Giunta a conclusione, questa 37ª edizione del Cinema ritrovato ha ulteriormente accresciuto il suo successo. Anche le proiezioni dei film più rari straripavano di pubblico, al di là ovviamente della notevole accoglienza per quelle in piazza Maggiore. Come per The dreamers di Bernardo Bertolucci restaurato, dove la piazza era gremita di ragazzi fin sulle scalinate della chiesa. Per il festival si pone ora la questione di come ampliare il personale e gli spazi, ma su quest’ultimo punto la prossima riapertura curata dalla Cineteca di Bologna del cinema Modernissimo, situato a due passi da piazza Maggiore, potrebbe fornire una prima risposta.

Se la riappropriazione da parte del pubblico della memoria del cinema è in crescita continua, se cioè il vecchio attira e appare come nuovo, anche per via della sua indubbia potenza, in termini di selezione quello che quest’anno ci ha davvero sorpreso, attraversando le varie sezioni, proiezioni speciali e rassegne, è come ricorresse ben più del consueto la presenza di opere dove non solo la figura femminile era centrale ma lo era anche la rappresentazione, spesso fine, dei travagli dovuti alla collocazione sociale delle donne, che potremmo definire oppressione sociale.

Roma città aperta


Ed è stato fondamentale poter vedere come perfino tanto cinema classico hollywoodiano abbia saputo rappresentarla molto meglio di quanto si creda, malgrado imposizioni produttive e convenzioni, stereotipi, cliché con cui i registi dovevano fare i conti. La centralità data ad Anna Magnani, un’icona e insieme un’artista sia intellettuale sia parte del popolo che incarnava, e di cui abbiano parlato nell’articolo di apertura, era dunque un presagio.

Sguardo alto e anticonformista

Vi è per esempio la rappresentazione delle donne che agiscono da salvatrici gli uomini, in Spellbound – Io ti salverò (1945) di Alfred Hitchcock (Ritrovati e restaurati), proiettato in piazza Maggiore, e in altri splendidi film restaurati, in Man’s castle – Vicino alle stelle di Frank Borzage (1933) e in One way passage – amanti senza domani (1932) di Tay Garnett. Oppure in quanto persone socialmente oppresse che pensano solo a come dare un futuro ai figli, alle figlie soprattutto.

Lo ritroviamo moltissimo nei film della rassegna dedicata a Robert Mamoulian, che ha presentato quasi tutta la filmografia del regista. Una vera riscoperta, anche per l’inventiva e l’innovazione quasi d’avanguardia come abbiamo già scritto: in Love me tonight – Amami stanotte (1932), ambientato in una Parigi reinventata e con Maurice Chevalier nel ruolo principale, sembra di vedere qualcosa delle invenzioni di René Clair nel periodo surrealista, ma vi è pure un generoso sguardo umano sulla condizione femminile e così è negli altri suoi lungometraggi, soprattutto commedie e drammi molto ben condotti.

Spellbound


Ma tra le innumerevoli opere dove lo sguardo sulle donne si è fatto alto o anticonformista vi sono due film muti: tra le follie un po’ visionarie del festival forse la più significativa è quella di proporre dei film muti restaurati e accompagnati da orchestra in piazza Maggiore.

È il caso di Lady Windermere’s fan – Il ventaglio di Lady Windermere di Ernst Lubitsch (1925), adattamento dell’omonima pièce di Oscar Wilde. Stilizzato fino a raggiungere l’estremo della caricatura disegnata, le convenzioni sociali dell’apparire divorano le relazioni umane e il futuro delle donne. Ancor più vero nell’evento del festival, Stella Dallas di Henry King, sempre del 1925. Una successione di sequenze colorate, una prassi all’epoca, riesce qui a creare intensi climax, prossimi all’arte concettuale. Le immagini sono pure, perfette come il montaggio, le musiche in totale osmosi: la partitura originale è stata composta da Stephen Horne, orchestrata da Ben Palmer ed eseguita dall’orchestra del Teatro comunale di Bologna diretta da Timothy Brock. Tutto concorre a commuovere profondamente l’animo del pubblico: “La sua forza emotiva è tale che anche lo spettatore dell’ultima fila si ritrova completamente preso dalla storia”, scrive Pamela Hutchinson. Il pubblico era ipnotizzato, compresi i ragazzi che pensavano di andar via presto. La parola adeguata è una sola: sublime.

