A risollevare in chiusura un concorso che stava un po’ declinando in qualità, due eccellenti film intimisti e sociali al contempo, Hors-saison del francese Stéphane Brizé e Memory del messicano Michel Franco, quest’ultimo anche premiato. Peraltro un palmarès, quello di questa 80ª edizione della Mostra internazionale del cinema di Venezia, che nell’insieme ci pare davvero molto buono.
Come già l’anno scorso – ma dove il livello qualitativo dei titoli era un filo più alto – si è rivelata nel concorso principale una vera mostra del cinema inteso come espressione artistica, nella sua pluralità di forme e linguaggi anche se quest’anno mancava il grande documentario d’autore (vincitore l’anno scorso del Leone d’oro con Tutta la bellezza e il dolore di Laura Poitras).
E con Povere creature!, del greco Yorgos Lanthimos, ha vinto il Leone d’oro un vero film d’autore come non accadeva da decenni, anche se qui non abbiamo mai negato il valore di alcune produzioni hollywoodiane premiate – è stato il caso dell’eccellente Joker di Todd Philips – ma solo l’esagerazione e la sistematicità nell’assegnare il massimo premio della mostra alle opere degli studios statunitensi. Anche perché nel concorso veneziano non si sono viste finora opere del livello di Nope di Jordan Peele, Oppenheimer di Christopher Nolan o Asteroid City di Wes Anderson (presentato in concorso a Cannes, uscirà il 28 settembre).
È stata anche, va detto, la prima mostra, e da tempo, ad aver avuto una giuria composta prima di tutto da registi e registe, dal presidente della giuria Damien Chazelle all’australiana Jane Campion, insieme alla francese Mia Hansen-Løve, l’argentino Santiago Mitre, la statunitense Laura Poitras, l’anglo-irlandese Martin McDonagh, oltre a due attori, la cinese Shu Qi e il palestinese Saleh Bakri.
E per il brillante palmarès va ringraziato anche il direttore artistico Alberto Barbera, giunto al penultimo anno del suo mandato mentre finisce proprio quest’anno quello del presidente della Biennale, il produttore cinematografico Roberto Cicutto. A Barbera non abbiamo lesinato in passato forti critiche su alcune scelte, ma abbiamo anche riconosciuto alcuni grandi meriti, in primis l’aver introdotto nel concorso il documentario d’autore, che un tempo pareva un’eresia e oggi è una normalità di dimensioni internazionali, sebbene quest’anno, ma è già accaduto, sia stato relegato nel fuori concorso (Menus Plaisirs – Les Troisgros del veterano Frederick Wiseman).
Un cavallo di Troia
Certo, si potrebbe dire che il Leone al film di Lanthimos, caleidoscopio davvero folle ma di straordinaria coerenza nel ritrarre una donna in (ri)nascita che sfida tutte le convezioni e le manipolazioni sociali possibili, sia comunque un film effettistico e spettacolare, un’altra grande produzione hollywoodiana mediante un regista del cinema d’autore in trasferta nella macchina di produzione statunitense. E in parte in effetti lo è – il film, che batte bandiera britannica, sarà distribuito dalla Searchlight pictures-Disney – ma al contempo sarebbe molto difficile non riconoscere che questo è pienamente un film di Lanthimos dove ritroviamo tutto il suo stile e la sua visione del mondo anche per coloro, come noi, che hanno sempre rimproverato al suo cinema di impronta surrealista un eccesso di estetizzazione ridondante.
Si può anzi dire che il regista abbia usato a sua volta la produzione angloamericana come un cavallo di Troia per inserirci una moltitudine di soldatini d’assalto portatori dell’autorialità, e di quella più strana. Facendo centro alla grande. È già accaduto in tempi recenti, basti pensare a quando Pedro Almodovar si è fatto produrre dalla Warner Madres Paralellas – film d’apertura a Venezia nel 2021 – e gli è riuscito uno dei suoi migliori film degli ultimi anni oltre che molto politico, aspetto ben raro nel suo cinema. Il fatto che accada poi da parte di un autore proveniente dalla travagliata Grecia accresce ulteriormente il significato simbolico di questo premio.
