“Èuna forma di ribellione”. Con queste parole L., lavoratrice del mondo culturale, ha definito le “grandi dimissioni”, il fenomeno che sta portando milioni di persone in tutto il mondo ad abbandonare il lavoro. Secondo lo US Bureau of labor statistics, negli Stati Uniti venti milioni di persone hanno dato le dimissioni a partire dalla primavera del 2021. L’ex ministro del lavoro Robert Reich ha parlato di uno “sciopero generale non dichiarato” il cui obiettivo è evidenziare come il lavoro contemporaneo, spesso sottopagato, precario, afflitto da continui tagli al personale, da un carico troppo elevato e da una cultura tossica, sia diventato insostenibile.
In Italia ci sono state 485mila dimissioni volontarie nel secondo trimestre del 2021, dice la Nota trimestrale del ministero del lavoro. Questo dato indica un aumento dell’85,2 per cento rispetto al 2020 e del 10 per cento rispetto al 2019. Ma la crescita tendenziale delle dimissioni volontarie è cominciata nel 2016, come dicono i dati dell’Osservatorio del precariato Inps sulle cessazioni dei rapporti di lavoro per dimissioni, con l’unica eccezione del 2020, cioè in piena pandemia. E il fatto che in Italia, una volta superata la fase più acuta della pandemia, le dimissioni volontarie siano aumentate meno che in altri paesi, come gli Stati Uniti o l’Australia, non deve rassicurare. In Italia, infatti, il mercato del lavoro è molto meno dinamico.
L’Italia è l’unico paese d’Europa in cui gli stipendi negli ultimi vent’anni sono diminuiti invece che aumentare, dicono i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse); in cui la pressione fiscale è mediamente più alta rispetto agli altri paesi europei, nonostante salari e tutele sociali siano più bassi, come dice il rapporto su Salari e occupazione in Italia della Fondazione Di Vittorio; in cui il mercato occupazionale è caratterizzato dalla crescita dei contratti a termine e del lavoro dequalificato: solo il 10 per cento dei posti disponibili richiede una laurea, dicono i dati di Unioncamere e Anpal. L’Italia, infine, è il paese con il tasso di occupazione più basso d’Europa dopo la Grecia (62,6 per cento).
In assenza di un’offerta qualificata, non è semplice, in Italia, passare da un lavoro all’altro. È per questo che i dati sulle dimissioni devono allarmarci: perché il mezzo milione di lavoratrici e lavoratori che ha deciso di lasciare il lavoro nel secondo trimestre del 2021, lo ha fatto sapendo che lì fuori c’è una disoccupazione giovanile del 29,8 per cento e 2,3 milioni di disoccupati (dati al settembre 2021), oltre a poche alternative. È necessario, dunque, indagare le esperienze del lavoro contemporaneo per comprendere che cosa spinge migliaia di persone ad abbandonarlo in questo contesto.
L. ha quarant’anni, ha lavorato a lungo nel mondo della cultura e conosce bene il settore dell’editoria, della pubblicistica e delle arti. Colta, acuta, ironica, ha lasciato il lavoro a luglio provando un senso di sollievo. La sua storia somiglia a quella di tante lavoratrici con figli, che durante la pandemia hanno dovuto far fronte all’assenza di tutele e di welfare, trasformandosi in mamme, insegnanti, cuoche e infermiere all’occorrenza. Dal 2015, L. ha lavorato come collaboratrice con partita iva per un unico cliente. “Aprivo l’ufficio tutte le mattine”, dice.
“Ero in una situazione anomala, perché ero l’unica con figli piccoli e l’unica partita iva. Il mondo della cultura è una valle di lacrime, fatto di contratti di collaborazione coordinata e continuativa o a progetto. Per me era fondamentale avere un po’ di libertà. Con la partita iva ovviamente non ci sono progressioni di carriera né scatti salariali, ma si riesce a gestire una situazione come la mia, con un lavoro e figli piccoli. Peraltro avere a che fare con i giornali significa spesso non avere orari, lavorare il sabato o la domenica. La partita iva può essere uno strumento, ma è diventata lo strumento vessatorio per poter sfruttare le persone senza garantirgli niente in cambio”.
Scelta politica
Per L., la pandemia è stata una “tempesta perfetta”. “Immediatamente mi sono sentita in difetto perché non avevo accesso a certe forme di tutela e non potevo reclamarle perché in alcuni casi non esistevano nemmeno. A noi donne, madri e lavoratrici è come se avessero detto: fai il sacrificio umano, abbiamo scelto te. Poi la pandemia è entrata in casa: mio padre si è ammalato e mi sono ritrovata prima con la famiglia in quarantena, poi con un genitore in ospedale e una situazione infelice sul lavoro. Ricordo che mi svegliavo con un senso di fallimento, perché tutto faceva capo a me e pensavo che pure mettendocela tutta e cercando di essere una brava madre, una brava cittadina e una brava nel lavoro, era impossibile farcela. Mi ricordo questa sensazione terribile di arrivare a fine giornata pensando che ne sarei u++++scita con un disordine da stress post-traumatico come in guerra. Era burnout e questa fuga dal lavoro è un tentativo di sottrarsi al burnout”.