Le magie di Sembène e di Ouédraogo

Ma questa centralità del femminile era visibile anche nei film d’autore, sia in quelli presentati in Ritrovati e restaurati, sia in quelli di Cinema libero, la sezione dedita alle cinematografie lontane. Vogliamo però subito dire del nostro amore per i due film africani dove le figure femminili sono un po’ meno importanti, Yamam daabo – La scelta di Idrissa Ouédraogo (Burkina Faso, 1986) e Ceddo – The outsiders (1977) del senegalese Ousmane Sembène, figura emblematica del cinema africano di cui quest’anno ricorre il centenario. Censurato in patria fino al 1984, Ceddo è un film pazzesco: per rappresentare la criminale politica coloniale e la penetrazione politico-religiosa dell’islam in Africa in un momento qualsiasi del periodo storico tra il seicento e l’ottocento, non solo condensa due secoli di storia in due giorni scarsi ma lo fa mediante il prisma di un piccolo villaggio e perlopiù dalla sua piazza principale che si fa luogo di dibattito, rappresentazione, ricostruzione storica. E complotto sotterraneo.

Un microcosmo, quindi, che narra un macrocosmo. Ceddo è il nome della popolazione animista che rifiuta l’imposizione dall’alto della religione islamica che s’impossessa anche della corona: minoranza portata agli estremi, al fine di farsi sentire i ceddo rapiscono Dior, principessa della famiglia reale. I piccoli, i ceddo appunto, fanno la grande storia, sembra dire il regista che, nato in una famiglia poverissima di pescatori, mise al centro del suo lavoro la storia africana, la sua (ri)scoperta, come strumento di autonomia politico-culturale per le popolazioni dell’Africa.

Bushman


Grande è stata poi l’emozione di scoprire Yam am saabo, film d’esordio dalla difficile reperibilità di Idrissa Ouédraogo, un regista che abbiamo molto amato: indimenticabile la copertina dedicata dai Cahiers du Cinéma a Samba Traoré (1992), giustamente definito una sorta di western africano. Breve ed asciutto, è completamente immerso nella luce diurna, come quasi tutto Ceddo. La luce del giorno come paradigma dell’agire quotidiano. Ma per la maniera di rappresentare i personaggi del film – tutti famigliari del regista – per la narrazione da un lato parabola metaforica, ma che al contempo mantiene tutta la sua umanità, la semplicità e la profondità delle popolazioni contadine, richiama un po’ Abbas Kiarostami (Dov’è la casa del mio amico) però senza i bambini. Qui due belle e intelligenti ragazze appaiono e scompaiono dalla vegetazione – che è quasi una sorta di sipario “a pezzi” di un teatro naturale – proprio come i loro pretendenti. Ma la piccola e tuttavia dolorosa faida familial-amorosa che si scatena è anche lo strumento per raccontare la difficile scelta compiuta dai contadini del Sahel, che rifiutano gli aiuti internazionali per cercare altre terre, emanciparsi e ritrovare la loro dignità.

La capacità di questi film di echeggiare anche l’attualità contemporanea, la ritroviamo nello statunitense Bushman (1971) del compositore e polistrumentista David Schickele. Il film, di appena settanta minuti, è un ufo che non assomiglia a nulla, quasi sconosciuto e che andrebbe riportato nelle sale. Denso di atmosfera, filmato in un luminoso bianco e nero, con un’alternanza tra Stati Uniti e Nigeria, racconta di un giovane nero, Gabriel, che dalla Nigeria ha fatto il grande passo verso San Francisco per l’esattezza, e le sue ampie strade. Questo ragazzo empatico e carismatico, molto più intelligente e meno ingenuo di quanto creda lo sguardo bianco, subirà delusioni anche dal mondo liberal, progressista, un po’ vacuo e che sembra sapere tutto. Ma il finale della sua vicenda si ripercuote sul film stesso. Riguardo alle attuali espulsioni e deportazioni sempre più facili nei paesi ricchi di immigrati dei paesi poveri, e dove l’Africa sembra sempre un po’ condannata a subire, il finale di questo film ipnotico è un pugno allo stomaco dello spettatore.

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