Qualcosa di nuovo si muove nel cinema italiano e, nel caso di Io capitano, fin dalla produzione
Siamo contenti del Leone d’argento - Premio per la miglior regia – il terzo premio nella gerarchia del palmarès veneziano – andato a Io capitano di Matteo Garrone: ne abbiamo scritto nella precedente cronaca veneziana e Annalisa Camilli ha lungamente intervistato Garrone, tuttavia meriterebbe ulteriori analisi e approfondimenti per il suo coraggio e la sua profondità. Per noi, lo scriviamo senza retorica, quest’opera profondamente umana dove il dolore è inseparabile dall’amore, avrebbe anche meritato il Leone d’oro o quantomeno l’ex-aequo con Povere creature!
Il fatto che Io capitano stia andando molto bene in oltre duecento sale, malgrado sia recitato in francese e soprattutto in wolof, aspetto coraggioso rivendicato esplicitamente da Paolo Del Brocco di Rai Cinema, è un ulteriore dimostrazione che qualcosa di nuovo si muove nel cinema italiano e in questo caso fin dalla produzione. Ai lettori chiediamo di non spaventarsi: i dialoghi non sono poi così tanti e densi se comparati a molti film statunitensi di successo – da Oppenheimer all’imminente Asteroid city – i silenzi e le sequenze puramente visive non mancano affatto. Sarebbe anche importante che il film fosse visto da quella parte di pubblico non del tutto insensibile al tema ma che si fa facilmente influenzare dalla politica di propaganda della destra fondata sulla manipolazione dei dati e sulla paura: e se ogni spettatore che ha amato il film ne portasse al cinema almeno un altro che altrimenti non andrebbe a vederlo?
Quanto ad Aku wa sonzai shinai (Il male non esiste) di Ryusuke Hamaguchi, vincitore del Leone d’argento - Gran premio della giuria che arriverà in sala grazie all’alleanza tra la Teodora film e la Tucker film (che ha portato nelle nostre sale gli due ultimi film del regista), se immaginate un ibrido tra il miglior film didascalico di denuncia e un film d’autore profondo, antropologico e simbolista avrete chiaro cos’è lo strano ufo giapponese. Fine opera ambientalista e insieme interiore, non sarebbe in concorso a Venezia se Locarno prima e poi Cannes non avessero rivelato questo autore complesso quanto unico: considerando quanto la cinematografia dell’estremo oriente sia una delle più vive e innovative, resta grave la scarsa attenzione che gli riserva la selezione ufficiale.
Quello del didascalismo di tanto cinema d’autore, bello e meno bello, è stato peraltro il comune denominatore di molte opere viste qui. È anche il caso di Zielona granica (Il confine verde) della veterana del cinema polacco Agnieszka Holland. Vincitore del Premio speciale della giura, arriverà in sala con la Movies inspired. Incentrato sulla sottile quanto terribile linea di confine che separa la Polonia dalla Bielorussia e sui tanti morti e le tante umiliazioni inflitte a chi tenta una nuova vita, girato in un bianco e nero potente che spesso somiglia all’incubo, la sua energia è alta quanto il coraggio della regista di 74 anni che dipinge il suo governo come molto prossimo all’estrema destra nazionalista.
Memory, del messicano Michel Franco, è un gran film intimistico di denuncia della pedofilia in famiglia. Ma riesce a farlo spostando continuamente quelli che sarebbero i punti di riferimento più ovvi per lo spettatore. Il culmine lo raggiunge il finale, tra i più belli visti qui, che deve molto anche all’attore protagonista maschile, Peter Sarsgaard, premiato con la Coppa Volpi. Lo porterà nelle sale la Academy Two.
Infine, il delicatissimo Hors-saison di Stéphane Brizé – ignorato dalla giuria sarà distribuito in sala dalla I Wonder Pictures – è didascalico nell’enunciare in maniera programmatica (quasi come mosso dall’intelligenza artificiale) una depressione lavorativa e insieme esistenziale, che invece è libera e suggestiva, nonché capace di raccontare i sentimenti interiori spesso solo visivamente nella parte amorosa, ambientata in buona parte in mezzo alla natura, pittorica con discrezione e che richiama il Maupassant del medesimo regista (Une vie, 2016). L’opera del festival che mette in dialettica le due anime opposte del cinema contemporaneo.
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