Non riuscivo a stare lì dentro. Ho avuto un attacco di panico, un rigetto che non potevo controllare
L’esaurimento di L. dipendeva da una serie di carenze strutturali che si sono manifestate contemporaneamente. Non c’era solo il lavoro senza tutele, con un capo ostile e cinico, in un ufficio sotto organico, con una mole di lavoro che raddoppiava da un giorno all’altro senza preavviso. Pesavano anche l’assenza di servizi per la cura dei figli, la chiusura delle scuole e un sistema sanitario sottofinanziato che non è riuscito, nonostante i sacrifici di medici e infermieri, a tutelare la salute della popolazione.
“Ti ritrovi in questa situazione e dici: non posso pagare il conto di tutto da sola perché il carico è troppo, non posso essere la colla che tiene insieme questo sistema”.
L. si è trovata ad affrontare la pandemia e la perdita del padre nel momento in cui il suo carico di lavoro veniva raddoppiato.
“In tutto questo è arrivato un nuovo capo che ha creato divisione, eravamo sul filo del mobbing, con i figli in quarantena mentre tutto ricade su di te e nessuno ti dà un giorno, un’ora, mezz’ora, nessuno ti chiama e ti chiede se stai sopravvivendo. Ho sempre pensato che i luoghi dove si lavora con la cultura dovrebbero essere laboratori di idee progressiste. Ma invece di ricevere una telefonata per chiedere ‘hai bisogno di una mano’ mi sono vista raddoppiare il carico di lavoro senza preavviso. E per di più mi hanno tolto una persona di aiuto, senza rivedere l’accordo economico. Questa è la minestra, hanno detto. Allora parliamo della finestra, ho risposto. Alla fine la mia è stata una scelta politica”, dice L.
“In realtà sono sempre più convinta che era l’unica decisione giusta, perché se il mondo della cultura non è un presidio di buone pratiche, il nostro lavoro è inutile. Ogni tanto ho le vertigini per questa scelta, ma mi conforta sapere che non sto partecipando a un sistema cannibale. Penso di essere meno inquinante e più ecologica se guadagno un po’ meno e non accetto certe condizioni”.
Quando le chiedo cosa pensa delle grandi dimissioni, dice: “Secondo me è vero che in parte questo movimento di dimissioni di massa ha delle sacche di depressione. Nasce sicuramente dall’attraversamento delle tenebre. Però le tenebre a volte sono illuminanti. Le crisi sono opportunità, nuovi mondi possibili che si prefigurano. A cambiare sono le regole che non sono più sostenibili”. Semplicemente: “Le persone non vogliono più lavorare a queste condizioni. Rinunciare al lavoro fa meno paura perché stai a rinunciando a un aguzzino, ti stai liberando”.
Christina Maslach, autrice di Burnout: the cost of caring (Malor Books 2011), dice che le cause del burnout sono riassumibili in sei punti: un eccessivo carico di lavoro, corredato da una cultura del lavoro tossica tesa a tagliare l’organico e a sovraccaricare il personale; la scarsa autonomia sul lavoro dei dipendenti; la mancanza di riconoscimento economico; un clima vessatorio e, infine, la mancanza di equità. Di fatto, le grandi dimissioni parlano spesso di lavoratrici e lavoratori che, in una situazione di esaurimento, decidono di sottrarsi a tutte queste condizioni, per tutelare la loro salute e la loro famiglia.
F. ha 41 anni e lavora in un’azienda di gioco e scommesse da dieci anni. È veloce, brillante, ha una lunga esperienza di lavoro all’estero, e poco dopo essere stato assunto è stato promosso a direttore di un punto vendita. Poi sono cambiati i dirigenti e l’azienda ha messo a capo delle sale scommesse persone che avevano un comportamento vessatorio con i lavoratori e l’obiettivo principale di tagliare l’organico, anche se l’azienda, nel frattempo, continuava a crescere: “I nuovi dirigenti hanno imposto dei cambiamenti in maniera forzosa, stravolgendo i turni e ponendosi come obiettivo la riduzione del personale. Bisognava risparmiare il più possibile, quindi lavoravamo molto con i voucher e le collaborazioni a tempo. Dovevamo formare le persone nuove per tre mesi, e magari dopo sei mesi se ne andavano”.
