermi un ragazzo sciamano sopravvive a un incidente aereo e attraversa diverse reincarnazioni spirituali: non c’è distinzione tra l’enorme roulette in mezzo al deserto e la montagna di scheletri non seppelliti che richiama un sito tibetano, i luoghi del consumismo popolare sconfinano in quelli della spiritualità, la frenesia multisensoriale è declinata in stile gotico urbano. La musica techno si alterna alla lirica e noi veniamo trascinati fino al punto estremo in cui il corpo si disgrega cellula dopo cellula, banchetto di avvoltoi in una montagna sacra circondata da totem. Rimane solo la mente e poi si disgrega anche quella. Cos’è la forma umana? viene da chiedersi davanti a quest’opera. Cos’è la perdita di sé? E tornano in mente le parole con cui il filosofo Emanuele Coccia chiude il suo libro sulla metamorfosi: “La nostra carne non smetterà mai di cambiare. Dobbiamo ammalarci, ammalarci gravemente. E non aver paura di morire. Noi siamo il futuro. Viviamo in fretta. Moriamo spesso”.
Parole che s’incarnano anche nell’ultima sala che porta all’uscita dell’Arsenale. L’artista statunitense di origini nigeriane Precious Okoyomon ci immerge in una foresta punteggiata da sculture in materiali vivi, che crescono e si decompongono tra piante rampicanti, piccoli corsi d’acqua, fiori selvatici. E mentre ci ricordiamo la confortante sensazione del camminare in mezzo all’umido labirinto di terra mista a fieno, polvere di cacao e spezie che avevamo attraversato alle Corderie nel lavoro della colombiana Delcy Morelos, lasciamo che un vago odore di morte, compagna trascurata di ogni metamorfosi, ci circondi e lentamente ci conduca alla fine della mostra, in quella luce lagunare che era per Iosif Brodskij “carezza dell’infinito”.
La cinquantanovesima edizione della Biennale di Venezia è cominciata lo scorso 23 aprile e rimarrà aperta al pubblico fino a domenica 27 novembre. L’esposizione d’Arte internazionale 2022 è curata da Cecilia Alemani e il titolo, Il latte dei sogni, s’ispira all’omonimo libro di favole della surrealista Leonora Carrington. La mostra ospita 213 artiste e artisti provenienti da 58 paesi. Dall’Italia ne vengono 26. Le opere sono 1.433, di cui 80 nuove produzioni. La Biennale si articola tra il padiglione centrale ai Giardini (che ospita 29 padiglioni nazionali), il centro storico e l’Arsenale. Qui, tra gli spazi espositivi delle Corderie, dell’Isolotto e delle Sale d’armi ci sono altri 23 padiglioni nazionali, tra cui il padiglione Italia, vicino alle Tese delle vergini.
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