Qui sono cominciate le difficoltà, spiega F., perché l’azienda obbligava le persone a lavorare nei giorni di festa, come Natale, e poi a prendersi mezza giornata di riposo extra in quel mese, in deroga al contratto. Quando qualcuno si rifiutava di lavorare a queste condizioni, l’azienda chiedeva ai responsabili come F. di convincerli a cambiare idea, con le buone o con le cattive.
“Dovevamo trovare pretesti per fare lettere di richiamo. L’azienda ci metteva a disposizione manager e risorse umane per aiutarci a trovare pretesti per allontanare queste persone. Mi hanno chiesto di rendere la vita difficile ai collaboratori che si rifiutavano di lavorare a queste condizioni fino a quando non mi sono messo di traverso anch’io”. Ma quando F. si è rifiutato di assumere un atteggiamento vessatorio nei confronti dei colleghi, è diventato lui stesso il bersaglio del mobbing aziendale. La direzione l’ha trasferito in sale che ottenevano risultati scarsi in zone irraggiungibili della città per svolgere mansioni che non corrispondevano alle sue competenze.
“Mi sono ritrovato a gestire un punto vendita per il quale non avevo le competenze, che ho cominciato ad acquisire lì. Però c’è stata una parentesi di molti mesi in cui sono stato anche insultato o preso di mira dai collaboratori perché non ero in grado di soddisfare le loro richieste nei momenti di picco. Il taglio del costo del personale era un’ossessione, forse speravano addirittura che la sala non andasse bene per puntare il dito contro di me. In questo contesto bastava un piccolo ritardo, la malattia di una persona per mandare tutto in tilt. C’era chi viveva con il terrore di essere trasferito e ci siamo ritrovati a dire sì a qualsiasi richiesta, lavoro straordinario, non retribuito, pur di assecondare l’azienda”.
Questo clima tossico è durato anni, fino a che F. ha ceduto: “Ho avuto un crollo a livello fisico, con dermatiti, psoriasi e uno stato emotivo molto sbilanciato che ha cominciato a incrinare i miei rapporti familiari. Ho tre bambini piccoli, ma quando tornavo a casa ero sempre nervoso e tendevo a isolarmi. Anche il rapporto con mia moglie si stava incrinando, perché la comunicazione tra noi si era quasi interrotta. Tornavo a casa e il telefono aziendale squillava di continuo, c’era sempre un problema da risolvere”.
Anche per F., la pandemia è stata un punto di svolta. “Quando c’è stato il primo lockdown mi sono disintossicato. Sono stato un paio di mesi senza pensare al lavoro e mi sono riavvicinato alla famiglia. Ho ricominciato a giocare con i miei figli e a comunicare con mia moglie e mi sono reso conto di tutto quello che avevo accettato per non perdere il lavoro. Poi quando con la riapertura sono tornato al punto vendita ho avuto una crisi di rigetto. Non riuscivo a stare lì dentro. Ho avuto un attacco di panico, era un rigetto che non potevo controllare. Così ho cominciato un percorso terapeutico che continua ancora oggi”.
F. da un anno è in malattia e non ha alcuna intenzione di rientrare. I medici gli hanno diagnosticato una depressione reattiva e stati d’ansia dovuti allo stress accumulato sul luogo di lavoro. Ha dovuto fare un percorso terapeutico di un anno con il supporto di farmaci e antidepressivi solo per riuscire a parlarne.
Un movimento di protesta
Quelli di L. e di F. non sono casi isolati. La loro critica mette in discussione le basi dell’organizzazione del lavoro contemporanea: il crollo dei salari, i tagli all’organico e il clima vessatorio che sempre più spesso caratterizza il luogo di lavoro. F. parla di politiche “senza scrupoli” nei confronti dei lavoratori. “Qui comando io”, è stato l’argomento con cui l’azienda cercava di “ammorbidire” il personale costringendolo ad accettare ogni richiesta.
Da entrambi i lati dell’oceano, le persone che si dimettono si sono rese conto che il loro lavoro è diventato insostenibile, anche se non hanno un’alternativa. “È come quando finisce una relazione”, dice L.: a un certo punto diventa impossibile riallineare mente e cuore. Devi semplicemente liberarti”. Inoltre la pandemia ha spinto molti lavoratori a interrogarsi profondamente sul senso della loro vita. Non c’è solo la questione dei salari e delle tutele, o la richiesta di più autonomia, inclusa la possibilità, per chi vuole e può, di lavorare da remoto. C’è anche la tutela della salute di sé e degli altri. Forse è arrivato il momento, anche in Italia, di prendere sul serio queste richieste.
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